Il progetto europeo è in crisi. Non c’è più fiducia. C’è la politica nell’era della sfiducia ( Rosanvallon, 2012) . C’è una deriva tecnocratica e autoritaria che in Europa si proietta all’interno dei singoli paesi membri (PM). Secondo Hillebrand e Kellner , editors del libro Shaping a different Europe, Contributions to a critical debate, Dietz, Bonn, 2014, ci sono tre aspetti della crisi: 1) il salvataggio delle banche europeo ha scaricato il debito privato sui bilanci pubblici per lo più a carico dei contribuenti. Da qui la crisi c.d. dei debiti sovrani e dell’euro che porta inevitabilmente alla compressione della sovranità dei governi sub-centrali. Questo problema c’è ma non è una novità perché, anche fuori e prima dell’euro, quando i paesi in difficoltà chiedevano assistenza al FMI dovevano sottostare alle sue prescrizioni. Il secondo aspetto è quello degli effetti del mercato unico, della impostazione neo-liberista dei Trattati, della concorrenza economica e fiscale all’interno dell’Unione che crea la crisi fiscale dello Stato nazionale. Anche qui niente di nuovo, la crisi fiscale dello Stato si era manifestata 40 anni fa (vedi il libro di J. O’Connor , 1973) ma allora noi europei non avevamo la moneta unica. E allora non c’era neanche l’attacco sistematico al modello sociale europeo.
Veniamo al secondo aspetto, al funzionamento dell’euro e dell’eurozona.
È vero che l’euro nasce non su un’area valutaria ottimale con un insieme di economie relativamente omogenee ma su un‘area vasta con forti squilibri economici e territoriali che quindi non può funzionare bene senza trasferimenti compensativi, ma questo era vero quando nacquero il dollaro USA o altre monete nazionali. E’ anche vero che i Paesi scandinavi e la RFT non hanno dovuto abbattere il loro welfare per affrontare la crisi e che questa è stata scatenata dalla rapacità dell’alta finanza. Per un verso i Paesi scandinavi inseguono una serie di clausole di salvaguardia che gli consentano di salvaguardare il loro modello sociale, per un altro, la RFT frenando oltre misura i salari dei suoi lavoratori accumula senza sosta avanzi nella sua bilancia dei pagamenti sacrificando i consumi interni. Più in generale, la crisi del modello sociale europeo nasce dall’impoverimento della classe media nei paesi più ricchi, dal crescente egoismo delle ceti sociali più ricchi e dal conseguente affievolimento dello spirito di solidarietà. Per mantenere gli attuali livelli delle prestazioni, con una classe media impoverita occorrerebbe che i ricchi pagassero di più e questi semplicemente non sono disponibili a farlo. È una questione fondamentale di giustizia sociale e di democrazia interna quella di scegliere tra consumi privati e consumi pubblici, tra investimenti privati e quelli pubblici. Ci sono diverse soluzioni e ricordiamoci di tutti gli studi che dimostrano come affrontare il problema della salute e della previdenza con le assicurazioni private è comunque più costoso ed inefficiente. Però la propaganda neoliberista ci dice che c’è una sola soluzione: ridurre le tasse. Se rigettiamo questa ipotesi, solo un assetto federale può ammettere soluzioni differenziate a seconda delle diverse preferenze e della diversa disponibilità di risorse. È questione di volontà comune di lottare contro le diseguaglianze. Questa richiede una teoria condivisa della giustizia sociale che non vedo né a livello europeo né all’interno dei vari PM.
Il terzo aspetto riguarda il dilemma crescita e prosperità di cui parlano Hillebranb e Kellner. A me sembra posto male in termini di input-output legittimacy del processo di integrazione europea. Non sono sicuro di avere compreso bene l’argomento. A me sembra che, dopo i Trattati di Roma del 1957, con l’abbattimento dei dazi e degli altri ostacoli non tariffari, gli sviluppi dell’integrazione economica furono positivi. Più o meno tutti i Paesi fondatori registrarono alti tassi di crescita. L’integrazione europea e gli sviluppi esterni alla CEE provocarono una profonda ristrutturazione delle singole economie. La RFT diventa un gigante economico e l’Italia il quinto paese industriale dl mondo. Ma il sistema cambia nei primi anni ’70 con l’abbandono dei cambi fissi (1971) e l’arrivo del primo shock petrolifero (1973). Fino ad allora i risultati positivi per tutti legittimavano ampiamente il progetto europeo. Da allora in poi sarebbe stata necessaria una più attenta programmazione dello sviluppo dei paesi membri diventati 9 con l’ingresso dell’Inghilterra, della Danimarca e dell’Irlanda. Ci si rese conto che con i cambi flessibili l’integrazione europea poteva essere messa a rischio. E perciò si cercò di accelerare l’attuazione del Piano Werner presentato già nel maggio 1970. Ma il processo decisionale europeo è molto lento ed inefficiente. Solo nel 1978 si arriva al sistema monetario europeo (SME) che superava il serpente del 1972 ma ci vorranno 13 e 20 anni ancora per arrivare prima al Trattato di Maastricht e poi all’euro. Se il problema è quello della bassa crescita e lo lasciamo nella responsabilità del singolo PM, nasce un problema di coordinamento . Il Trattato di Maastricht fece la scelta del coordinamento automatico a mezzo dei parametri. Ora come allora, la RFT non si fidava degli altri PM e volle il Patto di stabilità e crescita ma il secondo volet non è stato mai attuato. Ma un coordinamento stretto come quello che si è realizzato negli ultimi anni con TwoPact, Sixpact, Fiscal Compact ed Europlus è equivalente ad avere una politica economica e finanziaria unica senza un vera autorità centrale che possa decidere di indebitarsi per fare investimenti autonomi e di prevedere trasferimenti compensativi. Non c’è solo il problema di una Banca centrale che non può battere moneta. Il problema ancora più grave è che i governi dei PM hanno limiti stringenti di indebitamento e a livello centrale non c’è un ministro delle finanze che possa farlo affatto. Sotto la stretta sorveglianza della Troika vari PM affrontano il problema del risanamento dei conti pubblici ma non riescono ad affrontare per niente quello del rilancio della crescita sostenibile. Alcuni riescono così così, altri meno, altri falliscono del tutto. La ricetta delle best practises, propalata anche dall’OCSE (riforme strutturali, soprattutto, flessibilizzazione del mercato del lavoro), non funziona in condizioni di disoccupazione di massa, calo della domanda interna e moneta unica sopravvalutata che riduce notevolmente l’eventuale effetto di traino della domanda internazionale. Se funziona in parte, produce recessione, depressione e deflazione. In fatto, da un lato, si impedisce ai governi dei PM euromed di risolvere i loro problemi e, dall’altro, non si prevede a livello centrale un’autorità di politica economica e finanziaria che possa sostituirsi. In questo modo, si delegittimano sia le istituzioni centrali sia quelle sub-centrali. Come mette in evidenza Von Sydow serve una più attenta attribuzione delle competenze ai vari livelli di governo. Non basta dire no ad un super Stato centralizzato o dire si ad un assetto decentralizzato come quello di Maastricht se poi non si prendono in considerazione neanche proposte intermedie ed articolate come quella avanzata a suo tempo da Tommaso Padoa Schioppa della suddivisione delle responsabilità e/o competenze assegnando la crescita al governo centrale europeo e la stabilizzazione ai governi sub-centrali. Si tratta di ripartizione diversa (opposta) rispetto a quella suggerita dalla teoria economica del federalismo ma che è giustificata se si tiene conto che, nell’assetto di Maastricht, al centro non c’è un governo che possa svolgere né la funzione riallocativa né quella di stabilizzazione. La proposta di Padoa Schioppa voleva affrontare e risolvere il problema della conciliazione tra stabilizzazione e crescita con il quale noi italiani ci confrontiamo da oltre 50 anni senza riuscire a risolverlo, senza superare lo stop and go e/o la politica dei due tempi: prima la congiuntura e poi la crescita.
Tuttavia non bisogna dimenticare che Maastricht ci ha portato l’euro. Questo ha funzionato bene sino al 2008 ed ha superato bene anche la crisi 2008-2013 e gli attacchi speculativi contro di esso dopo la ferma presa di posizione da parte di Draghi nel luglio 2012. Da quando c’è l’euro anche l’Italia ha goduto di bassi tassi di interesse e ha potuto dimezzare l’onere del servizio del debito pubblico. Le risorse liberate non sono state utilizzate per rilanciare gli investimenti. Quello che non ha funzionato per niente è il patto per la crescita. Da qui la bassa produttività di alcuni PM e l’eurosclerosi media. Hillebrand e Kellner non toccano per niente la questione delle politiche condotte (e/o imposte) dalla RFT. Non sono le uniche possibili. Era sbagliato il Washington consensus degli anni ’90 e il FMI ha fatto ravvedimento. È sbagliato il Berlin (Francoforte) consensus e il FMI si è di nuovo ravveduto . Ha mostrato qualche flebile segnale di ripensamento anche la Commissione europea ma nessun dubbio passa per la mente dei dirigenti della BCE e dei conservatori che hanno la stragrande maggioranza dentro il Consiglio europeo. Anzi, con falso spirito puritano, alcuni di loro hanno fatto credere che il debito sia sinonimo di peccato – secondo un’antichissima credenza.
In diversi saggi si tocca, a volte con toni quasi nostalgici, la questione della sovranità nazionale ma nessuno affronta il problema di una Unione che ormai è andata troppo in avanti specie con l’integrazione monetaria e, ora, anche creditizia (Unione bancaria)e fiscale ma che, tuttora, non produce in proprio fondamentali beni pubblici europei, rinunciando a consistenti risparmi di spesa pubblica (vedi il volume di Astrid, Il finanziamento dell’Europa. Il bilancio dell’Unione e i beni pubblici europei, a cura di M.T. Salvemini e F. Bassanini, Passigli Editori, 2010.
Osservo che il discorso sullo Stato nazionale è datato e non corrisponde più all’esigenze di oggi. Rispetto a certe proposte che ipotizzano federazioni di Stati indipendenti , bisogna prendere atto – come scrisse chiaramente Calamandrei nel settembre 1945: “non più indipendenza, ma ‘interdipendenza’: questa è la parola non nuova in cui, se non si vuol che il domani ripeta e aggravi gli errori di ieri, si dovrà riassumere in sintesi il nuovo senso della libertà, quello da cui potrà nascere da tanto dolore un avvenimento diverso dal passato: libertà come consapevolezza della solidarietà umana che unisce in essa gli individui e i popoli, come coscienza della loro dipendenza scambievole; come condizione di giustizia sociale da rispettare e da difendere prima negli altri che in noi; come reciprocità e come collaborazione a una più vasta unità”……. “i popoli saranno veramente liberi quando si sentiranno anche giuridicamente ‘interdipendenti’. Il federalismo, prima che una dottrina politica, è la espressione di questa raggiunta coscienza morale della interdipendenza della sorte umana, che intorno ad un unico centro si allarga con cerchi sempre più larghi, dal singolo al Comune, dalla regione alla nazione, dall’unione supernazionale alla intera umanità.….”. Il problema è colto correttamente da Goodhart non solo perché il processo di integrazione è andato troppo in avanti ma anche perché lo Stato nazionale di dimensione media è troppo grande per occuparsi bene dei problemi della gente e troppo piccolo per affrontare da solo i problemi della globalizzazione. Sulla stessa linea, Konrad correttamente auspica maggiori vincoli costituzionali (comunitari) alla sovranità nazionale dei PM. Stigmatizza i politici che enfatizzano gli interessi nazionali invece di quelli comuni. Afferma che serve il self-restraint – un principio fondamentale per far funzionare un assetto federale.
Connessa alla questione della sovranità è quella della solidarietà. Pur non escludendo che questa possa operare oltre i confini dello Stato nazionale, Gerrits sostiene che l’area ottimale della sua operatività resta lo Stato nazionale. Con il cinismo di chi, da una vita si occupa di tasse, resto di parere diverso e sostengo che la solidarietà non funziona in ambito allargato. Non funziona o funziona male a livello nazionale come dimostra anche il caso italiano. Anche in termini di teoria dei giochi non cooperativi conviene perciò ragionare in termini di reciprocity e/o di interesse reciproco. Ma se neanche questo è percepito correttamente se, dopo cinque anni di crisi e due recessioni, alla fine dell’anno scorso la Merkel fa un accordo con l’Inghilterra di Cameron per tagliare di 90 miliardi di euro le prospettive finanziarie, alias, il bilancio dell’UE 2014-20. Da qui l’interesse per l’analisi economica e le proposte presentate da P. Borioni. Questi documenta l’abbandono delle politiche attive del lavoro specialmente nella RFT ed il conseguente impoverimento delle classi lavoratrici che innescano anche un problema di sostenibilità del modello sociale. Auspica un meccanismo di coordinamento delle politiche salariali a livello europeo, come studiato da Blanchard, capo economista del FMI, per molti aspetti, simile a quello proposto da Brancaccio e Passarella nel 2012. Presenta il piano del lavoro della Confederazione dei sindacati tedeschi per la creazione di 11 milioni di nuovi posti di lavoro in dieci anni. Un obiettivo alquanto timido se si tiene conto che gli attuali disoccupati dell’Unione sono 27 milioni pari al 12% della forza lavoro. Ricorda che anche la CGIL ha presentato un analogo piano per l’Italia con un orizzonte temporale più breve, 3-5 anni. Ma detti piani anche se insufficienti non hanno attirato l’attenzione che essi meritano non solo dall’opinione pubblica in generale ma neanche da parte delle altre confederazioni sindacali dei PM. Il 4 aprile scorso 50 mila lavoratori provenienti da tutta Europa hanno manifestato a Bruxelles contro l’austerity. Lo slogan era “fighting for investment, quality job and equality”. Ci sono stati scontri con la polizia ed alcuni feriti. Anche questa protesta è stata trascurata dai mass media. Eppure molti politici ipocritamente continuano a parlare di lavoro, inclusione sociale e lotta contro le diseguaglianze. Anche Pogàtsa riconosce che c’è un degrado della democrazia nei PM analogo a quello che riguarda l’America. Anche il ruolo delle forze sociali viene indebolito quando non trovano interlocuzione con i governi. Quindi le indicazioni fondamentali sono due: a) riaprire il cantiere delle riforme istituzionali a livello europeo per promuovere il rinascimento della democrazia europea che, ovviamente, passa attraverso il miglioramento del funzionamento della democrazia interna nei singoli PM. Senza questo rilancio della democrazia è seriamente a rischio la sopravvivenza del compromesso socialdemocratico; b) rilanciare il discorso del coordinamento europeo delle politiche salariali sapendo che esso non può funzionare senza una autorità di politica economica a livello centrale, senza una politica dei redditi (di tutti i redditi) a livello centrale, senza una programmazione dell’economia europea. Non si salvano i diritti sociali in un mondo governato da tecnocrazie sempre più lontane dalla gente o da governi apertamente autoritari che vogliono governare senza rispettare le preferenze dei cittadini e/o con Parlamenti di nominati. Serve un vero e proprio governo europeo che abbia la fiducia del parlamento europeo e che sia autonomo rispetto a quelli sub-centrali dei PM.
Ritornando al saggio di Borioni, ricordo che se nella fase della prima integrazione economica europea il federatore è stato il capitale. Ora questo non basta più anche perché il capitale è diventato un global player, ha assunto l’orizzonte planetario senza frontiere. Sarebbe auspicabile che subentrassero come forze motrici veri e propri partiti politici europei e le legittime rappresentanze mondo del lavoro e dell’impresa. Riusciranno a farlo?