La presente recensione è il testo rivisto e integrato della presentazione a Bari Facoltà di Giurisprudenza (9 ottobre 20159) del libro di Antonio Maglie, 1969-1972: La metamorfosi della UILM. Seconda edizione aggiornata, Fondazione Bruno Buozzi, iQuaderni, 10, Tipolitografia Empograph, Roma, settembre 2015.
Sono un economista e come tale poco adatto a un libro che tratta l’evoluzione interna di un sindacato di categoria come quello dei metalmeccanici UIL nel periodo 1969-76, in realtà, su un periodo molto più esteso prima e dopo l’Autunno caldo. Da sempre vicino al sindacato, devo precisare che, per lo più, ho collaborato con le Confederazioni sui temi della politica economica e finanziaria nazionale e sovranazionale e, da vicino, ho seguito solo il sindacato scuola-università in ragione della mia qualifica di docente universitario.
Il libro è scritto in maniera brillante ed approfondisce in modo penetrante gli aspetti oggettivi e soggettivi della metamorfosi della UILM. Altre personalità presenti alla manifestazione di Bari hanno potuto meglio di me entrare nel merito. Io ho cercato di limitare le mie valutazione sui contenuti, sugli obiettivi della politica dei metalmeccanici cercando di metterli in relazione al contesto politico ed economico di quel periodo post-1968, ad un tempo, tragico, travagliato ed esaltante. Preciso che questi agganci al contesto esterno ci sono nella narrazione di Antonio Maglie, io ne approfondisco alcuni. L’Autore è uomo di grande cultura e ha saputo inquadrare l’evoluzione della UILM nel contesto storico del dopoguerra specialmente dagli inizi degli anni ’60 sino alla seconda metà degli anni ’70. Ma non manca di elencare i problemi degli anni ’50: ritmi lavorativi sempre più intensi, luoghi di lavoro insalubri e pericolosi; l’alienazione della catena di montaggio; l’organizzazione autoritaria, repressiva e punitiva del lavoro; alti costi delle abitazioni; un’assistenza che penalizzava e lasciava fuori i più deboli; una previdenza non universale; ecc..
Le prime radici della metamorfosi dei metalmeccanici della UIL si collocano nella fase dell’apertura a sinistra (al PSI) dei primi anni ’60 grazie al rinnovamento dei quadri e alla presa di coscienza di molti lavoratori meridionali. Da qui nasce la grande stagione contrattuale dei primi anni ’60 e la fine della cosiddetta desistenza costituzionale come Calamandrei ha definito il periodo post 1948. Il grande giurista ha scritto che la Costituzione resta un pezzo di carta inerme se non trova la gente che la fa vivere e/o le gambe per farla camminare. Agli inizi degli anni ‘60, si registrano non solo gli scioperi per i contratti ma anche quelli politici contro il governo Tambroni. Il programma del Centro-sinistra che si va delineando è per molti versi la ripresa del discorso dell’attuazione della Costituzione. L’episodio di Piazza Statuto a Torino (luglio 1962) che Antonio Maglie valorizza, si inquadra anche in quel contesto. Si erano aperti nuovi spazi di libertà e l’UILM li coglie prontamente. Partono le spinte unitarie anche se restano ancora altre divisioni. Si fanno degli accordi separati che Giorgio Benvenuto valuta come un errore. Si registrano i colpi di coda della repressione poliziesca, i licenziamenti, ecc.. ma il movimento va avanti. Ci fu il primo comunitario unitario CGIL-CISL-UIL e lo sciopero generale dell’8-02-1963.
C’era stato il miracolo economico e la classe operaia ne aveva pagato i costi. Con i contratti di quegli anni, i lavoratori si prendevano quello che spettava loro. Sappiamo che ci furono conseguenze non lievi sulla congiuntura economica con l’esplosione dei consumi, delle importazioni di auto e suppellettili per la casa e anche di carne. Poi ci fu la brusca frenata monetaria e creditizia della Banca d’Italia che premeva per mettere a posto le cose. C’era il rischio di una svalutazione della lira da cui ci salvarono gli americani sollecitati dal duo Colombo-Carli. L’azione degli americani non fu altruismo puro ma di interesse reciproco perché, in quella fase, la loro bilancia commerciale era in forte deficit e una lira svalutata avrebbe favorito le esportazioni italiane anche sul mercato USA aggravando la loro situazione.
Non mi soffermo, per ovvie ragioni di spazio, sulla crisi congiunturale del 1963-64 e, soprattutto, sulla crisi politica del governo Moro I del luglio 1964, sulle vicende del Piano Giolitti, sulla questione della delimitazione della maggioranza a sinistra imposta dagli americani e dalla maggioranza dorotea della DC; sul conseguente rinvio dell’attuazione delle regioni a statuto ordinario (RSO) e della riforma della Pubblica amministrazione; sul mancato ingresso di Giolitti nel governo Moro II e sulle attenuazioni delle spinte riformatrici di questo governo; e, non ultimo sui contratti del 1965-66; e sull’atteggiamento altalenante del movimento sindacale nei confronti della programmazione. Consentitemi di annunciarvi che è già in tipografia un Quaderno della Fondazione Giacomo Brodolini su quella stagione del Centro-sinistra da me curato e che contiene ampie analisi anche sulle vicende della politica dei redditi, della politica industriale, urbanistica e per il Mezzogiorno.
Ma anche nella parte centrale degli anni ’60 continua il rinnovamento non solo generazionale ma anche culturale dei quadri sindacali che rivendicano maggiore autonomia e partecipazione al processo decisionale e fanno avanzare il discorso delle incompatibilità tra militanza sindacale e quella politica. E questo andrà a riflettersi sui contenuti innovativi dei contratti del 1969, 1973 e 1976. Secondo me, l’evoluzione culturale non solo della UILM ma anche degli altri metalmeccanici e – perché no – anche di altri sindacati di categoria andava di pari passo e/o interagiva con il dibattito sugli obiettivi della programmazione economica, il ruolo delle riforme di struttura e, non ultimo, con il problema del recupero del ritardo nell’attuazione del Welfare State nel nostro Paese.
A p. 43 Maglie accenna alla questione della divisione dei compiti tra sindacato di categoria e Confederazioni, e a quella tra partiti e sindacati. Dice chiaramente che nella UIL non c’era cinghia di trasmissione e che questo era il vantaggio comparato della UILM. Il sindacato ne guadagnò in termini di autorevolezza. Non sono la persona adatta per fare valutazioni affidabili al riguardo ma mi sembra che anche allora non mancarono tentativi di questo o quel partito di influire sulle vicende interne di alcune Confederazioni. E tuttavia non solo la UILM ma anche il sindacato in generale seppe conquistarsi ampi spazi di autonomia non solo perché, nel frattempo, c’era stata la decisione sulle incompatibilità ma anche perché le ali più avanzate della maggioranza governativa chiedevano la collaborazione di un sindacato forte per potere vincere le resistenze all’interno della stessa maggioranza. E tutto è stato possibile perché da un lato c’era una forte spinta di base che voleva decidere sulle cose autonomamente, dall’altro, c’era una dirigenza sindacale che seppe recepire e guidare quelle istanze, che seppe incanalare anche la protesta studentesca su obiettivi generali come quelli delle riforme di struttura (fisco, casa, sanità, scuola, università, trasporti, previdenza, ecc.).
Sulle riforme di struttura vale la pena aprire una piccola parentesi. C’erano due letture di esse: una prima riformista di razionalizzazione dei servizi esistenti e di ampliamento dei diritti dei lavoratori e dei più deboli; una seconda sedicente rivoluzionaria secondo cui alcune riforme dovevano servire a superare il capitalismo ed avviare la transizione al socialismo. Questa linea creò delle illusioni specie tra i giovani che non avevano buona cognizione dei vincoli esterni all’interno dei quali doveva evolversi il sistema politico italiano. In ogni caso, le riforme di struttura del Centro-sinistra erano una cosa seria mentre quelle di oggi sono una pagliacciata tranne quelle sovrastrutturali riguardanti la disciplina giuridica del mercato del lavoro con le quali si mira proprio a ridurre i diritti conquistati negli anni di cui si occupa il libro di A. Maglie. In quegli anni non c’era più la guerra fredda ma, peggio ancora, c’era la guerra guerreggiata. Nel 1967 c’era stato il golpe dei colonnelli greci. L’Italia era l’unica democrazia nel Mediterraneo e la destra occidentale pensava che l’Italia fosse un’anomalia. Nel 1968 c’era stata la repressione della Primavera di Praga. Non era neanche pensabile che un Paese del blocco atlantico potesse transitare nel blocco sovietico e viceversa. Giustamente Maglie parla di “visioni oniriche” di chi pensava che qualcosa del genere fosse possibile. A conclusione dell’Autunno caldo, abbiamo la strage di P.za Fontana a Milano (12-12-1969) e da lì si scatena la strategia stragista. Nel 1969 a Washington governavano Nixon e Kissinger. Volevano chiudere con le buone o con le cattive la guerra del Vietnam e lanciavano bombe al napalm a non finire. Ricordo questi fatti storici di contesto per sottolineare come la metamorfosi della UILM, della FLM e di tutto il movimento sindacale – che, al confronto del presente, appare sempre più come l’età dell’oro del sindacato italiano – non avvenne in un contesto di “normalità” ma di grande trasformazione disordinata e contestata, di grande turbolenza politica interna ed internazionale, con il “golpe sempre in agguato” (G. Sabbatucci), a cui poi segue “il golpe invisibile” di G. Galli, che spiega meglio “il paese mancato” di G. Crainz. C’è proprio in quegli anni una sequenza di tentativi di colpi di Stato (Tambroni, De Lorenzo, Borghese, la rivolta di Reggio Calabria dal luglio 1970 al febbraio 1971 stoppata grazie anche all’impegno determinante del sindacato che ha saputo schierarsi dalla parte giusta a difesa della Repubblica e della sua Costituzione. C’erano non ultime le gerarchie militari che non erano entusiaste della partecipazione socialista al governo e, meno che mai, di quella comunista che si profilava all’orizzonte dopo che, nell’autunno del 1974, si era esaurito per contrasti interni tra Giolitti e La Malfa il resuscitato Centro-sinistra. Va ricordato che il segretario del PSI De Martino – già dall’ottobre 1970 – aveva enunciato l’idea dei nuovi equilibri avanzati e che, dopo le elezioni anticipate della Primavera del 1972, c’era stata l’aperta svolta a destra del governo Andreotti-Malagodi che non riuscì a reggere più di un anno. Eppure quella dirigenza sindacale seppe sbrogliarsela bene in mezzo a tante difficoltà e convulsioni.
Sui contenuti delle piattaforme rivendicative che, via via, si allargavano alle condizioni di vita fuori dai posti di lavoro e ai diritti civili e sociali c’è analisi approfondita di Maglie. Mi limito a sottolineare che sui diritti civili e sociali c’è primato della UILM che va riconosciuto. E tutti sanno quanto questo lavoro sia tuttora necessario in un Paese dove i diritti dei più deboli non sono garantiti. Torno sulla questione per collegarla all’altro punto sollevato dall’Autore sui rapporti tra Confederazioni e sindacati di categoria. Ecco nei limiti in cui l’Italia era in ritardo di almeno venti anni nell’attuazione del Welfare State, è chiaro che il sindacato doveva spingere per quelle riforme ed entrare in un rapporto dialettico con il governo. Da qui la necessità della concertazione che dal premier Renzi viene considerata un’eresia ma l’ex sindaco di Firenze e i suo corifei sbagliano se pensano di poter cambiare il paese da soli, senza il sindacato. Allora il sindacato imponeva la concertazione e spesso vinceva perché era unito o agiva in chiave unitaria mentre la maggioranza di governo era divisa. Negli ultimi 20 anni, i governi di centro-destra sono apparsi relativamente più compatti e sono riusciti almeno in parte a delegittimare il sindacato; sono riusciti soprattutto a dividerlo.
Certo rispetto alle aspettative, i risultati delle lotte di quegli anni non furono del tutto soddisfacenti. Ma quella stagione resta più altamente riformatrice. Basti pensare alle riforme portate a casa dal governo Colombo (fisco, Mezzogiorno, casa, urbanistica, salari, ecc.). Certo la questione meridionale non fu risolta ma è un fatto statisticamente documentato dall’Istat, dalla Svimez, da Giovanni Vecchi (In ricchezza e in povertà…,il Mulino, 2011) e altri che gli investimenti pubblici e privati nel Sud negli anni ’60 conobbero un’impennata come non si era mai vista prima e come, purtroppo, non si è più verificata dopo sino ad oggi. Ma l’aspetto più qualificante incorporato nelle rivendicazioni salariali fu l’egalitarismo con gli accorpamenti delle mansioni, gli aumenti uguali per tutti e il punto unico di scala mobile. La destra e le controparti criticarono aspramente quella politica sostenendo che si era andati troppo oltre. È certo che ci fu nella prima parte degli anni ’70 una crescita quantitativa e qualitativa della massa salariale. La quota del PIL attribuita al lavoro dipendente salì al 74,2% nel 1975 e l’indice di Gini che misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito scese dal 40 al 35%, di oltre il 10%. Un risultato senza precedenti. Secondo il Centro Studi Confindustria siamo tornati agli anni ’70 per il primo parametro ma le diseguaglianze sono fortemente aumentate. E sappiamo per altro verso che il fisco non riesce a redistribuire granché e quel poco che riesce a fare lo fa all’interno del recinto del lavoro dipendente.
Questo mi porta a riprendere un concetto che esplicitai per la prima volta nel 1972 in uno scritto incluso nel volume collettaneo “il futuro del sindacato” curato da Maria Luisa Astaldi. Nel mondo occidentale, nei sistemi liberaldemocratici, la determinazione del salario è compito delle parti sociali come dimostra ampiamente anche l’esperienza dei primi anni ’60 e ’70 e, soprattutto, quella degli altri Paesi occidentali. Le parti sociali sono autorità di politica economica e, che ne siano consapevoli o meno, esse concorrono in prima persona al governo della domanda aggregata; possono determinarne non solo l’incidenza sul PIL ma anche la composizione tra consumi ed investimenti come hanno fatto specialmente negli anni ’70 con le richieste di controllo degli investimenti e con il discorso più generale sul modello di sviluppo. Determinano e/o partecipano alla definizione della distribuzione primaria del reddito. Se la domanda langue, il sindacato ha una leva importante in mano per potere agire. Maggiore è la loro capacità di incidere sulla distribuzione primaria e minore è poi la necessità di redistribuzione attraverso il prelievo fiscale e la spesa pubblica. È invece illusorio affidarsi alla capacità redistributiva del Fisco perché, come detto, la progressività delle imposte personali è tutta interna al lavoro dipendente. Certo ci sono gap temporali da gestire ma questo evoca un sistema economico programmato magari accompagnato da uno appropriato scaglionamento delle scadenze contrattuali come aveva proposto Sylos Labini nei primi anni ’60. Ma sappiamo com’è andata a finire. A fine anni ’70 arriva la Tatcher (1979) e, nel 1981, Reagan negli Stati Uniti. La prima combatte duramente e sconfigge il sindacato inglese; il secondo sostiene che il governo è il problema del Paese. Trionfano le scuole neoliberiste e, dove più e dove meno, i governi si affidano alle virtù taumaturgiche del mercato. E se le cose non funzionano la colpa è della burocrazia e dei sindacati. Eppure i governi controllano o dovrebbero controllare la burocrazia. Se non riescono a farlo, di nuovo, è colpa dei sindacati che hanno imposto troppi vincoli. È il ritornello dei governi di centro-destra e, in non pochi casi, anche di alcuni governi di centro-sinistra degli ultimi 40 anni in Italia e all’estero – vedi il caso di Blair nel Regno Unito. Naturalmente neanche i sindacati sono immuni da colpe. Non sempre hanno fatto tutto il possibile per ridurre la disoccupazione. Sostengo che nessun governo di centro-sinistra o di centro-destra in Italia ha mai spinto l’economia verso il pieno impiego. Ma se guardate le statistiche sul reddito e sulla disoccupazione degli ultimi 70 anni – gli anni della Repubblica – troverete che gli anni in cui i livelli di disoccupazione sono stati più bassi sono proprio quelli dei primi anni ’60 e ’70 caratterizzati da un forte attivismo sindacale e da forti aumenti salariali. È un caso (una correlazione spuria) oppure ha funzionato la c.d. sferza sindacale. Io propendo per la seconda spiegazione.
Che cosa dimostra l’esperienza della UILM, della FLM e/o della c.d. IV Confederazione? Che uniti si vince e divisi si perde. La FLM fu egemone nel dibattito sindacale di quegli anni e funse da apripista rispetto alle tre Confederazioni. Purtroppo l’unificazione delle Confederazioni fallì anche per l’intervento dei soliti amici americani. Fu colpita dal “fuoco amico”. Nel 1974 finiva il Centro-sinistra al cui interno, come detto, c’erano forze che volevano un sindacato forte. Si apriva la strada ai governi di solidarietà nazionale (o più realisticamente dell’astensione e della non sfiducia) che emarginavano il PSI e dava a sinistra un ruolo preminente al PCI reduce da notevoli successi elettorali. Fu scelta necessitata e travagliata per la DC e per il PCI. Pochi mostravano ancora fervore per un sindacato forte ed unito. Nel Paese c’era una grande spinta a sinistra ma questa non era ben vista né all’interno né all’esterno. C’era il terrorismo di destra e di sinistra e l’Italia era terreno di scontro dei servizi segreti Est-Ovest e Nord-Sud. In Cile, come noto, c’era stato il golpe di Pinochet appoggiato dagli americani, che aveva indotto il segretario del PCI Berlinguer a lanciare il c.d. Compromesso storico. A Washington, però, c’erano Nixon e Kissinger e c’era poco da scherzare. Ancora prima da noi, come detto, c’era stata l’inversione di rotta del governo Andreotti-Malagodi. C’era la crisi mondiale dell’industria dell’acciaio e della cantieristica. Salta il progetto del V centro siderurgico di Gioia Tauro. Rientrato al governo insieme ad Ugo La Malfa nel luglio 1973 Giolitti prova a rilanciare il discorso della programmazione ma non ci riesce anche per dissensi con il leader repubblicano La Malfa. Si fanno gli ultimi tentativi anche con il lancio di programmi annuali ma l’Italia ha anche un drammatico problema di stabilizzazione dell’economia e, di nuovo, si impone la politica dei due tempi: prima la congiuntura poi le riforme. C’è anche un problema di trovare uno sbocco diverso alla crisi politica conseguente alla fine del centro-sinistra. Più in generale in occidente tramontano attorno alla metà degli anni ’70 i “trenta gloriosi” (1945-1975). Si apre una nuova fase storica.
Quaranta anni dopo, oggi, siamo di fronte a processo inoltrato di commoditization (mercificazione) del lavoro. Questo è una merce sottoposta alla legge della domanda e dell’offerta. Se l’offerta è abbondante si abbassa il prezzo; se il paese non è competitivo e si è in regime di moneta unica, si opera la c.d. svalutazione interna: si devono ridurre prezzi e salari. Se il lavoro si deteriora con l’uso, si getta via. Questa è la flessibilità che piace alla destra mondiale. 40 anni fa questi discorsi erano improponibili e inaccettabili. Pochi osavano farli ma ora secondo un’ineffabile editorialista del Corriere della Sera, siamo o stiamo passando ad una società post-sindacale. Contesto detta affermazione perché non argomentata e senza vero fondamento. Ma proviamo a vedere cosa potrebbe significare. Una società con i lavoratori senza diritti e il ritorno al capitalismo selvaggio? Improbabile. La fine del modello socialdemocratico come alcuni osservatori non ostili cercano di certificare? Anche questa ipotesi resta indimostrata perché, nonostante i tentativi di archiviarlo, in fatto, il modello sociale europeo resiste e sopravvive. Una forma di sistema misto alla cinese senza diritti di libertà e un sindacato inesistente? Anche questa forma di società mi sembra difficile che possa trovare cittadinanza in Europa o negli USA. A fronte anche di tentativi velleitari di tornare indietro, bisogna mobilitarsi ed utilizzare il potenziale della più grande forza organizzata di cui il Paese dispone.
Oggi abbiamo sette milioni di persone senza lavoro e più di otto milioni di poveri. Oggi è sempre più attuale il problema del riscaldamento climatico e dell’inquinamento ambientale. A Taranto ne abbiamo un esempio preclaro che ci tocca da vicino. Non ci può essere bilanciamento o trade off tra salute dei lavoratori e conservazione del posto di lavoro. Chi di dovere deve intervenire su entrambi i fronti. Come dice Papa Francesco nella sua Enciclica Laudato sì: “senza riconversione ecologica totale, non si salva né il lavoro né l’ambiente”. Se vogliamo proseguire nell’analisi delle analogie e delle differenze tra ieri ed oggi, lo ripeto: allora il sindacato era forte perché unito o agiva unitariamente. Oggi è diviso e perciò debole e indeciso. Allora concertava influenzando e, a volte, determinando le scelte pubbliche. Oggi si ferma perché il governo rifiuta la concertazione o addirittura prova a metterne in discussione la rappresentanza mentre è più attento nei fatti alle domande delle organizzazioni datoriali. Usa due pesi e due misure ma è un gioco troppo scoperto di cui i lavoratori prenderanno atto. Oggi non basta tornare alle categorie come qualcuno propone specialmente se uno pensa alla situazione del Sud dove è in fase avanzata un processo di desertificazione industriale – come lo dimostra per tabulas la Svimez da diversi anni. Oggi bisogna agire sul territorio a livello regionale e/o interregionale con piattaforme unitarie, possibilmente di tutte le regioni meridionali. Ricordiamoci che la missione originaria affidata alle RSO era la programmazione dello sviluppo. Era il 1970 e purtroppo l’attuazione della riforma prese 5-6 anni. Nel frattempo, in fatto, veniva accantonata la programmazione nazionale e le regioni si trasformavano in stazioni di mediazione politica, in non pochi casi, di basso livello. Sappiamo che, negli ultimi decenni, il 70-75% del bilancio delle RSO è impegnato sulla sanità e pochi spiccioli sono lasciati alle altre competenze tra le quali le politiche attive del lavoro. Ora il governo Renzi accentra questa ultima funzione e pensa di affidarla ad un’agenzia nazionale. A mio giudizio, sta commettendo un errore grave perché solo a livello locale ci sono le conoscenze idonee a formulare le migliori politiche di sviluppo e perché mettere in piedi una nuova struttura a livello centrale richiede tempo, personale addestrato e capacità organizzativa tutta da inventare. Secondo me, il sindacato che ha una struttura organizzativa capillare sul territorio deve andare in soccorso in particolare delle regioni meridionali. Deve aprire delle vertenze sul piano regionale, sui piani di sviluppo regionale. Se non lo è già deve attrezzarsi per fare questo. Il piano di sviluppo regionale potrebbe essere lo strumento, l’oggetto di interesse comune attorno al quale ricostruire un nuovo processo unitario. Anche qui ricordo l’esperienza dei comitati regionali per la programmazione economica degli anni ’60, ossia, nati prima che la programmazione fosse organizzata a livello centrale. Oggi ci sono gli istituti studi regionali le cui ricerche potrebbero essere valorizzate anche dal sindacato – sempre che esso voglia tornare ad essere forza incisiva di cambiamento come lo fu negli anni post-68.
Ecco se la rivisitazione di quel periodo storico di protagonismo della UILM, della FLM e di tentativi di unificazione delle tre Confederazioni non vuole essere solo un amarcord, dobbiamo avere consapevolezza che rileggere la storia passata serve non solo a chiarire le circostanze in cui si svolsero certi eventi, le cause dei successi e dei fallimenti ma serve anche a capire il presente e organizzare e programmare meglio le azioni per il futuro che il sindacato vuole contribuire a determinare.
P.S.: Nel suo intervento al Forum del Sole 24 Ore del 20-10-2015 sulla legge di stabilità 2016, il ministro Padoan ricorda che per il Sud il governo non attingerà a nuove risorse, ma renderà disponibili alle regioni risorse che in passato erano bloccate soprattutto a causa del patto di stabilità. Il lavoro che stiamo facendo è di tradurre questo spazio fiscale in progetti. Ringrazia il sottosegretario De Vincenti per il lavoro di coordinamento che sta facendo e che dovrebbe portare alla firma di 15 patti con regioni ed aree metropolitane per individuare i progetti. Tutti gli accordi consentirebbero di spendere in totale 11 miliardi (6 in più rispetto ai 5 del cofinanziamento). E di questi 7 andrebbero al Sud. Sarà così ma se uno guarda ai prospetti delle entrate ed uscite del ddl di stabilità non si trovano appostazioni contabili corrispondenti. Anche queste affermazioni sono emblematiche dell’atteggiamento del governo nei confronti dei sindacati. Il governo pensa di firmare patti con aree metropolitane che non esistono ancora e/o con le regioni di cui sta centralizzando rilevanti competenze in materia di politica economica e del lavoro ma ignora i sindacati radicati sul territorio. Sarebbe un errore grave se le Confederazioni e le loro segreterie regionali accettassero passivamente una simile impostazione e rinunciassero all’azione a livello regionale.