Parlare di ritorno alla democrazia nel caso del referendum greco è a dir poco inappropriato. Si può guardare al fatto da due punti di vista. Da quello interno (della Grecia) e allora si dovrebbe tener conto, da un lato, che è difficile pensare che ogni programma di politica economica debba essere sottoposto a votazione diretta da parte degli elettori. Specialmente in questo caso bisogna tener conto che le elezioni politiche che hanno dato a Syriza il compito di formare il governo sono avvenute appena sei mesi fa, nel gennaio 2015, e che il programma portato avanti in questi sei mesi è sostanzialmente lo stesso. Il problema è che Syriza ha fatto promesse che difficilmente avrebbe potuto mantenere: ha fatto i conti senza l’oste. E la condotta delle trattative non è stata la migliore per colpa di entrambe le parti. Quindi convocare un referendum appena sei mesi dopo l’insediamento del governo può essere interpretato come un segno di debolezza da parte di una dirigenza inesperta e avventuristica. Salmodiare sul valore democratico del referendum può essere visto anche come un sottoprodotto di certo populismo demagogico.
Il governo greco sapeva che si sarebbe trovato a trattare con Istituzioni europee dominate da governi a maggioranza di centro-destra e con programmi di ispirazione neo-liberista. Che poi non abbia raccolto l’appoggio di governi di centro-sinistra come quelli francese e italiano dipende, in parte, dalla sua inesperienza e, in parte, dalla resistenza di questi governi non disponibili a schierarsi frontalmente contro la Germania.
Ma sostenere che il governo greco è il solo legittimato da una scelta referendaria non può significare che gli altri governi dei Paesi membri (PM) dell’eurozona siano privi di legittimazione democratica. Inoltre c’è un punto che non mi sembra sia stato toccato dai commentatori degli ultimi giorni. Il governo greco è a un tempo componente del Consiglio europeo e governo della Grecia (una regione piccola dell’Unione). Le politiche economiche adottate dal Consiglio europeo non possono essere capovolte da un referendum di un PM al di là della legittimità – e non solo della opportunità – di un simile atto. Infatti, bisogna ricordare che i referendum in materia fiscale non sono ammessi in molti ordinamenti e, per analogia, lo stesso criterio vale per le scelte di politica economica in generale. Si tratta di materia molto complessa per la quale chiedere agli elettori una risposta positiva o negativa comporta un eccesso di semplificazione sempre di sapore demagogico.
Diverso il discorso sulle conseguenze dolorose di una scelta di politica economica imposta a colpi di maggioranza. A mio giudizio, si sta facendo strada l’idea di processare le autorità di politica economica che applicando ottusamente scelte economiche sbagliate causino danni enormi in termini di perdita di reddito, di posti di lavoro, di riduzione dei diritti sociali, ecc.. Vedi sul punto Wolfgang Munchau in Corriere della Sera del 7 luglio u.s..
Diverso ancora è il discorso sulle procedure decisionali europee che ormai da decenni evidenziano un grave deficit democratico. Intanto c’è una verticalizzazione di detto processo che alcuni ritengono inevitabile ma altri condannano perché lascia ampi spazi decisionali ad Autorità amministrative c.d. indipendenti, ma senza diretta legittimazione democratica. Sappiamo che a livello europeo c’è una deriva tecnocratica e tendenzialmente autoritaria già evidenziata e stigmatizzata da diversi politologi e commentatori. Vedi da ultimo le illuminanti considerazioni di Papa Francesco nella Enciclica “Laudato sì”: “Non si può pensare di sostenere un altro paradigma culturale e servirsi della tecnica come di un mero strumento, perché oggi il paradigma tecnocratico è diventato così dominante, che è molto difficile prescindere dalle sue risorse, e an¬cora più difficile è utilizzare le sue risorse sen¬za essere dominati dalla sua logica.
Il paradigma tecnocratico tende ad eser¬citare il proprio dominio anche sull’economia e sulla politica. L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza pre¬stare attenzione a eventuali conseguenze negati-ve per l’essere umano. La finanza soffoca l’eco¬nomia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale e con molta lentezza si impara quella del deterioramento ambientale. ……”.
Personalmente ritengo che le istituzioni europee che lasciano più a desiderare sono il Consiglio europeo dove siedono i capi di Stato e di governo che non sono eletti per rappresentare gli interessi generali di tutti i PM ma, inevitabilmente, sono portatori, in prima istanza, degli interessi generali o delle sole maggioranze all’interno dei loro paesi. Anche la Commissione europea – embrione di un governo federale – soffre dello stesso difetto di composizione. Ogni commissario rappresenta un paese. Per consuetudine la presidenza è stata affidata spesso a rappresentanti di Paesi piccoli e deboli. E questo ha contribuito a trasformare la Commissione in una sorta di Ufficio studi per conto del Consiglio europeo. Da ultimo c’è stata la designazione diretta del candidato alla Presidenza della Commissione ma tale procedura non mi sembra abbia portato ad un salto di qualità nel ruolo di un organo che dovrebbe essere l’interlocutore diretto del Parlamento europeo.
Proprio perché non si voleva un vero e proprio governo europeo, nel 1992 nel Trattato di Maastricht si scelse un coordinamento delle politiche economiche attraverso dei parametri che ora sono ampiamente superati anche perché dal 2008 è intervenuta una crisi prima finanziaria e poi economica molto più grave di quella del 1929. Il monitoraggio del rispetto dei parametri e del coordinamento delle politiche economiche avviene ad opera della tecnocrazia di Bruxelles e di Francoforte sul Meno per cui agli stessi politici sono lasciati margini ristretti di discrezionalità. Per fare un esempio, l’Italia rispetta il vincolo del 3% sul deficit e, quindi, non può indebitarsi per fare investimenti pubblici. Con l’allentamento monetario, adottato con cinque anni di ritardo, c’è un mare di liquidità ma i governi dei PM euromediterranei non possono mobilitarla emettendo nuovo debito pubblico. Non possono finanziare lavori pubblici, ricerca e innovazione , investire nel capitale umano e nell’organizzazione del lavoro. Questo vale per la Grecia e per l’Italia le cui economie stagnano da circa un quarto di secolo. L’Italia avrebbe avuto interesse a non firmare il Fiscal Compact nel 2012 ma il Prof. Monti era ideologicamente in pieno accordo con la Merkel. Il governo Renzi avrebbe dovuto chiedere la revisione di quelle normative nell’inverno 2014 ma non lo ha fatto perché ha giocato le sue carte sulla flessibilità sull’applicazione dei parametri. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e, democraticamente, ognuno può pensarla come vuole.
Come ho detto, negli ultimi sei mesi il governo greco si è battuto in modo incerto e confuso ma con tutte le sue forze per una modifica radicale delle politiche economiche e finanziarie portate avanti dalla maggioranza dei governi di centro-destra. Molti si sono illusi che ce la potesse fare. Il governo italiano si è comportato in maniera levantina schierandosi a fasi alterne con la Germania e con la Grecia. A quest’ultima , a cui alcuni rimproverano comportamenti levantini, a mio giudizio, va l’onore delle armi per il tentativo confuso e solitario di cambiare una politica economica e finanziaria sbagliata e per avere evidenziato tutti i limiti e difetti della c.d. governance europea. Nella sua ottusità quest’ultima non si rende conto che il paradigma tecnocratico creato da Maastricht sta promuovendo l’allargamento dei divari economici e territoriali tra aree centrali e quelle europee. Nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea è detto solennemente che l’Europa assicura la coesione economica e sociale dei diversi PM. Senza e con la moneta comune la situazione è peggiorata. La questione non è all’ordine del giorno.
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