Sul degrado di Roma sono intervenuti sul Corriere della Sera (1-09-17 e 6-09-17) due personalità di grande reputazione e credibilità: il prof. Sabino Cassese, eminente Maestro di diritto amministrativo e giudice emerito della Corte Costituzionale, e il Dott. Giuseppe Roma, Direttore del Censis nonché Segretario generale della Rete Urbana delle Rappresentanze. A fronte dell’evidente declino della Capitale che, per molti versi, riflette il declino economico e civile del Paese, entrambi propongono, da un lato, un organismo tecnico per la gestione per i servizi pubblici della Capitale, dall’altro, un Ufficio politico-istituzionale (addirittura un ministro senza portafoglio o un Ufficio presso la Presidenza del Consiglio dei ministri) che coordini gli interventi su Roma come è stato fatto, con qualche successo, in occasione del Grande Giubileo del 2000 quando a tal fine fu istituita una Commissione presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (ex legge n.651/1996). Ma allora detta Commissione ebbe a disposizione finanziamenti straordinari per circa 7.500 miliardi di vecchie lire (3.500 come contributo al Gande Giubileo del 2000 e l’altra parte come contributi vari alla Capitale d’Italia. Se come ricorda il dott. Roma, nel gennaio 2004, Roma cresceva più di Milano e l’allora sindaco Veltroni fantasticava di una Tiburtina Valley (in analogia con la californiana Sylicon Valley) ciò era dovuto agli effetti economici di quegli investimenti al di là dell’assetto formale del governo locale, di quello regionale, delle chiacchiere sullo statuto speciale di Roma – diventata nel frattempo area metropolitana. Al di là della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, della legge n. 42 del 2009, della legge Del Rio (n. 56/2014) – per non parlare delle singolari vicende delle province – ora riesumate per effetto del referendum costituzionale del 4-12-2016. Nelle leggi citate ci sono norme importanti e positive, ma soffrono di quattro problemi: 1) sono arrivate tutte in grande ritardo rispetto alla riforma del 2001; 2) non hanno affrontato seriamente il problema dell’autonomia tributaria e finanziaria dei vari livelli di governo a partire dalle stesse Regioni; 3) non hanno mai attuato il coordinamento della finanza pubblica se non con atti d’imperio; 4) non sono state mai attuate in modo compiuto e coerente con i principi ispiratori della riforma costituzionale.
Una seconda osservazione preliminare riguarda nello specifico il modello di governo locale come emerso dalla legge per la elezione diretta del sindaco (n. 81/1993), una legge che ha introdotto il maggioritario e che impropriamente ha concentrato tutti i poteri politici e amministrativi in testa al sindaco favorendo il leaderismo e la personalizzazione della politica. È vero che ha portato stabilità nel governo locale ma non sempre vera governabilità, ossia, capacità di risolvere i problemi dei cittadini. Con le dovute cautele ed eccezioni, già venti anni fa, ho visto in azione un partito dei sindaci irresponsabili perché, nel funzionamento reale del modello, detto partito: 1) ha semidistrutta la democrazia locale; 2) ha continuato a tollerare la devastazione del territorio; 3) ha fomentato la corruzione attraverso l’uso spregiudicato delle società miste dei servizi locali; 4) non partecipa in maniera significativa alla lotta all’evasione fiscale – in non pochi casi tollerandola anche per gli stessi tributi propri. A mio giudizio, la legge n. 81/1993 può andare bene per i comuni con popolazione sino a 10-15 mila residenti ma non per le medie e grandi città. Invece, inopinatamente, la legge è stata estesa all’elezione del Presidente della Provincia e di quello della Regione. Addirittura è stata a lungo propugnata come modello per il governo nazionale o per il Sindaco d’Italia ignorando le tematiche complesse della gestione delle grandi città e/o delle metropoli globali o semplificandole solo a parole.
Ciò detto, bisogna specificare che la situazione non è omogenea in tutto il paese. Roma appartiene al Sud. Cassese cita l’ambasciatore francese a Roma Gramont che, nel 1860, sintetizzava il suo giudizio sulla Città eterna dicendo “è qui che comincia l’Oriente”, e lui aggiunge che “Roma torna a grandi passi verso il livello di una città medio-orientale”. F. S. Nitti più di cento anni fa sosteneva che a Roma non c’era un quartiere europeo. E qualche amante della storia antica e medioevale potrebbe collegare il declino di Roma alla caduta dell’Impero romano d’Occidente e/o al potere temporale dei Papi. Eppure Roma mantiene alcuni presupposti per diventare una metropoli globale essendo una e trina: è la Capitale d’Italia, comprende l’enclave del Vaticano, ospita la FAO una delle grandi organizzazioni delle Nazioni Unite. Oggi il sindaco di Roma è anche presidente dell’Area metropolitana che comprende 101 comuni. Ma chi conosce il programma dell’area metropolitana e le risorse disponibili per la sua attuazione? Il Sindaco di Roma mostra chiari limiti di competenza e fin qui scarsa attitudine a gestire i problemi della sua città-capitale, figuriamoci quelli di altri 100 comuni? Il dott. Roma giustamente evoca il ruolo del decentramento interno alla Capitale ma sappiamo che i mini sindaci non contano niente ma sono utili per raccogliere voti nelle campagne elettorali. Il decentramento è solo di facciata: le decisioni circa i lavori pubblici sono concentrate al Campidoglio. Non possiamo contare sulla resuscitata Provincia perché ci vorrà tempo prima che sia dotata di personale e risorse nuovi. La stessa Regione Lazio, per decenni egemonizzata dal Sindaco di Roma – fa fatica a riconquistarsi un ruolo effettivo di coordinamento degli enti locali e dell’area metropolitana come la vicenda dell’acqua attinta dal Lago di Bracciano dimostra. Se uno pensa alla vicenda dell’Atac, dello stato penoso delle strade comunali e provinciali a Roma, al problema del debito pubblico di Roma (12 miliardi al 30-09-205 vedi audizione CD della Commissaria Scozzese) di cui l’attuale Sindaco non ha responsabilità né emerge un quadro disperato e disperante non solo di mancanza di progetti ma, soprattutto di risorse, che non consente alcuna ipotesi ottimistica circa il futuro di Roma come Capitale d’Italia e, meno che mai, come Città globale.
Ciò detto e premesso che sia le proposte del prof. Cassese che quelle convergenti del dott. Roma sono ragionevoli e condivisibili in una logica di intervento straordinario, osservo che, alla luce delle esperienze fallimentari dell’Agenzie delle entrate e quella della riscossione (Equitalia) attuate all’interno del Ministero dell’economia e delle finanze, e con relative proiezioni a livello locale e regionale, e di tante Autorità amministrative locali come quelle sulla qualità dei servizi pubblici locali, c’è da dubitare che esse possano risultare risolutive dei problemi che affliggono il governo di Roma. In molti manuali di economia pubblica si contrappone la fornitura pubblica di un servizio e/o bene pubblico alla produzione diretta dello stesso. Quello che molti manuali non chiariscono è che la fornitura pubblica di un servizio prodotto dal privato o da una società mista – in ossequio alla direttiva comunitaria del partenariato pubblico-privato – in generale, porta ad un aumento del costo di produzione del servizio. È vero anche che per via delle inefficienze organizzative e manageriali alcuni servizi prodotti direttamente da imprese pubbliche non riescono a minimizzare i costi di produzione per dati standard qualitativi del servizio. Ma chi, in pratica, propone esternalizzazioni o addirittura privatizzazioni di certi servizi pubblici, come panacea di tutti i mali, di norma, in Italia, non presenta uno straccio di analisi dei costi e benefici per gli utenti del servizio. Ignora scientemente che certi servizi come ad esempio i trasporti pubblici locali non possono essere gestiti in termini di pareggio ragionieristico tra costi e ricavi come per le imprese private perché ci sono economie esterne da calcolare in un apposito bilancio sociale. Invece, in pratica, le decisioni sono assunte sulla base di una presunta ma non dimostrata maggiore efficienza della gestione privata rispetto a quella pubblica. Ma anche a parità di efficienza – per ipotesi ottimistica – l’agenzia tecnica delegittimerebbe le attuali strutture amministrative locali e l’istituzione di un Ufficio e/o commissariato presso la Presidenza del Consiglio dei ministri farebbe altrettanto con la Regione. Ragionando in termini non di genuino federalismo – ormai messo in soffitta – ma di Stato regionale, come quello previsto nella Costituzione del 1948, non mi sembrano misure da assumere in via ordinaria e strutturale. Come sanno meglio di me, il prof. Cassese e il dott. Roma, il problema vero è quello di lavorare seriamente e congruamente per avere delle strutture amministrative efficienti a tutti i livelli (locale, regionale e nazionale). La riforma Madia si muove questa direzione?