Molti ci dicono che il compito dei sistemi elettorali è quello di assicurare la stabilità del governo e della legislatura e la governabilità del Paese. Non è così perché le due parole vengono utilizzate come sinonimi e, invece, tali non sono. In generale la stabilità può essere condizione necessaria ma non sufficiente per la governabilità. Nel Paese del Gattopardo dove spesso si cambia tutto per lasciare le cose come stanno, e dove prevale l’approccio secondo cui i problemi si risolvono con l’approvazione di nuove leggi che poi rimangono inattuate neanche le due condizioni di necessità e sufficienza funzionano. Aggiungo che i politici governanti, non di rado, spacciano per governabilità la stabilità del loro governo coerentemente con l’osservazione secondo cui il vero obiettivo dei governanti è quello di massimizzare il loro potere oltre che prolungarlo nel tempo. PQM vale la pena di precisare che governabilità è la capacità di un governo di risolvere sul serio i problemi del Paese e, in particolare, quelli delle classi più deboli. Per stabilità loro intendono che il governo e la legislatura durino tutto il tempo ordinariamente previsto per la seconda e/o per più legislature se rieletti. Ma se un governo dopo un anno o due non riesce a risolvere i problemi come sopra o, addirittura, fa solo gli interessi dei più forti, è meglio mandarlo a casa al più presto possibile.
A chi fa il confronto con la situazione della prima Repubblica mi sento di dire che tale comparazione non è molto appropriata perché con la caduta del Muro di Berlino (1989) e l’implosione dell’Unione Sovietica (1991), la situazione in Europa e specialmente in Italia è veramente cambiata. Nella prima Repubblica l’alternanza al governo non era possibile per via del vincolo estero. La Democrazia Cristiana aveva una cospicua maggioranza relativa con il sistema elettorale di tipo proporzionale. Il sistema era bloccato. Quando nel 1976 Aldo Moro, più per necessità che per virtù, organizza il governo di solidarietà nazionale associando il PCI al governo, pagherà con la vita detta scelta che altri, in Italia e all’estero, ritenevano sbagliata. Negli anni ’90 prima con la legge n. 81/1993 per la elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti dei consigli provinciali e poi con quella per l’elezione diretta dei presidenti delle Regioni a statuto ordinario (l. n. 43/1995 poi costituzionalizzata con l’art. 5 della legge costituzionale n. 1/1999) si va ad una forte torsione in senso maggioritario. In tutta sintesi, dette leggi hanno assicurato la stabilità ma di certo non la migliore governabilità nella maggior parte delle regioni e degli EELL. Prima c’erano frequenti crisi dei consigli comunali, provinciali e regionali e dopo no, ma la qualità del prodotto non è cambiata, anzi, a mio giudizio, per alcuni aspetti è peggiorata.
Per il livello nazionale, sempre nei primi anni ’90, con l’approvazione delle leggi 276 e 277 del 4-08-1993 si introdusse un sistema elettorale composito che prevedeva un maggioritario a turno unico per la suddivisione del 75% dei seggi delle due Camere e un recupero proporzionale (e differenziato tra Camera e Senato) del 25% dei rimanenti seggi. Per la Camera era anche previsto uno sbarramento al 4%. Il c.d. Mattarellum ha eletto tre legislature, ha consentito l’alternanza ma nel 2005 è stato abbandonato perché, in modo diretto o indiretto, si voleva passare all’elezione in fatto diretta del premier. Le analisi dei politologi di allora dicevano che si trattava di un maggioritario coatto perché costringeva a formare coalizioni eterogenee. Nel 2005, contestualmente alla riforma costituzionale – fatta approvare da Berlusconi a colpi di maggioranza assoluta – veniva approvata la legge elettorale Calderoli n. 270/2005 proporzionale, con premio di maggioranza e liste bloccate. Queste ultime consentono alle oligarchie centralistiche dei partiti di nominare gran parte dei Deputati e Senatori. È stata utilizzata per le elezioni del 2006 quando favorì l’elezione di Prodi del partito di opposizione, nel 2008 e nel 2013. Il Professore veniva messo in minoranza ad opera di Veltroni per interposta persona (Mastella) facilitato dal fatto che al Senato il governo aveva una esigua maggioranza. Inoltre Prodi e Tommaso Padoa Schioppa, a fine 2006, attuavano una manovra lacrime e sangue con la legge finanziaria 2007 che scontentava molta gente e facilitava la vittoria di Berlusconi che, invece, prometteva riduzioni massicce delle tasse e, in particolare, di quelle sulle prime case. Nel 2008 ritornava al potere Berlusconi con una cospicua maggioranza ma nel 2011, essendosi screditato da solo all’interno e all’esterno dell’Italia, anche lui perdeva la guida del governo ad opera del Presidente Napolitano. Ricordo questi particolari per far vedere come, al di là della bontà del sistema elettorale, la stabilità è assicurata da altri fattori che hanno a che fare con la qualità della leadership e con le rivalità all’interno dei diversi partiti e/o coalizioni di governo. Nel 2011 il Presidente della Repubblica Napolitano iniziava la serie dei governi del Presidente sino all’attuale imprimendo una forte torsione autoritaria e presidenzialista al sistema istituzionale.
Prima di entrare nella valutazione di una qualsiasi proposta di sistema elettorale voglio fare una considerazione preliminare. L’Italia è una società fortemente pluralista al limite del frazionismo esasperato. Da un lato, il pluralismo è l’essenza della democrazia. Senza diversità di preferenze e valori non ci sarebbero problemi di rappresentanza e rappresentatività. In altre parole, se tutti avessimo le stesse preferenze per gli stessi valori, se tutti condividessimo la stessa teoria della giustizia sociale, potremmo affidarci ai computer per risolvere facilmente i problemi economici e sociali in relazione alle risorse scarse, alias, massimizzare la funzione del benessere sociale. Ma sappiamo che non è così. Gli italiani hanno interessi e valori molto diversificati non necessariamente convergenti e serve il lavoro serio ed onesto dei rappresentanti per ricondurli a sintesi e/o operare i necessari bilanciamenti. Siccome questo problema non è risolvibile con gli strumenti della democrazia diretta, serve un sistema elettorale che scelga i rappresentanti e che operi un certo bilanciamento tra i due obiettivi della governabilità e della stabilità delle maggioranze fermo restando che non sono due obiettivi naturalmente convergenti ma, in pratica, quasi sempre divergenti. Occorre quindi procedere a dei bilanciamenti più o meno appropriati.
Da Condorcet a oggi matematici, statistici e premi Nobel per l’economia hanno studiato i sistemi elettorali allo scopo di migliorare le procedure delle scelte pubbliche. Non è il mio caso, ma per capire meglio ho studiato la letteratura sull’argomento e ho seguito all’Università qualche seminario scientifico sull’argomento. Prima di sceglierli i sistemi elettorali andrebbero simulati con modelli statistico-matematici che oggi possono contare, in alcuni paesi, su una straordinaria abbondanza di dati (c.d. big data), che, in un modo o nell’altro, rilevano le preferenze degli elettori. In breve, la conclusione è che, in teoria, non esiste un sistema elettorale ottimo per tutti i Paesi e per tutti gli usi. Il sistema elettorale può essere paragonato ad un vestito che va ritagliato e allestito su misura sul corpo degli elettori e siccome non c’è un vestito adatto per lavorare in una cava e, allo stesso tempo, per andare ad una festa, bisognerebbe avere diversi vestiti a seconda delle esigenze. In Italia di sistemi elettorali per lo più si occupano o giuristi senza alcuna familiarità con i modelli di simulazione o statistici e sondaggisti senza alcuna cultura istituzionale. Cerco di spiegarmi meglio con un esempio relativo alla nostra recente esperienza. Per scrivere o riscrivere una costituzione serve un sistema elettorale che assicuri il massimo di rappresentatività delle diverse componenti della società. PQM opportunamente si eleggono le assemblee costituenti con sistemi elettorali di tipo proporzionale. Un sistema un po’ meno proporzionale e/o maggioritario che incoraggi il compattamento delle diverse forze politiche può andare bene per l’elezione del Parlamento. Ancora diverso è il problema dell’elezione diretta del capo del governo a seconda che siamo in regime di separazione netta dei poteri, a seconda che nella società prevalga una forte coesione sociale che, a sua volta, dipende dalla più ampia condivisione dei valori alla base dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone. Vale la pena sottolineare il punto della differenza tra l’eleggere una o due camere dei rappresentanti ed eleggere direttamente il governo. In quest’ultimo caso, si esce dalla Repubblica parlamentare e si entra in quella del premierato assoluto. La missione fondamentale del governo è governare, quella dei rappresentanti è appunto di rappresentare le esigenze dei cittadini-elettori e controllare l’attività del governo. Senonché le preferenze e/o i bisogni collettivi dei cittadini possono cambiare anche durante l’arco temporale di una legislatura mentre la funzione di controllo resta ordinaria e permanente. Se le missioni sono diverse sarebbe opportuno avere sistemi elettorali diversi per il governo e per le camere rappresentative. È quello che prevede la Costituzione degli Stati Uniti con la problematica separazione netta dei poteri che non piace alla stragrande maggioranza dei costituzionalisti e politologi italiani e, meno che mai, ai politici italiani. Il modello del Sindaco d’Italia previsto nella riforma costituzionale appena bocciata voleva un Parlamento asservito al governo. E il governo dalla notte dei tempi tende ad essere autocratico e/o autoritario. Sta lì per decidere e valorizza le proprie preferenze specialmente quando i programmi di governo sono formulati in termini generici e le preferenze dei cittadini-elettori non sono facilmente aggregabili.
Ma al di là dell’ingegneria istituzionale, sinteticamente, G. Zagrebelsky ha affermato che le “costituzioni sono come dei vestiti. Si indossano bene se coprono un corpo sano”. Cito a memoria: se vengono cucite addosso ad un corpo malato, ossia, una società che non ha una teoria della giustizia sociale largamente condivisa, una società dove c’è una forte propensione alla delega. Una società che percepisce come iniquo ed inefficiente il sistema di governo, anche “la più bella costituzione del mondo” non funziona perché, in pratica, non trova il consenso necessario per attuarla. Questo vale anche per i sistemi elettorali. Se nella società c’è forte coesione sociale ed etica della responsabilità, al di là dei dati numerici e dei partiti, le parti più responsabili delle diverse forze politiche assicurano governi e governabilità. Altrimenti no. Un esempio preclaro è quello degli Stati Uniti che, per oltre due secoli, il Paese è stato governato dall’accordo bipartisan tra le ali moderate del partito democratico e di quello repubblicano, isolando nel Congresso le ali estremiste dell’uno e dell’altro partito. Come noto, negli Stati Uniti le due Camere e il Presidente sono eletti con sistemi elettorali diversi e diversa è la durata dei rispettivi mandati: due anni per la Camera dei rappresentanti, 4 anni per il Presidente, 6 anni per i senatori che però si rinnovano per 1/3 ogni due anni. Credo che solo in Italia sedicenti esperti di sistemi elettorali cercano un sistema elettorale che assicuri la stessa maggioranza sia alla Camera che al Senato. Ma se Deputati e Senatori devono essere dei cloni che senza discutere e senza possibilità di modificare i ddl proposti dal governo, che senso ha avere il bicameralismo paritario o differenziato?
I più ci dicono che eleggere le due Camere con due leggi elettorali diverse significherebbe avere due Camere ingovernabili. E già perché il problema è quello di governare, alias, sottomettere ai voleri del governo i rappresentanti del popolo sovrano. Se questa resta la volontà delle forze politiche dopo l’esito del referendum, la democrazia resta in pericolo perché, in questo modo, salterebbe la separazione dei poteri che è l’essenza dello Stato di diritto. Le forze conservatrici hanno in mano l’arma della riforma elettorale e questa è altrettanto pericolosa della riforma appena bocciata. Prima i conservatori rifiutavano di discutere il combinato disposto perché la riforma sottoposta a referendum era una legge costituzionale mentre il sistema elettorale è previsto da una legge ordinaria. Ora ci dicono: discutiamone ma gli obiettivi fondamentali restano gli stessi. Si dobbiamo discuterne ma liberamente e con il massimo di chiarezza, soprattutto, al riguardo degli obiettivi che si intendono perseguire. Dobbiamo conoscere bene tutte le implicazioni e le problematiche relative alla scelta tra diversi sistemi elettorali e i dettagli delle loro varianti. Lo ripeto si tratta di scegliere tra un sistema elettorale unico con obiettivi plurimi per lo più inconciliabili tra di loro o sistemi elettorali diversi per Camere elettive diverse. Dobbiamo sapere che apprendisti-stregoni sono al lavoro e che il loro obiettivo è asservire i rappresentanti del popolo sovrano al governo che, non di rado, si piega agli interessi della finanza rapace. La vittoria referendaria non deve indurci ad abbassare la guardia.

Note:
Legge 25 marzo 1993, n. 81: Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale Pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 72 del 27 marzo 1993;
Legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario – c.d. “Tatarellum”). Tale normativa è stata successivamente costituzionalizzata dal legislatore costituzionale che, all’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999;
Le leggi 4 agosto 1993 n. 276 e n. 277, (c.d. Mattarellum) e introdussero in Italia, per l’elezione del Senato e della Camera dei deputati, un sistema elettorale misto maggioritario a turno unico per la ripartizione del 75% dei seggi parlamentari; proporzionale differenziato (con scorporo al Senato, liste bloccate e sbarramento alla Camera) per il 25% dei residui seggi.