In occasione della recente visita di Bersani in Germania, Andrea Tarquini ha intervistato Karl Lamers consigliere del ministro delle finanze tedesco Schaeuble e si è avuta l’ennesima occasione per capire meglio quale sia la posizione del governo tedesco sulla crescita. Lamers dice che questa è necessaria, “ma è difficile accordarla con il risanamento dei conti. Il risparmio può portare alla deflazione, ma la crescita mal gestita all’inflazione”. Poi aggiunge che le riforme strutturali sono indispensabili ma creano effetti dopo un certo tempo – anni aggiungo io, e sempreché siano ben congegnate. Lamers concede che occorrono anche impulsi a breve alla crescita e, in democrazia, non si può chiedere troppo specie ai lavoratori” . Questo è il succo dell’intervista del 6 u.s. che rende ben chiara la posizione del governo tedesco guidato dalla Signora Merkel.
Quali i punti deboli di questa posizione? Pur ammettendo che occorrono a breve stimoli alla crescita , in fatto, Lamers li esclude perché essi sono difficili da conciliare con il risanamento dei conti, alias, con l’obiettivo del pareggio di bilancio reso più stringente con la firma del Trattato intergovernativo della Primavera scorsa. Nell’interpretazione rigorosa anche del deficit strutturale la Germania esclude il ricorso all’indebitamento anche per gli investimenti direttamente produttivi. Grazie alla politica monetaria espansiva della BCE c’è un oceano di liquidità ma essa non può essere utilizzata dai governi per sostenere la domanda delle famiglie. Quando i tassi di interesse si avvicinano allo zero come è stato ed è negli ultimi anni la politica monetaria da sola non stimola la domanda anche perché essa, in Europa, si immette in un non sistema, ossia, in un mercato monetario e creditizio segmentato, con regole e prassi diverse che hanno problemi diversi e con situazioni congiunturali diverse.
Una tale politica monetaria non funziona neanche negli Stati Uniti dove c’è un sistema bancario unitario figuriamoci nell’Eurozona dove esistono 17 sistemi bancari diversi con sistemi di vigilanza più o meno efficienti e dove la progettata Unione bancaria dovrà attendere ancora anni e anni prima di essere realizzata. Un oceano di liquidità, eppure c’è una stretta creditizia (credit crunch). I fondi non arrivano alle piccole e medie imprese né alle famiglie e se ci arrivano lo fanno con differenziali molto elevati rispetto a quanto avviene nei paesi del centro e Nord Europa. Le banche che si approvvigionano dalla BCE allo 0,75% utilizzano la liquidità per sottoscrivere i titoli del debito pubblico oppure per attività speculative mirate a compensare le perdite emergenti su precedenti attività speculative o le crescenti sofferenze per crediti difficilmente esigibili (125 miliardi a fine 2012). In una fase recessiva molto pesante è normale che il credito erogato alle imprese subisca restrizioni , il costo del denaro aumenta e se il credito viene erogato lo si fa ad alti tassi di interesse. Il paradosso è che le banche – anche di dubbia reputazione – possono utilizzare secondo convenienza la liquidità immessa nel sistema dalla BCE ma non lo possono fare i governi dei paesi euromed perché già sovraccarichi di debiti in parte fatti proprio per salvare le banche.
In Italia, lo Stato alla fine trova 4 miliardi da prestare alla Banca MPS ma non può – o meglio, non vuole – farlo per mettere in sicurezza scuole pericolanti, strade statali e comunali dissestate, argini di fiumi e torrenti. Una volta si diceva che il governo non poteva indebitarsi perché spiazzava gli investimenti privati, ora non lo può lo stesso perché altrimenti aumenterebbe il debito pubblico, rimetterebbe in discussione la sua sostenibilità e, di conseguenza, quella della moneta comune.
Nelle ultime settimane stiamo assistendo inermi alla guerra delle valute. Il Giappone ha rotto gli indugi e sta inflazionando per determinare una svalutazione dello Yen, il debito pubblico (235% del PIL) e il rilancio della domanda interna. Il dollaro fluttua al ribasso. Il Presidente Hollande, prima del Consiglio europeo, ha detto che l’euro è troppo forte e questo non aiuta la ripresa. Anche il Presidente della BCE Draghi ha fatto capire che sta seguendo con attenzione la materia. Sostenere questo livello del cambio dell’euro non aiuta le esportazioni europee, specie quelle dei paesi euromed.
Nell’ultimo anno, il governo italiano ci ha detto che il problema della crescita o passa a livello europeo o non può passare a livello nazionale. Ora il Consiglio europeo ha tagliato per la prima volta nella storia gli impegni di spesa da 994.176 a 959.988 per il settennio 2014-20. In termini nominali una riduzione del 3,5% ma i pagamenti previsti sono quantificati in 908 miliardi di euro. A fronte di una disoccupazione media del 12% c‘è un riorientamento nominale dai fondi strutturali che passano da 354.815 a 325.149 miliardi di euro (-8,4%) che compensa in grossa parte l’aumento dei fondi per la crescita e il lavoro che passano da 91.495 a 125.614 (+37,3%). Si tratta di una operazione di maquillage statistico ingannevole perché anche i fondi strutturali servono alla crescita ma vengono ridotti. Rispetto alle originarie proposte della Commissione i fondi per la crescita e il lavoro subiscono un taglio di 40 miliardi con riduzione dei fondi per la ricerca, l’innovazione, la formazione e gli investimenti nelle reti.
Ebbene ora che conosciamo i termini del compromesso al ribasso raggiunto dal Consiglio europeo del 7-8 u.s. sulla base delle richieste di Cameron nella sostanza condivise dalla Merkel. Ora che sappiamo che per i prossimi sette anni non c’è una congrua strategia per la crescita a livello europeo e che gli attuali governanti europei dalla veduta corta hanno rinunciato a valorizzare il valore aggiunto discendente da misure di politica economica e finanziaria a livello centrale in grado di farci uscire dalla seconda recessione in cui siamo tutti precipitati, cosa faranno i Paesi euromed? Aspetteranno il miracolo di San Gennaro? Non si tratta di essere contrari o favorevoli al Fiscal Compact ma se, come scrivono diversi osservatori, siamo di fronte ad una scelta di rinazionalizzazione della politica fiscale, che così sia. È la democrazia. Vedremo cosa riuscirà a cambiare il Parlamento europeo che sembra non avere gradito le decisioni del Consiglio.
Credo che, data la gravità di dette decisioni, anche in questo scorcio di campagna elettorale, i principali partiti politici italiani dovrebbero chiarire le loro posizioni sul da fare. In teoria le strade sono due: l’una è quella imboccata dal Giappone e prima ancora dagli USA, a noi non consentita perché non abbiamo più lo strumento della politica monetaria; l’altra è quella del debito pubblico. Se il governo italiano che uscirà dalle elezioni vuole rompere la perversa spirale austerità-recessione ha solo una strada obbligata: quella di chiedere ed ottenere l’applicazione della golden rule. In pratica di rilanciare gli investimenti pubblici di 1-2 punti di PIL. Se il rilancio della crescita è la vera condizione che porta alla sostenibilità del debito pubblico, nella situazione attuale di abbondante liquidità, la strada obbligata è quella del ricorso al mercato tenendo fermo il massimo rigore nella gestione delle entrate e delle spese correnti.
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