Positiva la scelta strategica delle tre Confederazioni a favore della partecipazione in linea con l’art. 46 Cost. italiana, con l’art. 23 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) e con gli artt. 27-28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000).
Nel documento unitario, la partecipazione viene articolata su tre livelli:
– Partecipazione alla governance dell’impresa, ossia, partecipazione al processo decisionale sulle scelte strategiche dell’impresa ivi compresi – in sintonia con le raccomandazioni dell’ultima Enciclica di Papa Francesco Laudato si – i programmi i programmi di conversione ecologica dei prodotti e dei sistemi produttivi. Tale partecipazione prevede la presenza di rappresentanti eletti direttamente dai lavoratori dell’azienda nei Consigli di sorveglianza in posizione tendenzialmente minoritaria salvaguardando le prerogative del management;
– Partecipazione organizzativa. Attraverso di essa i lavoratori concorreranno alla determinazione delle scelte in materia di innovazione organizzativa, di qualificazione del lavoro, ecc., “rendendo pienamente agibili i diritti di informazione e consultazione attraverso la proceduralizzazione di sedi, tempi e strumenti”;
– Partecipazione economico-finanziaria. Le tre Confederazioni la ritengono complementare e strumentale alla valorizzazione del ruolo del sindacato all’interno dell’azienda. Auspicano linee-guida per la definizione di modalità e strumenti (ways and means) “ispirati ai principi di diversificazione , flessibilità, gradualità, sperimentazione , negoziati e regolati dalla contrattazione collettiva nella consapevolezza anche della necessità di “adeguati sostegni normativi”; nella consapevolezza della sua utilità innanzitutto ai fini del rilancio del dialogo sociale, dello sviluppo e del consolidamento dei meccanismi di informazione e consultazione; (non è visione riduttiva?).
Positivo mi appare il “pistolotto finale del documento laddove le 3 Confederazioni – non di rado criticate per l’azione di freno che nel passato avrebbero esercitato nei confronti di federazioni e/o istanze sindacali periferiche – dichiarano di voler “definire un quadro generale di regole” idoneo a superare la crisi di rappresentanza (non solo propria ma anche delle organizzazioni datoriali) con una scelta di grande coraggio e discontinuità verso l’innovazione , la trasparenza e la democrazia”. Su tali basi esse ritengono sia possibile anche “rilanciare un progetto di unità sindacale a partire dai luoghi di lavoro”. Argomento per la verità comune e presupposto fondamentale sia nella contrattazione sia ai fini della partecipazione.
Che dire? La partecipazione comincia a piacere anche alle tre Confederazioni. La parola partecipazione nel testo e nelle rubriche ricorre ben 25 volte rispetto alle otto volte di occupazione e alle due di disoccupazione. L’inflazione ricorre due volte; la deflazione non è menzionata eppure appare essere la massima preoccupazione dei banchieri centrali e degli economisti, ma, secondo me, il concetto è implicito nel discorso sulla domanda interna. Non viene menzionata esplicitamente neanche la parola disuguaglianza e/o diseguaglianza – anche se nel documento si menzionano due volte i minimi salariali da definire con la contrattazione collettiva nazionale in alternativa all’ipotesi di un salario minimo definito dalla legge. È un segno dei tempi. Sta alle controparti private e pubbliche andare alla verifica di tale disponibilità.
Personalmente ritengo che questo terzo volet del documento delle 3 Confederazioni sia quello meglio strutturato e promettente anche se incompleto come vado a dimostrare.
Devo fare due premesse: 1) probabilmente hanno ragione le 3 Confederazioni a non mettere in chiaro quello che chiamo il quarto obiettivo della partecipazione; 2) devo confessare che i miei suggerimenti nascono da un lato dall’origine storica della cogestione in Germania, dall’altro dalla filosofia sottostante l’idea del sindacato dei cittadini che a suo tempo fu lanciata dalla UIL di Giorgio Benvenuto e , non ultimo, da alcune brillanti osservazioni conclusive di Tiziano Treu della raccolta di saggi nel libro Astrid “la partecipazione incisiva” (il Mulino, 2015).
Queste osservazioni mi portano a fare una valutazione a carattere storico sul mancato successo , alias, mancata generalizzazione di passate esperienze partecipative. Secondo me, non è questione di crisi strutturale e/o congiunturale dell’economia bensì di struttura del sistema produttivo e di cultura politica. Si è trattato in primo luogo di questione culturale e, soprattutto, politica di rifiuto e/o contestazione radicale del capitalismo anche nella versione del c.d. compromesso socialdemocratico.
Nella RFT del secondo dopoguerra la costituzione federale, la doppia suddivisione dei tre poteri dello Stato, la espansione della partecipazione anche nelle imprese è imposta dagli anglosassoni (in particolare britannici) proprio ai fini di controllo sociale organizzato. Quest’ultima si cala sulla grande industria dell’acciaio e del carbone prima e poi su quella automobilistica. Si cala in un paese a forte coesione sociale.
Nell’Italia dell’immediato dopoguerra, c’erano la FIAT, la Montecatini, la Pirelli, le industrie elettriche, l’IRI e le imprese PPSS; tra i padroni e i manager prevaleva ancora la mentalità del padrone del ferriere e, peggio, ancora non c’era – e non c’è tuttora – una grande coesione sociale. C’era il forte PC dell’occidente e un PSI suo fellow traveller sino al 1956. Avevano una forte influenza nel mondo del lavoro. E parlare di partecipazione ancora negli anni ’70 era anatema perché a sinistra molte menti pensanti credevano nelle c.d. tesi crolliste secondo cui il capitalismo era ineluttabilmente condannato e, quindi, bisognava andare oltre verso il socialismo sia pure per via democratica. Accogliere la partecipazione significava rafforzare il capitalismo. Dopo la grande trasformazione degli anni 50 e 60, l’Italia emergeva come la quinta potenza industriale del mondo ma con un sistema proprietario caratterizzato da poche grandi imprese (strettamente controllate) e per il 95% da PMI. Prima l’agricoltura e poi la stessa industria perdono peso a favore non di un terziario avanzato ma di un settore dei servizi omogeneo al sistema in parte arretrato delle PMI. Negli anni 70 e 80 molte grandi imprese venivano travolte dalla crisi mondiale ed erano in fase di forte ristrutturazione. Con le dovute eccezioni, pensavano soprattutto alla loro sopravvivenza ed avevano comunque controparti ancora ideologizzate. Pur avendo i sindacati strappato nella prima metà degli anni 70, diritti di informazione e consultazione , successivamente non c’erano né i presupposti né i vincoli esterni che potessero promuovere e generalizzare forme articolate di partecipazione. Anche per questi motivi le raccomandazioni e direttive delle Comunità europee venivano disattese.
Apprezzo molto la lucidità e il realismo di Tiziano Treu nella valutazioni conclusive del volume citato. Sostiene Treu che il problema vero è quello della democrazia tout court. Il modello che sposa la Costituzione europea (declassata a TFUE) è quello della democrazia partecipativa e della sua effettiva attuazione in tutti i paesi membri e, in particolare, in quelli euromed. Se questo avverrà, allora ci sarà maggiore probabilità che il modello partecipativo si diffonda anche nelle fabbriche e negli uffici pubblici. Ma se l’Europa – come sembra – entra in crisi istituzionale; se si abbassa ulteriormente il livello – già infimo – di coesione sociale; se saltano gli attuali precari equilibri di potere, allora diventeranno sempre più scarse le probabilità di attuare la partecipazione nelle fabbriche perché si radicalizzerebbe lo scontro politico tra le forze della sinistra radicale e quelle della destra populista e xenofoba.
Ciò posto sul quadro generale vengo alla situazione specifica dell’Italia che presenta vincoli particolari . Nel nostro paese dilaga la illegalità e la corruzione (60 miliardi stimati dalla CdC) ; crescono e prosperano tre la più grandi organizzazioni criminali del mondo; l’economia sommersa viene stimata nel 17% del PIL. La base imponibile ai fini delle imposte dirette in 10-12% (stima prudenziale); i bilanci delle imprese hanno un indice molto basso di attendibilità. Sommando tutti questi elementi, è facile stimare che circa 1/3 del PIL è confezionato nella carta dell’illegalità. E questa quota dell’economia non è un mondo a se stante. Si compenetra e interagisce sistematicamente con il resto. In queste condizioni parlare di diritti di informazione , di consultazione e di partecipazione può sembrare velleitario e alquanto avventato.
Ma proprio questa situazione non brillante né favorevole, secondo me, dovrebbe costituire motivo profondo per andare avanti con decisione sulla strada ora scelta della partecipazione. A fronte del fallimento dei controlli interni ed esterni nel pubblico e nel privato, ritenendo che la corruzione e alla criminalità organizzata non si risolve con la nomina di commissari straordinari, la mia proposta è che la partecipazione dovrebbe diventare non solo un utile strumento di democrazia economica ma soprattutto di controllo sociale organizzato.
Essendo il nostro un paese che non ha una teoria condivisa della giustizia sociale, con il pessimismo della ragione, ritengo la mia proposta di assegnare alla partecipazione una funzione di controllo sociale organizzato un atto di fede più che una prospettiva realistica. Ma mi piacerebbe molto essere smentito dai fatti.