In diversi paesi occidentali , a partire dagli USA, si sta seguendo la strada del welfare aziendale e/o contrattuale. Anche i sindacati italiani sono decisi a seguirla e l’argomento costituisce uno dei capitoli del documento unitario delle tre Confederazioni CGIL, CISL e UIL del 14-01-2016. In fatto, essi sono stati anticipati dal governo Renzi che ha messo delle norme ad hoc nella legge di stabilità per il 2016.

Secondo una ricerca passata al vaglio del CNEL (ora abrogato) “Per welfare aziendale si intende genericamente l’insieme dei benefit e delle prestazioni non monetarie erogati e promossi dalle imprese al fine di incrementare, migliorare e sostenere la vita economica e sociale dei dipendenti di un’azienda e del loro nucleo familiare, in una dimensione di benessere e cittadinanza aziendale. Tipicamente, tali servizi includono diverse forme di tutela (ad esempio, la protezione della salute tramite parziale copertura di assistenza sanitaria, o la tutela di forme di reddito tramite pensioni integrative), servizi quali misure di sostegno alla conciliazione tra lavoro e vita privata (orari flessibili, congedi, contratti part-time, ”lavoro agile”, ecc.), sostegno al reddito familiare, all’istruzione e all’educazione dei figli, all’assistenza alla persona (dipendenti, famiglia, bambini e anziani), e agevolazioni di carattere commerciale o proposte di servizi per il tempo libero” (Confedir-Cnel 2014).

Sull’argomento c’è ormai una vasta letteratura essendo che la tesi del welfare aziendale in Europa parte proprio dalla crisi del welfare state gestito prevalentemente dall’operatore pubblico, alias, dalla c.d. crisi fiscale dello Stato. È chiaro e risaputo che il welfare universale comporta alti costi di finanziamento ma da qui a sostenere che il welfare state non è sostenibile ce ne passa. Nelle società avanzate vale la legge di Wagner secondo cui al crescere del reddito medio-pro-capite cresce la quantità di beni pubblici. Da qui la crescita della spesa al netto di inefficienza e corruzione. Che lo Stato sociale debba diventare azienda sociale ce ne passa. Ben venga negli USA la disponibilità di Starbucks a finanziare gli studi anche di terzo livello dei suoi dipendenti e relativi figli. Accanto a Starbucks abbiamo anche Walmart che taglia drasticamente i diritti dei lavoratori. Ma questi restano episodi non molto frequenti e non si risolvono così i problemi dell’istruzione, della formazione permanente, della sanità, dell’assistenza e della previdenza.

Diversa apparentemente sarebbe la motivazione delle tre Confederazioni nell’intraprendere la strada del welfare aziendale e/o contrattuale.
“Contemporaneamente, l’obiettivo di Cgil, Cisl e Uil è quello di rafforzare,
quantitativamente, attraverso una sua maggiore estensione e, qualitativamente, attraverso un regolato trasferimento di competenze, la contrattazione di secondo livello, con l’obiettivo di realizzare il miglioramento delle condizioni di lavoro con la crescita della produttività, competitività, efficienza, innovazione organizzativa, qualità, welfare contrattuale, conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Tali obiettivi vanno perseguiti anche attraverso il beneficio delle agevolazioni fiscali e contributive previste dalla legge”. Così nel documento CGIL-CISL-UIL160114

Mi sembra opportuno ripetere che produttività e competitività non dipendono solo da quello che si fa all’interno dell’azienda. Occorre che l’azienda si collochi nel contesto adeguato senza gravi diseconomie esterne materiali ed immateriali. Ma il punto più delicato è forse quello finale secondo cui gli obiettivi sarebbero conseguibili attraverso il beneficio delle agevolazioni fiscali e contributive. Forse non ci si rende conto che in questo modo si rovesciano i presupposti le fondamenta su cui è costruito il Welfare State. Non si tratta di attuare la “cittadinanza aziendale”, un ossimoro, ma la cittadinanza nazionale e universale, ossia, attuare in pieno e per tutti i diritti fondamentali, civili e sociali. Se a 45 anni dallo Statuto dei lavoratori – negli ultimi anni martoriato da diverse riforme deformanti – torniamo a parlare di diritti all’interno delle fabbrica e/o degli uffici pubblici, si vede che negli ultimi decenni il sindacato non ha saputo salvaguardarli.
Per questi motivi, ritengo che appoggiare il welfare al contratto aziendale comporta un cambiamento radicale di paradigma che, peraltro, opportunisticamente, non esclude l’intervento dello Stato anzi lo richiama in termini di incentivi e/o di imposta-spesa per i salari di produttività (con complicazioni nella gestione delle buste paga); per la previdenza complementare (pensioni integrative); per assicurazioni sanitarie aggiuntive; per il sostegno del reddito familiare; per la partecipazione agli utili dell’impresa; ecc.. Tutto bene e i costi? Coinvolgere imprese, assicurazioni, fondi pensioni e quant’altri non avviene a costo zero. Io trovo un’analogia con quanto avviene in generale con le esternalizzazioni o con la fornitura di servizi vari da parte di enti non profit. Secondo Giovanni Moro (2014:160), in questo modo, si realizza una specie di alleanza tra neoliberismo e cultura delle opere pie contro lo Stato. Ma quello che è peggio non ci si rende conto che, in questo modo, in via tendenziale, si lascia allo Stato un ruolo residuale. I fautori del welfare aziendale sostengono che, così facendo, si assicura ai lavoratori non solo un salario monetario ma anche il salario sociale. Belle parole ma ai disoccupati e agli inoccupati e alla massa dei lavoratori ai quali non sono generalizzabili detti benefici che cosa assicuriamo? Non c’è il rischio di aggravare la disuguaglianza tra gli insiders e gli outsiders?

Il meccanismo che le controparti propongono prevede il ricorso massiccio alle esternalizzazioni e si affida la produzione di servizi a privati senza fare una valutazione preliminare dell’efficienza, ossia, uno straccio di analisi costi e benefici, avremo situazioni analoghe a quelle che abbiamo avuto dopo le massicce privatizzazioni senza liberalizzazioni e/o con le esternalizzazioni fin qui operate a tutti i livelli di governo: dopo le privatizzazioni e le esternalizzazioni collusive, gli utenti pagano i servizi più cari. E ancora in omaggio alla brillante idea PPP, prodotta dall’Europa liberista, si promuovono le private-public-partnership e/o imprese miste e, di nuovo, quantità e qualità dei servizi non aumentano.

I fautori del welfare aziendale dicono che così si crea valore aggiunto ma questo, in termini di stretta contabilità pubblica, si crea anche quando in un’impresa municipalizzata ci sono dipendenti in esubero e/o quando si pagano le forniture di beni e servizi necessari alla produzione a prezzi maggiorati vuoi perché c’è la corruzione vuoi perché certi prezzi incorporano rendite monopolistiche. Sono i paradossi che caratterizzano la metodologia di calcolo del PIL. Non sto giustificando l’inefficienza dell’operatore pubblico. Dico che l’efficienza del privato come del pubblico va dimostrata preliminarmente. Non è più accettabile l’idea aprioristica secondo cui i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato. La sanità USA (un mix di privato e pubblico) costa il doppio della media dei Paesi OCSE; il sistema delle pensioni private costa di più e rende meno ai beneficiari per un’ovvia considerazione: le imprese di assicurazioni non sono enti non profit.

Il fatto che ci sia un “nuovo” approccio cooperativo e/o consociativo tra le imprese e i sindacati dei lavoratori è un fatto positivo purché non si ricada negli errori del passato. Mi riferisco ai primi anni 70 quando i sindacati erano al massimo della loro potenza negoziale e contrattavano anche alcune forme di welfare tra quelle sopra menzionate. Intanto allora, in Italia, c’era un sistema di welfare ancora meno sviluppato di quello attuale. Un esempio emblematico, allora il Comune di Bologna aveva un copertura al 100% del fabbisogno di asili nido ma era il Comune più indebitato d’Italia. Da ammiratore della impresa-comunità olivettiana sono favorevole all’idea che certi servizi sociali possano essere prodotti in azienda o accanto ad essa purché queste esperienze siano generalizzabili in misura significativa. Altrimenti rischiamo di creare alcune limitate aree felici – secondo alcuni di privilegio – con il contributo dei soldi del contribuente mentre gli altri lavoratori continueranno a utilizzare servizi sociali inadeguati perché non rispettano i livelli essenziali di assistenza e delle prestazioni.

Ci sono già calcoli abbastanza affidabili sui fabbisogni e costi standard e, quindi, ci sono e ci saranno sempre più i termini di riferimento per fare analisi costi e benefici delle gestioni esternalizzate rispetto a quelle pubbliche. Incentivi ed agevolazioni dovrebbero essere selettivi, mirati e soprattutto temporanei. In teoria, se uno volesse applicare il principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 comma 4 Cost. ) in maniera rigorosa l’operatore pubblico dovrebbe astenersi dall’intervenire, in qualsiasi modo, su tutto quello che il privato svolge bene. Sappiamo però che questa è un ipotesi utopistica e, quindi, non si può escludere l’intervento sussidiario dell’operatore pubblico. Anzi nel nostro caso, l’operatore pubblico ai vari livelli favorisce l’autonoma iniziativa di singoli o associati nello svolgimento di attività di interesse generale. Alias eroga sussidi ai suddetti soggetti senza una seria verifica della sussistenza dell’interesse generale e, peggio ancora, senza controlli ex post. Da qui secondo Moro cit. l’abnorme sviluppo del c.d. terzo settore.

Se stiamo parlando di attuazione di diritti fondamentali, civili e sociali sul serio allora dico che come cittadino mi sento maggiormente garantito se il garante ultimo di tali diritti é lo Stato o l’Unione europea a cui aderiamo e che in materia ha sviluppato anche una consistente giurisprudenza.
Stiamo uscendo – si spera – da sette anni di depressione avendo perso 10 punti di PIL e avendo la disoccupazione vicina all’11%. Si racconta la favoletta secondo cui con il welfare aziendale si darebbe una spinta agli incrementi di produttività dei lavoratori meglio gratificati e più sereni. Ma la produttività del lavoro dipende più direttamente dalle loro qualifiche e dalla migliore dotazione di capitale materiale e immateriale. E se uno guarda al problema della produttività negli ultimi 25 anni, è ragionevole pensare che l’economia italiana sia affetta da stagnazione secolare come il Mef Padoan ha ammesso recentemente. La detassazione del salario di produttività c’è dal 2008 ma nessuno ha dimostrato che essa abbia prodotto significati incrementi di produttività. Ammesso pure che incrementi ci siano stati, che apporto hanno potuto dare alla produttività del sistema economico? Secondo me trascurabile sulla base di un semplice calcolo. Per il 2016 la legge di stabilità per il salario di produttività prevedere di spendere 430 milioni di euro. Con il tetto di 2000 euro, elevabile a 2.500 in caso di attivazione di procedure di partecipazione, potrebbero essere interessati 215.000 lavoratori con salari sino a 50 mila euro; a parte i complicati problemi di corretta misurazione degli incrementi di produttività, se anche fossero 300 mila o più i lavoratori coinvolti, non mi pare che essi possano avere un impatto significativo sulla produttività media del sistema.
Il governo, da un lato prevede bonus a questa o a quella categoria, dall’altro taglia i fondi della sanità, progetta l’ennesima riforma delle pensioni, riduce i fondi per l’Università, la ricerca e il diritto allo studio. È riuscito a produrre una legge di stabilità con 997 commi (204 pagine della GU). Ma non ci sono scelte fondamentali di forte impatto economico se non quella altamente criticabile e criticata dell’abrogazione delle tasse sulla prima casa. Credo che la priorità sia una nuova politica economica in grado di innescare un processo di crescita del reddito e dell’occupazione. Data la struttura del nostro sistema economico, il welfare aziendale spinto ai confini di cui si parla nel documento delle tre Confederazioni non è generalizzabile e, se così, è alto il rischio che esso alimenti le disuguaglianze tra i lavoratori. In altre parole, a mio parere, la priorità deve essere la creazione di diversi milioni posti di lavoro e la difesa decisa del welfare statale per renderlo più efficiente ed efficace. Le scarse risorse dell’operatore pubblico non possono essere disperse in mille rivoli.