Per cercare di dimostrare la tesi che propongo nel titolo prendo le mosse dalla lettura del libro del prof. Massimo Procopio, Il sistema tributario italiano. Principi istituzionali, Cedam, 2013. Il testo è un’analisi approfondita del sistema tributario non senza avere introdotto una parte generale dove l’Autore tratta le questioni generali del fenomeno finanziario. Queste ultime mi appaiono alquanto sottodimensionate (162 pagine) se si considera la dimensione del volume che supera le mille pagine.
Della parte generale mi piace valorizzare subito i paragrafi in cui il prof. Procopio si occupa della teoria del consenso, ossia, dell’art. 23 della Costituzionale della riserva di legge e/o principio di legalità di cui si riconoscono le prime affermazioni nella Magna Charta del 1215 che proprio quest’anno compie l’ottavo secolo. Allora, quelli che cercavano una garanzia erano i baroni oggi sono o dovrebbero essere i cittadini contribuenti. Naturalmente il prof. Procopio non solo specifica che la divisione dei poteri e/o lo Stato di diritto, in pratica, si deve applicare anche in materia tributaria e perciò correttamente scrive che “il contenuto del principio in esame dipende dal fatto che la legge risponde alle esigenze di rappresentatività dei cittadini nel loro complesso; è quindi espressione della volontà popolare e non della maggioranza in quanto è formulata dall’organo rappresentativo della collettività: il Parlamento, il quale tutela l’interesse generale; un interesse che rappresenta una sintesi ponderata degli interessi individuali e perciò anche di quelli appartenenti alla minoranza”. Questo è un punto fondamentale che porta al cuore dei problemi della democrazia. Sappiamo che dopo la Rivoluzione francese votavano soltanto gli abbienti e che gli interessi dei meno abbienti non sempre venivano correttamente rappresentati . Con l’introduzione del suffragio universale , non di rado, la legge era espressione solo degli interessi della maggioranza o, addirittura di parte di essa anche a causa del fatto che i cittadini contribuenti non di rado non sono in grado di valutare i veri beneficiari delle leggi. Ci sono infatti complessi problemi di valutazione degli effetti economici delle leggi fiscali in termini di traslazione, incidenza e di illusione finanziaria che sfuggono alla valutazione del contribuente medio.
Ma tornando alla questione della separazione dei poteri e alla centralità del Parlamento, oggi gioca anche la continua e progressiva espropriazione del potere legislativo da parte del governo a scapito del Parlamento. E in assenza di uno Statuto dell’opposizione o di regole che prevedano maggioranze qualificate, il governo normalmente è espressione della maggioranza parlamentare – salvo i casi in cui per prassi consolidata su certe questioni si decide con il più ampio schieramento. Per cui, oggi come ieri, vale quello che, negli anni sessanta e settanta, affermavano i coniugi Musgrave, ossia, resta vero che “far funzionare il sistema fiscale è grossa parte del compito del compito di far funzionare la democrazia”. E rispetto ad una nozione di tributo come “prestazione patrimoniale imposta” molti economisti valorizzano la nozione generale di prezzo fiscale che risponde meglio alla teoria dello scambio volontario elaborata inizialmente dalla scuola svedese sul finire del XIX secolo e agli inizi del XX (modello Wicksell-Lindahl). In altre parole, l’operatore pubblico fornisce i beni pubblici richiesti dai cittadini e questi sono disposti a pagarli alla stessa stregua di quello che fanno quando nel mercato comprano un bene privato. Di conseguenza, la vera prova che, in termini sostanziali, c’è consenso viene data dall’adesione spontanea al sistema tributario: non c’è evasione massiccia – come da noi – perché i contribuenti pagano spontaneamente. I controlli e le procedure coercitive nella fase della riscossione sono minimi. Questa scuola di pensiero si contrapponeva a quella politico-sociologica prevalente in Italia secondo cui il fenomeno finanziario era caratterizzato da assetti coercitivi. E la prevalenza di detta scuola, a mio giudizio, si spiega proprio con il fatto che, dall’unità ad oggi, ben poca attenzione è stata dedicata da tutti i governi ai problemi della giustizia sociale e di quella tributaria.
Dopo avere trattato il problema della legalità e della democrazia sostanziale, il prof. Procopio affronta un altro problema centrale che, di norma, i tributaristi italiani tendono a dare per scontato ed è quello del rapporto tra giustizia tributaria e giustizia sociale. In realtà, la dottrina tributarista ritiene di affrontare il problema della giustizia sociale collegando l’art. 53 Cost. (capacità contributiva) con l’art. 2 Cost. (solidarietà). Questo recita : “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Ora se analizziamo attentamente il testo, vediamo che il dovere di solidarietà fa parte della seconda proposizione: richiede l’adempimento dei doveri inderogabili……

È vero che la dottrina tributarista italiana sostiene che, in questo modo, i padri costituenti avrebbero costituzionalizzato il principio di giustizia sociale , sotteso in modo particolare a quello di solidarietà. Ma, a mio modesto parere, la giustizia sociale, di cui quella tributaria è importante strumento, non può essere intesa o classificata soltanto come uno dei tanti doveri di solidarietà politica, economica e sociale. E non è che i costituenti non avessero una teoria chiara ed esplicita della giustizia sociale – vedi più avanti Calamandrei – perché se uno va a scorrere semplicemente la lettera degli articoli compresi nei Titoli II (Rapporti etico-sociali) e III (Rapporti economici), si accorge che ci sono tutti i principali elementi costitutivi del c.d. compromesso socialdemocratico, ossia, del Welfare State come veniva attuandosi nel centro-nord dell’Europa: sostegno della famiglia, tutela della salute, diritto allo studio per i bisognosi e meritevoli; tutela del lavoro e salario sufficiente per il lavoratore e la sua famiglia; parità di genere; tutela del risparmio; collaborazione alla gestione aziendale; previdenza e assistenza sociale; ecc..
Ora se attuare la giustizia sociale equivale ad attuare l’art. 3 Cost. sull’uguaglianza o, quanto meno, in termini di riduzione delle diseguaglianze che il sistema spontaneamente produce ed alimenta, ritengo che l’art. 53 debba essere coniugato con l’art. 3 sull’uguaglianza e il diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost.. In questi termini, il diritto al lavoro (art. 4) sarebbe meglio collocato al posto dell’art. 2 : la Repubblica è fondata sul lavoro. La Repubblica non solo riconosce ma garantisce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che lo rendano effettivo – proprio perché con il frutto del proprio lavoro la persona può soddisfare i bisogni fondamentali suoi e della famiglia e conquistarsi la dignità di cui agli artt. 3, 36 e 41 Cost.. Ora rendere effettivo tale diritto per un economista significa solo perseguire con tutti i mezzi a disposizione una politica di pieno impiego. Ma vediamo i limiti dell’impostazione di cui soffre anche l’art. 3 comma 2 Cost. Questo non enuncia chiaramente che è compito della Repubblica perseguire il pieno impiego – come fa il Piano Beveridge in Inghilterra. Si limita a dire che è suo compito rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale…… A mio modesto parere, anche questa è visione riduttiva che sposa l’impostazione ottimista e liberista degli economisti classici: il sistema tende spontaneamente verso il pieno impiego. Se si frappone qualche ostacolo di ordine economico basta rimuoverlo. Non c’è alcuna generica indicazione circa gli strumenti da adottare per rimuovere gli ostacoli. Keynes non era ancora arrivato nelle aule della Costituente o se era certamente conosciuto da alcuni componenti della Commissione economica, purtroppo, questi non sono riusciti a farlo recepire esplicitamente nella lettera degli art. 3 e 4 Cost.. Ha scritto Federico Caffè che fu collaboratore di Meuccio Ruini che tra gli economisti prevaleva l’impostazione liberale di Gustavo del Vecchio, Costantino Bresciani-Turroni e Luigi Einaudi. Ma vediamo come Piero Calamandrei spiega agli studenti il 26 gennaio 1955 il comma 2 dell’art. 3 Cost. in relazione all’art. 34 sul diritto allo studio, in un celebrato discorso alla Società Umanitaria di Milano nel quadro di un ciclo di sette conferenze organizzate dagli stessi studenti: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo primo – “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” – corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il migliore contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società”.
Purtroppo dobbiamo dire che tutti i governi della Repubblica hanno tradito questa missione e/o programma costituzionale. Nessuno di essi ha veramente fatto tutto quello che era possibile per spingere l’economia verso il pieno impiego. E negli ultimi quaranta anni di ubriacatura neo-liberista siamo arrivati al paradosso di vedere governi che affidano il compito di creare posti di lavoro solo alle imprese o che, addirittura, invitano i lavoratori disoccupati e scoraggiati a procurarselo da soli il lavoro.
Il trattato del prof. Procopio è scritto in modo chiaro e brillante. La parte speciale è approfondita e costituisce un importante ed indispensabile strumento di lavoro. Da quanto ne sono entrato in possesso, per generosa donazione da parte dell’Autore, lo tengo a portata di mano sul tavolo di lavoro per la più immediata e proficua consultazione.