Nel mezzo di una delle più gravi crisi economiche e finanziarie e della trattativa FIAT-CHRYSLER  e FIAT-OPEL, alcuni commentatori scoprono che negli USA i sindacati diventano azionisti della nuova società e in Germania c’è la cogestione. Buontemponi e non si chiedono retoricamente: perché in Italia no? Serve un po’ di storia per spiegarlo. Negli anni ’70 solo a proporre l’idea della cogestione si veniva considerati servi del capitale o dello Stato imperialista delle multinazionali. Negli anni ’80 e ’90 o del trionfo dell’ideologia neo-liberista e mercatista, la questione non fu mai all’ordine del giorno. Meno che mai negli anni ’90 e più recentemente quando il problema fu ed è stato la stabilizzazione dei conti pubblici nel 1992, 1997 e 2007, prima per  l’ingresso nell’euro e poi per restarci dentro. A parte la ostilità ideologica alla proposta da parte della classe imprenditoriale, in fatto, è il tipo di capitalismo familiare delle piccole e medie imprese che non si presta gran che  alla formalizzazione di una procedura di partecipazione. Con riguardo alle grandi imprese, ogni tanto, in qualche convegno, si è discusso di eventuale partecipazione dei lavoratori dipendenti agli utili ma mai si è arrivati vicini a una qualche decisione da parte del legislatore.

Alla fine del primo decennio degli anni 2000 che si chiude con crescita pressoché zero, con le società di capitale che, per la buona metà, continuano a dichiarare perdite, scopriamo che in Germania c’è la cogestione e, magari, che funziona. La CISL ha detto che l’ha sempre proposta e la CGIL, che nel passato l’ha sempre respinta, dice  ora che se ne può parlare. Mancano le dichiarazioni delle controparti ma se si prendessero alla lettera le nuove disponibilità della CGIL, si potrebbe pensare che forse ci sono le condizioni per far partecipare i lavoratori dipendenti agli utili ma soprattutto alle perdite (vere o presunte).

Ho una mia modesta proposta gradualista- ovviamente da approfondire. Prima di arrivare alla cogestione  bisognerebbe arrivare, per una fase transitoria, alla compartecipazione agli utili e alle perdite. Bisognerebbe fare una piccola riforma del diritto societario in modo da potere attribuire ai dipendenti azioni e/o quote di partecipazione inizialmente sulla base del salario percepito e, così, assegnare ai lavoratori – come ai soci ordinari – redditi e/o perdite di partecipazione. Con le società in utile i lavoratori avrebbero un reddito di partecipazione, con quelle in perdita avrebbero  la possibilità di dedurre la perdita dal reddito imponibile e ridurre l’Irpef da pagare.  Atteso che il ministro Tremonti  non ha nessuna proposta per ridurre le imposte sui salari, a mali estremi  rimedi estremi. Sembra un paradosso ma non lo è. Non ultimo, i lavoratori potrebbero avere un interesse diretto e personale  a esercitare un controllo serio e dall’interno sulle effettive condizioni di redditività delle imprese in cui lavorano.