Il 14 gennaio scorso le tre maggiori Confederazioni CGIL, CISL e UIL hanno varato un documento unitario sulle nuove relazioni industriali. Il Presidente del consiglio Renzi, anche nella intervista al Sole 24 Ore di qualche giorno fa, ha ribadito che se le parti sociali non trovano al più presto un’intesa, il governo provvederà per legge. In che termini non è dato sapere. La Confindustria ha subito detto che il documento è vecchio. Sui giornali ho letto alcune analisi anche di commentatori qualificati ma non mi sembra che essi colgano alcuni punti rilevanti che riguardano i tre principali capitoli della questione: a) l’articolazione della contrattazione; b) la partecipazione e c) il welfare aziendale.
In questa nota mi occupo solo del decentramento contrattuale. Tutti favorevoli ma sull’idea generale. Di che si tratta? Di applicare in larga scala la contrattazione aziendale. Ora i contratti aziendali si sono sempre fatti dove e quando possibile data la struttura del nostro sistema economico caratterizzata al 95% da piccole e medie imprese. In realtà la proposta nasconde l’idea di un ridimensionamento del ruolo della contrattazione nazionale che, in qualche modo, ha garantito certi standard medi di trattamento economico e di stato giuridico. Nel documento CGIL-CISL-UIL pubblicato il 14 gennaio scorso si prevede che proprio per tener conto della presenza di tante microimprese dove non sono presenti i sindacati, in via alternativa, si prevede la possibilità di far riferimento al contratto territoriale. La mia osservazione è connessa al ruolo del contratto aziendale e a quello territoriale e alla questione dell’ alternatività tra il primo e il secondo.
Per affrontare meglio questo discorso del decentramento all’interno del nuovo modello di contrattazione salariale, ritengo opportuno fare due premesse. La prima riguarda l’oggetto della contrattazione in generale e la seconda riguarda gli attori che sono chiamati a svolgerla.
Una cosa ovvia che non viene detta nei documenti e nelle analisi che ho fin qui letto è che la contrattazione riguarda la maggiore voce della c.d. politica dei redditi (di tutti i redditi): salari, profitti e rendite. Ora mentre le prime due voci sono determinate direttamente dalle parti sociali, le rendite possono essere controllate solo dal governo anche attraverso il sistema fiscale. Aggiungo ancora che la politica di tutti i redditi è parte qualificante di tutta la politica economica e finanziaria di un governo governante. A me non risulta che il governo Renzi abbia enunciato alcunché in materia di politica dei redditi e, tanto meno, in materia di lotta alle rendite. Ha utilizzato alcuni bonus discutibili. Se così, non vedo come il governo possa minacciare di intervenire imponendo paletti precisi alla politica salariale perseguita e/o concordata tra le parti sociali.
La seconda premessa, come detto, riguarda gli attori della politica dei salari: sindacati dei lavoratori, le organizzazioni datoriali e l’operatore pubblico, nella specie le regioni e nel futuro, verosimilmente le aree metropolitane nascenti.
Con riguardo ai primi due, siamo in presenza di due strutture in crisi e in stato di debolezza. I sindacati sono in crisi perché non riescono ad assicurare una regolare contrattazione nel settore pubblico , non sono riconosciuti dal governo, non sono riusciti a governare il patto del 1993 sulla politica dei redditi, accettano senza forti resistenze politiche economiche che durante l’ultima crisi hanno causato il raddoppio della disoccupazione per non parlare del problema del Mezzogiorno. C’è un problema di politica economica e di sviluppo regionale. Secondo me, i sindacati dovrebbero aprire vertenze ampie sui piani di sviluppo regionale che non ci sono ma che dovrebbero esserci se vogliamo aprire qualche possibilità di promuovere la crescita e creare nuovi posti di lavoro dove mancano.
Le regioni sono in crisi non solo per i gravi scandali degli ultimi anni ma anche perché, da un lato, esse hanno perso il senso della loro missione originaria: quella della programmazione economica e del coordinamento degli enti locali all’interno della propria giurisdizione, dall’altro, perché questo paese non sa cosa fare con il federalismo. In altre parole, non sa se procedere speditamente verso un assetto genuinamente federale oppure restare sempre a metà guado. Nelle regioni meno sviluppate, la produttività delle imprese non dipende solo dagli investimenti delle stesse imprese ma anche dalle diseconomie esterne, dai gap infrastrutturali, dai differenziali nelle qualifiche dei lavoratori, dalle inefficienze burocratiche e della giustizia che possono essere ridotti solo con l’intervento pubblico. Anche su questo terreno il governo Renzi ha dato segnali negativi da un lato sottraendo alle regioni le politiche attive del lavoro, dall’altro, non riconoscendo la necessità della concertazione su dette questioni. A mio giudizio, il decentramento preso sul serio deve affrontare questi problemi valorizzando il ruolo delle regioni in linea anche con la missione che l’Europa assegna alle stesse. L’UE chiede alle regioni di “migliorare la loro capacità amministrativa di gestione dei fondi strutturali comunitari a garanzia degli investimenti pianificati” (E. Iorio 2016). Dati i risultati negativi delle gestioni precedenti quella citata non è una raccomandazione ma un obbligo specialmente per l’Italia e le sue regioni meno sviluppate. Esse accanto ai POR (piani operativi regionali) devono ora presentare un piano di rafforzamento amministrativo (PRA), ossia, un obbligo a rappresentare le soluzioni alla loro scarsa capacità di spesa dei fondi assegnati. È chiaro che tale inefficienza nelle regioni meno sviluppate non si limita ai fondi comunitari ma investe l’efficienza di tutte le strutture amministrative delle regioni. Tutto questo implica che le regioni si debbano dotare di un loro piano di sviluppo economico e sociale a medio termine e/o settennale in conformità alle Prospettive finanziarie della UE. L’uso più efficiente delle risorse comunitarie intanto può essere conseguito in quanto attraverso la programmazione può essere conseguita la migliore allocazione di tutte le risorse a disposizione delle regioni.
Nelle economie miste, nei sistemi liberal democratici la determinazione del salari del settore privato è in via principale compito delle parti sociali. Nel settore pubblico il governo e le sue agenzie sono parti contraenti. Nei gloriosi 30 (1945-75), specialmente in Europa, i sindacati hanno realizzato forme più o meno incisive di concertazione soprattutto al fine di garantire l’attuazione dei diritti sociali. Negli ultimi 35 anni, tutti i governi dei paesi occidentali – chi più e chi meno – si sono dati da fare per tagliare le unghie ai sindacati. Tutti i governi hanno fatto approvare leggi che hanno rafforzato il potere monopolistico delle imprese nonostante la istituzione in molti Paesi delle Autorità amministrative antitrust. Con la riforma Brunetta nel settore pubblico il legislatore ha ridotto gli spazi della contrattazione e ha allargato quelli della legge.
Per altro verso, i governi dei paesi occidentali condividono la sovranità monetaria con le banche, considerate alla stregua di imprese private. In Italia in spregio all’art. 47 della Costituzione. A partire dagli anni ’70, si è affermata l’idea che i fallimenti dello Stato erano più gravi di quelli del mercato e, quindi, si è proceduto a massicce privatizzazioni di gran parte del patrimonio pubblico senza vere liberalizzazioni. Tutto questo ha fatto crescere le disuguaglianze anche all’interno del mondo del lavoro dipendente. Ha impoverito la classe media. Ha fatto crescere enormemente il numero dei working poor. Ha fatto aumentare la disoccupazione e, conseguentemente, abbassato il tasso di partecipazione. Tutte le ricerche sulla disuguaglianza concordano che tra le cause dell’aumento della polarizzazione dei redditi c’è stata anche la debolezza dei sindacati che si sono lasciati mettere all’angolo fidando nelle possibilità redistributive del Welfare State, non rendendosi conto che anche i benefici di questo erano controllati da governi liberisti amici in primo luogo delle imprese private.
Ora di tutto questo non trovo traccia nel documento delle tre Confederazioni. Eppure si tratta di problemi che condizionano e continueranno a condizionare i problemi della contrattazione sia a livello nazionale che a livello decentrato. La mia opinione è che se si va verso un decentramento della contrattazione spinto agli estremi si ricade nel caso Fiat di qualche anno fa che esce da Confindustria ed impone il suo modello contrattuale. Una seconda osservazione è che, date le caratteristiche del sistema economico con forti squilibri territoriali e rilevanti diseconomie esterne, non tutti i problemi possono essere risolti al livello della contrattazione tra le sole parti sociali direttamente interessate. Delle diseconomie esterne rilevanti ai fini della produttività programmata si deve occupare l’operatore pubblico a livello locale e/o regionale. Di conseguenza, la dimensione territoriale, a mio giudizio, non può che essere o complementare o sussidiaria di quella aziendale e non alternativa.
Sia i sindacati dei lavoratori sia le organizzazioni datoriali hanno un preciso e convergente interesse a mettere in moto un meccanismo di concertazione con l’operatore pubblico sub-centrale non solo perché lo chiede alle regioni la Commissione europea ma perché è, innanzitutto, nell’interesse dei lavoratori e delle imprese che vogliano adottare una credibile strategia di crescita e sviluppo.
Non ultimo, la questione del governo, secondo me, anche esso debole perché non ha una sua autonoma strategia di politica economica per la crescita e lo sviluppo e all’interno di essa di politica di tutti i redditi. È vero che le linee di politica economica sono definite a Bruxelles ma, all’interno di esse, si poteva e si doveva fare di più. Si poteva e si doveva contestare la politica di austerità che impedisce ai paesi euro-mediterranei di rilanciare gli investimenti pubblici. Dopo quasi due anni Renzi si è reso conto che ottenendo qualche decimale in più di flessibilità non si va da nessuna parte. Eppure nel 2014 ha lasciato sola la Grecia sperando di ottenere qualche ulteriore deroga a titolo personale. Ha sbagliato i conti perché con le sole regole di flessibilità, ossia, con qualche decimale di punto in più nel rapporto deficit/PIL non può determinare una svolta significativa nella politica economica. Ed è debole perché isolato, non trova alleati tra gli altri paesi membri dell’eurozona e non ha un movimento dietro di se neanche in Italia. Per superare questa sua debolezza, per vincere le resistenze a livello europeo non solo le regioni ma anche il governo dovrebbero lanciare una seria strategia per la crescita e lo sviluppo e attorno ad essa raccogliere il consenso e la mobilitazione delle parti sociali.