Il Sud aggancia la ripresa con una crescita del PIL dell’1,3% rispetto all’1,6% del Centro Nord. La ripresa è congiunturale e non strutturale. Anche se la Svimez prevede per il 2018 un significativo aumento delle esportazioni e degli investimenti. La ripresa strutturale presuppone una consistente ripresa degli investimenti pubblici e privati e il rafforzamento del capitale umano e sociale con l’inserimento nel sistema produttivo di lavoratori più giovani e più qualificati. Cosa che diventa sempre meno probabile se la politica economica del governo non riesce a ridurre la disoccupazione e, quindi, frenare l’emigrazione verso altre aree del paese e dell’Europa. E non aiutano certo misure pur necessarie di riduzione anche selettiva della spesa e dei dipendenti pubblici. Questi ultimi sono stati ridotti per 17.954 unità nel C-N e di 21.500 unità nel Mezzogiorno ed una divaricazione crescente anche nella spesa pubblica consolidata.
Cito direttamente dell’Introduzione al Rapporto: “Per quanto concerne il confronto territoriale tra i livelli di spesa della Pubblica Amministrazione, il divario del Mezzogiorno non solo resta elevato ma è cresciuto negli anni della crisi dell’8,8%, essendo passato da 2.174,3 euro per abitante nel 2007 a 2.378,8 euro per abitante nel 2015…. Anche escludendo la spesa previdenziale, che di per sé produce una accentuazione del divario suddetto, l’ammontare della spesa pubblica complessiva consolidata, intesa come spesa di Amministrazioni centrali e territoriali, si presenta significativamente più basso nel Mezzogiorno: 6.573 euro per abitante nel 2015 contro i 7.327,7 euro del Centro-Nord. Per effetto delle variazioni di segno opposto registrate tra il 2007 ed il 2015 (–5,4% per il Mezzogiorno; +1,4% per il Centro-Nord), la spesa pro capite della P.A. (al netto di quella previdenziale) nell’area meridionale ha rappresentato nel 2015 l’89,7% del livello del Centro-Nord, a fronte del 96,2% registrato nel 2007. Non hanno quindi consistenza le affermazioni, anche di fonte autorevole, che accreditano il Mezzogiorno di un volume di spesa pubblica più elevato ed attribuiscono il problema della mancata crescita del Paese ad un «assistenzialismo secolare», capace di generare solo sprechi ed inefficienze”.
Le retribuzioni al Sud restano basse per via della produttività più bassa. Anche il tasso di attività è più basso che al Centro-Nord. La Svimez cita il FMI il quale vede nel circolo vizioso bassi salari, bassa produttività, bassa competitività la causa del basso livello degli investimenti e quindi la riduzione del benessere sociale. Molti dati raccolti nel Rapporto evidenziano una certa resilienza dell’economia meridionale ma pesano molto le regole europee del Patto di stabilità e crescita che hanno creato un altro circolo vizioso – non meno grave del primo – per cui la bassa produttività e la bassa crescita determinano un output più basso e, quindi, un minore bisogno di allentare il perseguimento dell’obiettivo a medio termine del pareggio di bilancio strutturale, alias, poca flessibilità.
La situazione a me appare drammatica se si considera brevemente la sola dinamica degli investimenti pubblici. Nel 2016 hanno toccato il fondo con il 2,2% a livello nazionale e lo 0,8% nel Sud e, di nuovo, questo mina le possibilità di crescita a medio termine non solo nel Mezzogiorno ma anche nel Centro-Nord. Nell’ultimo cinquantennio – calcola la Svimez – la spesa pubblica per infrastrutture si è attestata al -2% annuo a livello nazionale come media ponderata di un -0,8% ne C-N e -4,8% nel Sud. Un dato drammatico se si confronta con quelli dei governi di Centro-sinistra degli anni ’60 e primi anni ’70 del secolo scorso. In termini pro-capite nel 1970 la spesa pubblica per infrastrutture pro-capite era di 450,8 nel C-N e di 673,2 euro nel Sud. Nel 2016, 296 nel C-N e -107 euro nel Mezzogiorno. E poi qualcuno non capisce il declino economico del Mezzogiorno e del resto del Paese. È il risultato di una politica dissennata che prima ha portato ad individuare la Cassa per il Mezzogiorno come il vaso di Pandora di tutti i mali del Paese – anche se c’erano episodi di corruzione -, poi all’abolizione dell’intervento straordinario, quindi (nel 2001) arriva alla riforma del Titolo V della Costituzione e, otto anni dopo, alla legge n. 42 del 2009 c.d. Calderoli senza mai trovare l’accordo per definire un valido sistema di trasferimenti compensativi e, infine, nel 2011 sospende del tutto l’attuazione del federalismo fiscale e del coordinamento efficiente ed efficace delle politiche nazionali con quelle regionali e della finanza pubblica in generale. Intanto il C-N, dopo aver contribuito alla liquidazione delle due principali Banche meridionali (quelle di Napoli e di Sicilia) continua ad assorbire i risparmi del Sud come dimostra il rapporto impieghi/depositi più alto nel Paese (1,83) e più basso al Sud (1,14) con conseguente difficoltà di trovare credito da parte delle piccole e medie imprese meridionali.
Nessuna meraviglia se permane alta la disoccupazione che spinge i lavoratori ad emigrare nonostante che, nei primi 8 mesi del 2017, siano stati incentivati 90 mila posti di lavoro. La povertà assoluta che riguarda il 10% delle persone nel Sud rispetto ad un 6% nel C-N e le politiche di austerità incidono pesantemente sui consumi interni. E tuttavia la domanda interna – scrive la Svimez – è riuscita a sostenere la ripresa nonostante le basse retribuzioni e le alte esportazioni. A mio giudizio, si tratta di uno sforzo eccezionale determinato dalla disperazione e dalla volontà ultima di sopravvivere da parte delle imprese a fronte di un Paese che non ha una politica industriale opportunamente articolata a livello regionale e offre generosi incentivi e detassazioni a go go nell’ambito del programma Industria 4.0 alle imprese del Centro-Nord e qualche incentivo alle imprese meridionali. E’ evidente che se tale politica non viene corretta opportunamente allargherà il divario tra Sud e C-N anche perché le Regioni meridionali non elaborano più programmi di sviluppo degni di questo norme e non chiedono di coordinare il loro sistema di incentivi con quello nazionale. Aumenta il disagio sociale al Sud penalizzato anche nel godimento di servizi pubblici meno efficienti e, quindi, con disparità nei livelli essenziali di assistenza e delle prestazioni che si aggiungono alla disparità nei livelli retributivi, determinati dal mercato.
La svalutazione interna imposta dalle politiche economiche adottate a livello europeo ha funzionato in maniera perversa come previsto da centinaia di economisti. E’ aumentata la mobilità del lavoro che si è tradotta in una forte emigrazione verso le aree del C-N del Paese e dell’Europa. Il capitale sociale si è ulteriormente indebolito. Da una nuova ricerca fatta dalla Svimez risulta che in un quindicennio il Sud ha perso 200 mila laureati. A fine 2016, 62 mila abitanti residenti e ancora 28 mila nel 2017 con i dati fin qui rilevati. Inoltre è in forte aumento il pendolarismo con 208 mila persone che si spostano per un quarto circa all’interno del Mezzogiorno e per i rimanenti ¾ al Centro-Nord. Evidentemente c’è ancora speranza o determinazione a trovare un lavoro.
Il Rapporto Svimez, come noto, è un ponderoso volume ricco di analisi, valutazioni della situazione in essere e delle politiche adottate fin qui, nonché di proposte come le ZES (zone economiche speciali) per risolvere i problemi aperti dell’economia meridionale che evidentemente condizionano anche la crescita del C-N e indirettamente anche dell’Eurozona. Anche sul Mezzogiorno pesano le regole per qualche aspetto perverse del Patto di stabilità e crescita e del Fiscal Compact con annessi regolamenti. Non potendo trattare tutti questi problemi interconnessi in questa breve presentazione del Rapporto mi limito ad alcune osservazioni conclusive sulla questione fiscale e i trasferimenti nazionali e comunitari. I flussi redistributivi verso le regioni meridionali si sono ridotti del 10% circa da 55,5 a 50 miliardi senza tener conto che parte di questi fondi attivano acquisti nel Centro Nord per circa 20 miliardi secondo la stima della Svimez. Infatti con tutte le cautele sul calcolo del c.d. residuo fiscale va tenuto in debito conto la forte interdipendenza economica e commerciale tra Nord e Sud anche nella valutazione del discorso sull’attuazione dell’art. 116 comma 3 della Costituzione come riaperto dai referendum delle regioni a statuto ordinario della Lombardia e del Veneto che chiedono maggiori competenze e, quindi, maggiori risorse per finanziarle. A mio avviso la richiesta delle suddette regioni è condivisibile a condizione che su funzioni importanti richieste sia preventivamente disponibile una seria analisi costi e benefici che dimostri sul serio la fattibilità di una gestione più efficiente. E non basta, occorre anche che tutte le Regioni accettino la costruzione di un efficiente ed efficace sistema di trasferimenti compensativi e perequativi come previsto dal d.lgs. n. 56 del 2000 e abbandonino il metodo discutibile dei Patti annuali della salute, e di quelli più generali ma non meglio definiti degli ultimi anni.