Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016.
Uscire dall’euro, dall’Unione europea, tornare allo stato nazionale, alla sovranità monetaria democratica, rinominare il debito pubblico, assumere misure protezioniste. E vivere felici e contenti in uno splendido isolamento.
Bisogna uscire dall’euro perché la moneta unica è stata costruita e voluta non perché un mercato unico alla lunga non può funzionare senza una moneta comune ma perché l’euro è stato determinatamente creato per abbattere il conflitto sociale e il welfare state.
Ora verrebbe subito di dire che se la tesi di Sergio Cesaratto fosse fondata, basterebbe abolire tutte le monete nazionali per vivere in un mondo senza conflitti sociali e distributivi. Ora la storia dell’Italia repubblicana è piena di conflitti sociali che non stiamo a ripercorrere fin dall’inizio. Il conflitto sociale nei regimi liberaldemocratici è determinato quando all’interno dalle parti sociali e tra di esse non si trova un accordo e non funziona neanche la mediazione del governo. C’è una grande letteratura sull’argomento ma, per brevità, vogliamo riferirci solo agli ultimi 15 anni in cui c’è l’euro. Il 5 luglio 2002 grazie all’astuzia di Berlusconi e Tremonti le parti sociali, tranne la CGIL, firmano un Patto per l’Italia che, per molti versi, richiamava la c.d. strategia di Lisbona definita a livello europeo e poi fallita miseramente. Detto Patto ha prodotto una importante divisione sindacale che pesa ancora sulla efficacia dell’azione sindacale. In secondo luogo, l’euro non c’entra niente con i tentativi peraltro non riusciti di smantellare lo stato sociale. Lo strumento che l’Unione utilizza a questo scopo è la concorrenza fiscale interna senza regole nell’illusione di “affamare la bestia” riducendo le entrate tributarie. In molti paesi membri PM (Svezia, Danimarca, ecc.) ci sono stati cambi di maggioranza ma il welfare state non ha subito drastici ridimensionamenti. Più in generale, è illogico pensare che di per sé la sola moneta possa perseguire simili complessi obiettivi. Negli USA degli anni ’30 il dollaro non ha impedito al Presidente Roosevelt di introdurre il New Deal e fondamentali istituti della previdenza sociale con leggi federali. Solo a partire dal 1975 (fine dei trenta gloriosi in Europa) la Corte suprema degli USA inizia il c.d. federalismo giudiziario restituendo gradualmente agli stati federati alcune competenze in materia previdenziale ma, di nuovo, questo ha poco o niente a che fare con il dollaro.
Tornare alla sovranità nazionale. In un mondo di forti interdipendenze economiche, nel mercato globalizzato, tornare alle sovranità nazionali è una illusione. Nessun paese è autosufficiente. Per l’energia molti paesi dipendono dall’OPEC. Da quando è stata costituita (settembre 1960) questa organizzazione internazionale tra i paesi produttori di petrolio non ha mancato di far valere le sue domande specialmente a partire dagli anni 1970 quando, provocando due forti shock nei prezzi del greggio, mise a dura prova la resistenza di alcuni paesi grandi importatori di petrolio e determinò un forte conflitto distributivo a livello internazionale. E gli esempi potrebbero continuare con riguardo al commercio di altre importanti materie prime. Proponendo di tornare alla sovranità nazionale i c.d. sovranisti di destra e di sinistra trascurano che il termine sovranità etimologicamente viene da sovrano assoluto. Vero è che oggi non ci sono più i sovrani assoluti ma sfortunatamente ci sono in giro dittature più o meno feroci o – se preferite – più o meno soft che bloccano il processo democratico all’interno dell’assemblea delle Nazioni Unite. Resta vero che il termine sovranità viene da quello di sovrano e quando c’erano i sovrani assoluti c’erano i sudditi con diritti molto limitati. Non c’erano i cittadini-elettori che con il loro voto possono cambiare le istituzioni rappresentative e gli uomini che le animano. Oppure dobbiamo credere che neanche i sovranisti di sinistra credono nella sovranità del popolo di sinistra e nella sua capacità di cambiare le cose?
Parlare poi di sovranità monetaria democratica è un inganno. Dalla notte dei tempi i sovrani quando volevano tassare in maniera surrettizia i propri sudditi ricorrevano al c.d. signoraggio, ossia, al cambio delle monete d’oro con quelle di argento e via via riducendo la quantità di metalli pregiati nelle nuove monete. Da cinquant’anni a questa parte – più o meno – gli economisti e i politologi, a fronte della gestione politicizzata della politica monetaria a sostegno del ciclo politico-elettorale dei governanti di turno hanno teorizzato e “imposto” in tutti i principali paesi occidentali una gestione autocratica e/o tecnocratica della politica monetaria in nome del superiore interesse della stabilità dei prezzi, sottraendola alle cangianti maggioranze politiche e, quindi, al controllo politico diretto. Quindi parlare di sovranità monetaria democratica è un fuor di luogo.
Usciti dall’euro e magari anche dall’UE, tutto procede per il meglio secondo SC. In realtà (a p. 308) spiega che non si può uscire a freddo perché le conseguenze sarebbero disastrose ma ritiene che lo si possa fare in due sole circostanze particolari: una grave crisi politica (ad es.: la vittoria della Signora Le Pen in Francia) oppure in caso di “insostenibilità politica dell’euro”. Non spiega che cosa significhi esattamente questa seconda ipotesi ma tant’è. Basta rinominare il debito pubblico e via. Secondo me, SC voleva riferirsi all’insostenibilità del debito pubblico senza crescita economica ma non voglio fare il processo alle intenzioni e andiamo avanti.
Non spiega nemmeno che cosa significa “rinominare”. In termini pratici, può significare due cose: a) tradurre il debito in una lira sulla carta con pari potere d’acquisto dell’euro, ossia, senza svalutazione; b) incorporare una data svalutazione nella nuova lira e, quindi, un taglio al debito pubblico. La prima soluzione non servirebbe a niente e comunque porterebbe con se un problema di credibilità e reputazione delle autorità di politica economica del governo e/o della Banca centrale eventualmente chiamata a gestire la politica monetaria e valutaria. La seconda soluzione avrebbe, di nuovo, pesanti effetti negativi immediati in termini di affidabilità delle autorità di politica economica, finanziaria, monetaria e valutaria. Innanzitutto una svalutazione colpisce immediatamente salari e stipendi di tutti e, in modo più pesante, dei lavoratori dipendenti e pensionati. Gli effetti di competitività sono di breve termine ma per l’Italia ci sarebbe anche un serio problema di medio lungo termine se l’economia si trova in una fase di stagnazione secolare e di bassa produttività pluridecennale. Operando in economia aperta (essendo del tutto preclusa l’ipotesi di economia autarchica) importazioni di materie prime, prodotti intermedi e finali costano più cari e, quindi, il paese importerebbe inflazione che, probabilmente, si aggiungerebbe a quella interna eventualmente prodotta dall’azione sindacale mirata al recupero del potere d’acquisto tagliato dalla svalutazione. La gestione del debito pubblico diventerebbe molto più complessa e rischiosa perché l’uscita dall’euro comporterebbe inevitabilmente l’impossibilità di utilizzare gli strumenti comunitari di assistenza ( ad es.: il fondo salva-Stati). Il paese si troverebbe solo o totalmente nelle braccia del FMI e delle banche internazionali. Il governo perderebbe ogni reputazione di buon pagatore. Una svalutazione del cambio e un taglio del debito pubblico hanno effetti non solo sull’inflazione, la bilancia commerciale, quella dei pagamenti ma anche sui patrimoni immobiliari e mobiliari delle famiglie, delle imprese, dei fondi previdenziali, dei fondi comuni di investimento, di altre istituzioni finanziarie, ecc. che, nel tempo, si trasmettono all’economia reale. La semplice ipotesi che il governo possa accedere all’idea della svalutazione del cambio causerebbe un forte panico nei risparmiatori nazionali che, con ogni mezzo, cercherebbero di mettere in salvo la loro ricchezza finanziaria – come la sistematica fuoriuscita di capitali dall’Italia dimostra anche in assenza di situazioni di panico. In questo modo, si renderebbe ancor più difficile il rifinanziamento del debito pubblico non solo da parte dei risparmiatori residenti ma anche da parte degli investitori istituzionali stessi.
Chi volesse esaminare in maniera più approfondita le conseguenze prevedibili dell’opzione uscita dall’euro farebbe bene a studiare la lettura relativa al cap. V dell’ultimo libro di Salvatore Biasco, Regole, Stato, Uguaglianza, 2016.
Non ultimo, assumere misure protezioniste sarebbe mettersi conto la Organizzazione mondiale del Commercio e, comunque, esporsi alle ritorsioni dei partner commerciali. Per una economia aperta come quella italiana e per un paese manifatturiero di media grandezza che ha forte bisogno di importare materie prime e prodotti semilavorati, che è inserito nelle c.d. catene internazionali del valore, quella protezionista sarebbe una via suicida.
Commentate le sei proposte veniamo brevemente alle sei lezioni. Tre di esse spiegano la teoria del sovrappiù classico cercando di salvare Marx ma valorizzando gli economisti classici (e sopra tutti Ricardo) che avevano una visione complessiva della crescita e dello sviluppo. Critica fortemente la scuola neoclassica (marginalista) e i suoi apologeti approdando a Keynes che, in qualche modo, ritorna ai classici dopo aver rovesciato la legge di Say secondo cui è l’offerta che crea la domanda mentre per Keynes – come noto – è la domanda che “guida la danza”, ossia, determina la crescita attraverso l’integrazione e/o governo della domanda effettiva per consumi e investimenti. Fin qui siamo nel flusso della storia del pensiero economico con alcuni passaggi più o meno condivisibili e, in alcuni casi, ellittici comprensibili perché, anche con le migliori intenzioni e capacità di sintesi, non si può fare una storia approfondita del pensiero economico in tre lezioni per un totale di 150 pagine.
Le altre tre lezioni riguardano il funzionamento dell’attuale sistema monetario internazionale, la rilevanza che esso assegna al c.d. vincolo esterno, il funzionamento dell’euro, il mercantilismo monetario, la politica dell’austerità imposta dalla maggioranza del Consiglio europeo, la politica monetaria della Banca centrale europea tutta intestata a Mario Draghi, ecc. E’ la parte più critica e più difficilmente condivisibile perché affastella pezzi di polemica analisi politica interna con decisioni collegiali di carattere più tecnico circa la costruzione dell’Unione economica e monetaria. Entrare nel merito delle singole valutazioni richiederebbe ben altro spazio. Per questi motivi – a rischio di superficialità da parte mia – dico che il filo rosso di SC regge solo se uno condivide l’idea che una moneta comune non doveva essere creata e che l’euro è stato costruito volutamente allo scopo di abbattere il conflitto sociale e il welfare state e che un’altra Europa è semplicemente impossibile. Secondo me, non si possono tirare valutazioni analitiche nè conclusioni di buon senso a partire da tali premesse fondamentali che peraltro dimenticano che lo stato sovrano a cui i sovranisti vorrebbero tornare si fonda sulla moneta, la spada e la bilancia (simbolo della giustizia). Ho già detto della prima premessa. Sulla seconda, SC in pratica assume che l’attuale assetto istituzionale dell’Unione è immutabile, che la difesa della stabilità dell’euro è inscindibile dalla politica dell’austerità. Sono tre questioni diverse e tutte dipendono dalla volontà politica delle forze che animano le istituzioni politiche. Se queste non ci piacciono – e non piace neanche a me come funzionano le attuali istituzioni europee – la risposta sensata non è buttiamole a mare ma adoperiamoci per creare quelle coalizioni politiche e sociali che siano in grado di attuare la loro riforma.
Se per i tedeschi una moneta forte è un dogma, abbiamo un problema di indipendenza della BCE che in parte è stato superato. Va ricordato che nell’autunno 2009 l’euro sfondò quota 1,50 sul dollaro sostenendo la bilancia commerciale degli Stati Uniti e che, negli ultimi mesi, la sua quotazione oscilla tra 1,06 e 1,08. Assumo che il nostro SC non creda alla favola secondo cui il cambio dell’euro sia determinato dal libero mercato e, allora, il problema non è l’euro in se ma la gestione più o meno attiva del suo cambio.
Non ultimo la politica dell’austerità. Non è strettamente connessa alla gestione del cambio dell’euro tanto è vero come appena detto che la moneta comune ha subito una sostanziale svalutazione. Certo cambio forte e austerità hanno avuto effetti devastanti in una fase in cui bisognava espandere, la colpa non è dell’euro ma, in primo luogo, dei nostri governanti (Berlusconi) che ancora tra il 2010 e il 2011 negavano ci fosse una crisi mondiale perché i ristoranti che lui frequentava erano pieni. Lo strumento con cui viene implementata la politica dell’austerità con metodi da Torquemada è il Patto di stabilità e crescita (riformato dal regolamento n. 1175/2011 proprio ai tempi del governo Berlusconi). Come noto, il PSC si occupa molto della stabilità e poco della crescita ma nel libro non riceve alcuna analisi e/o valutazione.
Per concludere, il mio punto fondamentale è che non si buttano a mare le istituzioni europee e quel minimo di governo europeo che c’è perché pratica la politica dell’austerità. Ci si batte per cambiare maggioranza politica e politica economica ed avere un vero e proprio governo dell’economia a livello centrale in grado di governare in maniera debitamente articolata la domanda effettiva in tutte le aree dell’Unione, abrogando il Consiglio europeo che ragiona nell’ottica degli interessi nazionali e smettendola di trastullarsi con il coordinamento “automatico” delle politiche economiche affidato al rispetto di parametri econometrici fortemente revocabili in dubbio. Nelle barche a vela il pilota automatico funziona in condizioni normali, con il mare in tempesta, per governare la barca serve un abile timoniere.