Giovanni Moro, Contro il non profit ovvero come una teoria riduttiva produce informazioni confuse, inganna l’opinione pubblica e favorisce comportamenti discutibili a danno di quelli da premiare, Editori Laterza, Roma-Bari, 2014 . Secondo alcuni esperti, il terzo settore si chiama così perché si tratta di una realtà diversa da un primo settore costituito dallo Stato e da un secondo settore costituito dal mercato. Secondo me, è un metodo non del tutto corretto, fortemente ideologizzato di classificare i sistemi economici perché un conto è parlare di sistemi politici , ossia, di forme di Stato (Repubbliche, monarchie, sistemi presidenziali e dittature di vario genere) e un altro è descrivere i sistemi economici comparati (capitalistici puri, statalistici e/o del c.d. socialismo reale, autogestionari). Negli anni ’30 del secolo scorso si sviluppò anche una grossa letteratura che interpretava i modelli di stato sulla base delle forme di mercato per cui si individuano negli stati totalitari (fascismo, nazismo, ecc.) nella forma di mercato monopolistica, e stati democratici vicini al modello della concorrenza e il governo oligarchico nell’oligopolio. Nelle analogie il modello cooperativo veniva identificato come quello più vicino alla democrazia perché consentiva l’incontro meno squilibrato tra domanda (consumatori) e offerta (produzione) e/o l’identificazione tra le due categorie. In teoria, consentiva l’alternanza nel governo dell’impresa cooperativa e, quindi, il superamento della lotta di classe tra padroni e lavoratori. Ma già negli anni ’30 citati, c’è l’affermazione della grande impresa e la scissione tra proprietà e management. Vale la pena ricordare che la storia del movimento cooperativo si sviluppa in Europa quasi in parallelo con lo sviluppo del pensiero marxista e la nascita del movimento sindacale.
Oggi nei paesi liberal democratici prevalgono economie miste con diversa presenza di economia pubblica, ossia, di imprese pubbliche accanto a quelle private e diverse forme di regolazione delle attività economiche, creditizie e finanziarie. In molti paesi europei convivono anche imprese cooperative di produzione, di consumo e/o di entrambe e di cooperative c.d. sociali in analogia alle imprese sociali. In Italia e in Europa le cooperative hanno una storia gloriosa dietro le spalle che, purtroppo, recentemente si va caricando di schizzi di fango. Non sono passati inutilmente 40 anni di neoliberismo per cui anche all’interno del movimento cooperativo non sono pochi i dirigenti che sostengono che in fondo anche quelle cooperative sono imprese come le altre.
Nel dopoguerra, in molti Paesi occidentali si è affermato il c.d. compromesso socialdemocratico (accettazione del capitalismo in cambio di diritti civili e sociali) e l’economia mista con intervento pubblico più o meno ampio. All’interno di questa convivono imprese pubbliche, private e cooperative. Queste ultime del resto erano formalmente presenti anche nell’economia sovietica. Più recentemente nella UE, ad egemonia neoliberista, si afferma anche il partenariato pubblico privato – in non pochi casi un ibrido fonte di seri problemi di gestione corrotta ed inefficiente. Infatti il modello PPP non sempre riesce a superare l’innato conflitto di interesse tra la parte privata che continua a perseguire il profitto o quanto meno un reddito normale e la parte pubblica che in teoria non dovrebbe perseguire né l’uno né l’altro ma solo l’interesse generale.
Se questo inquadramento generale è fondato , allora ha ragione G. Moro quando sostiene che il nonprofit non esiste , che si tratta di un mostro concettuale, e che è “frutto di una cattiva idea” – poi amplificata dai media.
Non ultimo, più recentemente si è affermata la finanziarizzazione dell’economia che interessa anche i paesi democratici e le economie miste e che costituisce un serio pericolo per la stessa democrazia facendola degenerare in forme politiche oligarchiche sempre più verticalizzate. La finanziarizzazione dell’economia condiziona in un modo o nell’altro la nascita e la crescita delle imprese di ogni tipo.
Moro spiega il duro giudizio di cui sopra con due argomenti fondamentali: a) non si può definire qualcosa semplicemente dicendo che cosa non è, ossia, con il suo carattere residuale sempre che ce ne sia uno; 2) le classificazioni adottate dai ricercatori della Johns Hopkins University che si sono occupati molto delle società nonprofit e delle stesse Nazioni unite dicono che si tratta di organizzazioni private nella forma e pubbliche nello scopo che perseguono”, alias, organizzazione non governative (ONG) che perseguono obiettivi e interessi generali. Secondo Moro, si tratterebbe di una esperienza estranea non solo alla storia della nostra Repubblica ma anche ai principi della nostra Costituzione.
Affermazione quest’ultima molto forte e che non condivido pienamente perché da un lato l’art. 42 Cost. afferma che anche la proprietà privata deve svolgere una funzione sociale e, ancora in maniera più pertinente all’oggetto che stiamo discutendo, l’art. 45 comma 1 afferma che “la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata”. Non è il caso di soffermarsi sulle sottili distinzioni che giuristi raffinati possono individuare tra i principi di mutualità storicamente applicati per categoria e l’interesse generale applicabile a tutti, ma mi sembra chiaro che le imprese cooperative in generale e quelle sociali – se correttamente definite ed in fatto operanti – abbiano sulla carta molte delle caratteristiche delle organizzazioni nonprofit. Ma se queste si debbono occupare dell’attuazione dei diritti civili e sociali e di quelli fondamentali, Moro ha ragione nel citare l’art. 3 comma 2 secondo cui questo è compito precipuo della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale e, quindi, il governo resta responsabile principale della loro attuazione.
In buona sostanza, Moro vede nel terzo settore un welfare all’americana che si incentra non sullo Stato ma sulla Comunità che rigetta l’idea del governo grosso e che si affida appunto alla Comunità e/o all’impresa per attuare certe politiche welfariste. In entrambi i casi, il governo nazionale non rimane neutrale ma viene coinvolte in maniera mediata con agevolazioni, esenzioni, tax expenditures (letteralmente imposta-spesa) e quant’altro.
Secondo me, c’è una forte analogia tra il welfare incentrato sulla Comunità e quello incentrato sull’impresa visto che quest’ultima si colloca sempre in una comunità locale. Come ho spiegato in un mio precedente post, il governo italiano sì è messo su questa strada con alcuni provvedimenti contenuti nella legge di stabilità 2016. Le Confederazioni sindacali CGIL-CISl-Uil, con il documento unitario del 14 gennaio scorso, hanno deciso di seguire il governo su questa linea appoggiando diversi istituti del welfare in chiave integrativa e complementare alla contrattazione di secondo livello.
Riferendosi nello specifico al welfare affidato alle imprese nonprofit G. Moro afferma che, in questo modo, si realizza una specie di alleanza tra neoliberismo e cultura delle opere pie contro lo Stato. A me sembra che governo e sindacati mettendosi su questa strada stiano sottovalutando il rischio di aggravare la disuguaglianza tra gli insiders e gli outsiders, tra occupati e disoccupati e inoccupati, ecc.. Da più parti è stato sottolineato che data la forte presenza di PMI (circa 5 milioni) rispetto alle grandi, il welfare aziendale non è generalizzabile e che in molte piccole imprese esso si riduce al pacco di Natale.
In condizioni come queste chi garantisce i livelli essenziali di assistenza e quelli delle prestazioni?
Se c’è una degenerazione del terzo settore, se gran parte dei risultati da esso conseguiti sono di dubbia utilità sociale, se ci sono arricchimenti personali, rapporti di lavoro insani, concorrenza sleale, se la presenza di volontari nelle nonprofit è minoritaria rispetto ai lavoratori dipendenti, se la partecipazione al governo delle cooperative è impedita dalla richiesta ai lavoratori di cambiare continuamente cooperativa in modo da non consentire al cooperante di vedere 2-3 bilanci di seguito, se la forma giuridica delle società nonprofit e delle cooperative sociali vengono scelte al solo scopo di eludere ed evadere le imposte, è alto il rischio che si creino nuovi veicoli di trattamento diseguale tra lavoratori e lavoratori.
Probabilmente consapevole di queste problematiche, il governo in data 14 luglio 2014 ha varato un ddl di riforma del terzo settore. In esso si propone tutto ed il contrario di tutto: a) la razionalizzazione e semplificazione dei regimi di deducibilità e detraibilità dal reddito delle persone fisiche e da quelle giuridiche, delle erogazioni liberali in denaro e in natura; b) la revisione e stabilizzazione del meccanismo del 5 per mille; c) la previsione del crowdfunding per le imprese sociali; d) l’assegnazione a imprese e cooperative dei beni mobili ed immobili confiscati alle organizzazioni criminali, ecc..
Rispetto al primo punto ricordo ancora una volta che governi precedenti avevano dato mandato ad un gruppo di lavoro coordinato da Vieri Ceriani di monitorare la situazione. Si erano individuati 720 fattispecie di agevolazioni, esenzioni e trasferimenti per una spesa di 254 miliardi. Ci sono stati diversi decreti legislativi di attuazione della riforma fiscale ma di razionalizzazione e semplificazione se n’è vista ben poca. Si sono viste molte sostituzioni di agevolazione ed esenzioni e molti tetti di spesa. Tutti conoscono lo stop and go della attività di revisione della spesa pubblica. È chiaro che se si vogliono sviluppare il welfare comunitario ed aziendale agevolazioni ed esenzioni sono destinate ad aumentare in maniera consistente e da qui i tetti di spesa.
Il governo Renzi non di rado presenta come novità modifiche della legislazione esistente di cui però non spiega le vere cause del mancato raggiungimento degli obiettivi. Il vero problema di questa legislazione è la sua distorta attuazione. Come appropriatamente spiega G. Moro il vero problema sta nell’assenza di trasparenza , nella mancata verifica nei fatti che le attività delle imprese nonprofit perseguano l’interesse generale, nella mancata previsione di efficaci controlli che, a mio giudizio, dovrebbero essere attribuiti al ministero delle finanze riformato e potenziato proprio nella sua capacità di controllo. Se i bilanci delle società di capitali – anche di quelle quotate in borsa – delle SRL, SAS, SNC, delle imprese individuali, delle società di comodo, delle cooperative, delle imprese nonprofit hanno un basso indice di attendibilità – non da ieri ma da sempre – allora prima di prevedere altri incentivi ed esenzioni il governo dovrebbe preoccuparsi di valutare il fabbisogno di controlli – anche di controllo sociale – necessario per migliorare la veridicità e completezza dei bilanci. L’integrazione tra economia sommersa ed economia “legale” comporta un massiccio ricorso ad operazioni in nero con e senza fatturazione. In questi termini non basta la fatturazione elettronica. Poi bisogna controllare le fatture elettroniche. Non solo l’evasione e l’elusione fiscale ma anche la corruzione passano attraverso la contabilizzazione di fatture false. L’ultima graduatoria di Trasparency International vede l’Italia al 61° posto tra i paesi più corrotti. Il governo non perde occasioni per riempirsi la bocca di parole come trasparenza, semplificazione, tax compliance, split payment, reverse charge ed altri termini inglesi di cui la gente comune non conosce il significato ma i risultati sia in termini di riduzione dell’evasione fiscale e della corruzione restano deludenti. Ma non basta. Emblematica dell’approccio altalenante e lassista del governo è la recente modifica legislativa di depenalizzare e prevedere una sanzione amministrativa per la responsabilità dell’amministratore di un’azienda in seguito a denuncia del revisore dei conti che abbia trovato irregolare e non veritiero il bilancio della azienda medesima. Non mi risulta o almeno non mi capita di leggere di molti casi del genere nelle cronache giudiziarie. Lascio al lettore di giudicare quale segnale di rigore possa costituire tale misura e quale incoraggiamento essa possa costituire per il revisore dei conti. Gli addetti ai lavori sanno che revisioni e certificazioni dei bilanci in Italia non sono svolte in maniera seria in ragione del plateale conflitto di interesse che interessa questi operatori, come noto, pagati dalle stesse società
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