Come noto, la legge di stabilità prevede misure drastiche per i dipendenti pubblici per i qual ci sono tagli salariali, tagli degli straordinari, blocco del turn over e della contrattazione fino al dicembre 2014. La stessa legge prevede misure dure anche per le pensioni medio-superiori per non parlare dei probabili aumenti della fiscalità locale. Tutto questo per rilanciare la domanda interna e migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione. Dal 2008 a fine 2012 i dipendenti pubblici a tempo indeterminato sono diminuiti da 3.436.814 a 3.115.187 unità , cioè, di oltre 300 mila unità. Secondo una indagine comparativa della Corte dei Conti il costo della PA italiana è il secondo più basso della eurozona dopo la Germania. Tutti scrivono e parlano di scarsa qualità dei servizi pubblici, dei dipendenti pubblici come fannulloni dopo le guasconate del ex ministro della funzione pubblica Brunetta che ha perso tre anni senza arrivare a conseguire alcun miglioramento. Ma ha conseguito certamente un risultato: quello di delegittimare tutti i dipendenti pubblici alla stessa stregua di quanto ha fatto Berlusconi negli ultimi venti anni con la magistratura. Ogni nuovo governo che arriva parla e straparla di riforma della PA e di semplificazione senza spiegare chiaramente la estrema difficoltà del problema. Dopo la istituzione delle Regioni a statuto ordinario nei primi anni 70, la PA è andata incontro ad un tortuoso quanto finto processo di decentramento. Sono state istituite le RSO ma il trasferimento delle competenze è stato molto lento ed ancora più lento è stata l’assegnazione dei fondi necessari per finanziarle. Le RSO non sono state dotate di vera e propria autonomia tributaria e queste le ha incentivate a divenire delle stazioni di mediazione politica e clientelare. I loro poteri legislativi sono regimentati da principi che deve determinare lo Stato centrale e le loro residue competenze legislative sono state sistematicamente erose dal Parlamento nazionale che invece di dettare principi formula norme generali che entrano nel dettaglio di molte materie. Dopo la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 si è tentato un rilancio della politica di decentramento – che per l’appunto mira ad una maggiore efficienza – ma dopo gli scandali in alcune regioni il discorso sul federalismo è stato derubricato e non sono pochi quelli che vorrebbero tornare allo Stato centralizzato. Ormai molti sanno che il problema vero è quello della legislazione alluvionale che il governo impone al Parlamento, alla PA in generale e alla stessa magistratura. Viviamo in un sistema di guardie e ladri per cui il legislativo non si fida della PA e della magistratura per cui tutti chiedono una legislazione casistica di dettaglio che deresponsabilizza tutti. Se aggiungiamo poi che tutti invocano la trasparenza e la riduzione della discrezionalità tecnica abbiamo che ogni atto amministrativo deve essere accuratamente procedimentalizzato e calendarizzato. Il che ovviamente allunga i tempi e non ci sono sportelli unici che tengano. La formalizzazione delle varie fasi procedurali in nome della trasparenza riduce inevitabilmente l’efficienza. Ma c’è un’altra cosa che molti commentatori ed esponenti della stessa maggioranza di governo non chiariscono ed è lo stesso concetto di efficienza. Si ha efficienza quando date le risorse produco il massimo. Oppure dato l’obiettivo impiego l’ammontare di risorse strettamente necessario sulla base della tecnologia e dell’organizzazione del lavoro disponibili. Se non definisco esattamente gli obiettivi non posso parlare correttamente di efficienza e gli stessi confronti nazionali sul numero dei dipendenti pubblici e sul costo della PA non sono dirimenti. Si può affermare che a partire da una situazione di inefficienza , normalmente si richiedono maggiori spese per perseguire l’efficienza. Ma come visto sopra, da noi, si fa esattamente il contrario. Non solo si è ridotto il numero dei dipendenti ma nella stragrande maggioranza dei casi si hanno salari bassi, organizzazione del lavoro inadeguata, demotivazione e deresponsabilizzazione.
Ma nel settore pubblico abbiamo anche delle eccellenze che il governo protegge. Una di queste e la Banca d’Italia. Forse per questo i dipendenti della Banca sono stati esclusi dal rigore che si è abbattuto su tutti gli altri dipendenti pubblici. Con un comunicato del 23 ottobre scorso è stato lo stesso ministro Saccomanni a spiegare l’esclusione dei dipendenti pubblici affermando che le misure della legge di stabilità “assumono come riferimento il perimetro delle amministrazioni pubbliche rilevanti ai fini dell’indebitamento”. Trovo la motivazione risibile e sospetta perché la Banca d’Italia è comunque, in fatto e in diritto, un’autorità amministrativa indipendente alla stessa stregua dell’Autorità garante del mercato e della concorrenza, di quella della Privacy, ecc.. Autorità indipendenti ma amministrative che svolgono funzioni pubbliche della massima delicatezza. La loro indipendenza è volutamente costruita per metterle al riparo da eventuali interferenze quotidiane del potere politico che ha voce in capitolo nella nomina dei loro capi. La loro indipendenza è una finzione giuridica giustificata e giustificabile ma che nulla toglie alla sostanza della loro collocazione e funzione pubbliche. Se tengo conto che il riferimento per il trattamento economico e previdenziale per le altre autorità amministrative indipendenti è proprio quello della Banca d’Italia, mi chiedo se con la stessa argomentazione non siano state esonerate tutte le altre autorità. Se così fosse è chiaro che neanche il governo delle larghe intese che predica rigore ed austerità per tutti osa attaccare i privilegi della casta. E perché meravigliarsi se pochi mesi fa la stessa Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il contributo di solidarietà – legiferato male dal governo Monti – sulle c.d. pensioni d’oro tra le quali si annoverano quelle dei dirigenti della Banca d’Italia?