Tito Menzani, Cooperative: persone oltre che imprese. Risultati di ricerca e spunti di riflessione sul movimento cooperativo, Rubettino, Soveria Mannelli, 2015
C’è storicamente un parallelismo tra la nascita delle cooperative, dei movimenti sindacali e l’affermarsi delle imprese capitalistiche durante il processo di industrializzazione in Inghilterra. Le cooperative nascono appunto come modello alternativo alla classica impresa capitalistica. In meno di due secoli, si contano nel mondo circa un miliardo di soci cooperanti. In Italia, le cooperative pesano per l’8% del PIL con 12 milioni di soci e 1.200 di dipendenti. Non c’è dubbio che si tratti di una storia di successo che viene da lontano e che sembra destinata ad avere ancora un futuro davanti a se. Anzi , secondo alcuni studiosi, il modello cooperativo sarebbe destinato a superare quello capitalistico. Anche negli anni ’30 del secolo scorso quando anche in Italia fiorivano gli studi sui sistemi economici comparati e quelli fondati sull’analogia tra forme di mercato e forme di Stato, tra economie pianificate di stampo sovietico ed economie capitalistiche un terzo modello che veniva proposto era quello autogestionario che nel secondo dopoguerra, trova una sperimentazione nel modello iugoslavo caratterizzato dai tentativi di conciliare il piano con il mercato e dalla presenza di imprese autogestite. Inoltre, dopo l’implosione dell’Unione sovietica e la grande trasformazione della Cina (solo formalmente ancora comunista), il dibattito si svolge non sul futuro del capitalismo ma su quale tipo di capitalismo avrà la meglio. E tra questi raccoglie interesse scientifico anche il modello autogestionario.
Ma il motivo di fondo per cui l’ideale cooperativo ha resistito, da un lato, al forte approccio statalista dei comunisti sovietici e dei regimi fascisti (a partire da quello attuato in Italia tra le due guerre mondiali) sta nel fatto fondamentale che la cooperazione tra i fattori produttivi è imprescindibile nella produzione efficiente sia di beni privati che di quelli pubblici – questi ultimi peraltro non prodotti dal settore privato per le note caratteristiche di indivisibilità, alias, non escludibilità e non rivalità nel consumo dei medesimi. In altre parole, senza “patti cooperativi” non nasce alcuna Comunità, non nasce lo Stato. A meno di assumere modelli predatori nell’economia pubblica – che, in fatto, ci sono specialmente nelle forme di Stato dittatoriali – lo studio dell’economia pubblica, in buona sostanza, descrive le ragioni di fondo per cui le persone cooperano per avere la sicurezza esterna, l’ordine pubblico interno, le regole del fare e assicurarsi la produzione di beni pubblici che il mercato non produce.
In un periodo in cui la cultura generale è in ribasso e quella politica, secondo alcuni, sarebbe scomparsa , non sorprende che anche quella della cooperazione sia in sofferenza e che si verifichino sempre più frequentemente fenomeni di corruzione e malaffare con le c.d. cooperative spurie, che negano la missione originaria della mutualità e della reciprocità. In Italia il movimento cooperativo si è sviluppato all’interno dei filoni culturali delle diverse declinazioni del socialismo utopico, di quello ortodosso, poi socialdemocratico e riformista, di quello delle diverse anime del cristianesimo sociale, del repubblicanesimo, del liberalismo che si preoccupavano della emancipazione dei lavoratori meno abbienti. Attorno all’idea di conciliare etica ed economia, di produzione diretta della ricchezza e di giustizia sociale. La dimensione ideologica che caratterizzava detti filoni culturali non impedì la nascita e la crescita del movimento cooperativo. Infatti se l’ideologia è un sistema di valori attorno ad un progetto di società, sbagliano coloro che comunemente associano un giudizio di valore negativo a tutte le ideologie senza distinguere quelle che si ispirano agl’ideali di libertà, uguaglianza e fraternità da quelle totalitarie e nichiliste. Sentiamo continuamente affermare che viviamo in una era post ideologica dove non c’è né destra né sinistra ma non è vero perché, in fatto, in molti paesi membri dell’Unione europea, vive e prospera l’ideologia mercatistica, economicistica, secondo cui l’individuo razionale sarebbe solo quello che massimizza il proprio interesse individuale e lo fa nel mercato dove guidano i prezzi e non i valori. Per gli economisti di destra, la solidarietà e l’altruismo sono mere eccezioni che confermano la regola dell’homo oeconomicus.
Ma anche a rimanere all’interno dello schema mercatistico, resta il problema del rapporto tra politica e mercato. Anche quello globale può funzionare se la politica crea quell’ambiente di sicurezza e un sistema di regole che garantiscano l’attuazione dei contratti. Il mercato economico interagisce con quello politico, lasciando nell’ombra il rapporto che dovrebbe caratterizzare l’etica e la legge. Alcuni politologi studiano il mercato politico con le categorie del mercato economico. Se applichiamo il modello agente principale in un impresa privata abbiamo che il modello funziona se c’è condivisione degli obiettivi. Il lavoratore dipendente rende di più se sa che il suo sforzo produttivo sarà premiato direttamente con incrementi salariali e/o indirettamente con benefit collaterali, con modalità di partecipazione all’innovazione organizzativa ed anche agli utili della società. Anche questa è cooperazione. A maggior ragione, la cooperazione dovrebbe svilupparsi nel suo habitat naturale dell’impresa cooperativa sempre che i singoli lavoratori e i loro dirigenti nelle strutture più complesse siano animati da lealtà, genuino spirito collaborativo, adeguatamente alimentato dall’interesse comune. Analogo è il discorso per una comunità locale e nazionale. Ricordo che Adamo Smith definisce un paese un condominio. Qui il rapporto agente/principale si svolge tra eletti ed elettori. I secondi sono lì, nelle sedi decisionali, per attuare il mandato ricevuto dagli elettori e sarebbero tenuti a rispettarne le preferenze. Ma queste non sempre si aggregano per formare maggioranze qualificate o semplici. Il lavoro della politica è più facile in un paese a forte coesione sociale dove è più facile che le preferenze degli elettori si aggreghino su obiettivi largamente condivisi. Questa è la logica di base che guida la cooperazione nel pubblico, nelle imprese cooperative e nelle imprese private – secondo le più aggiornate tecniche di management (World Class Manufacturing, Lean Production, Ergo-UAS: Universal Analysis System, ecc. su cui rinvio al n.3/2015 di economia & lavoro rivista quadrimestrale della Fondazione Giacomo Brodolini).
Nella pratica, come sappiamo, neanche i soci cooperanti sono tutti angeli e non si possono escludere comportamenti opportunistici e di shirking da parte dei soci lavoratori e di vero e proprio sfruttamento da parte dei dirigenti. In un contesto socio-economico dove prevale il paradigma neo-liberista sia pure con forte regolazione degli assetti monopolistici ed oligopolistici non si esce dall’inferno dell’oligopolio per entrare nel paradiso della concorrenza perché, nella migliore delle ipotesi, il meccanismo concorrenziale tra lavoratori e lavoratori, tra lavoratori e capitalisti, tra produttori e consumatori acuisce e sostiene il conflitto di interessi facendo perdere di vista quello comune. La teoria marginalista pone al centro del meccanismo concorrenziale la sovranità del consumatore per cui più forte è la concorrenza più alto è il vantaggio del consumatore. Ma questi è anche lavoratore e se la concorrenza tra i lavoratori è più alta più basso sarà il suo salario. Il più basso salario compenserà sempre il suo maggiore potere d’acquisto discendente dalla maggiore concorrenza tra le imprese ?
Al riguardo un ruolo molto importante può e deve avere l’educazione e la formazione come sottolinea Menzani nel capitolo “educare a cooperare” e più in generale – aggiungo io – a migliorare la cultura economica e finanziaria dei cittadini. Presupposto fondamentale della propensione alla cooperazione è a fiducia. Ma se, in un dato contesto sociale dilaga l’illegalità e la corruzione, la fiducia viene meno o si riduce a livelli insufficienti e , di conseguenza, anche la coesione sociale. Questo spiega il processo di ibridazione che interessa anche le imprese cooperative in generale, e nella specie, le cooperative c.d. spurie e/o truffaldine, non di rado, costituite per appropriarsi non solo dei benefici fiscali ma anche della maggior parte dei trasferimenti diretti ad assistere soggetti bisognosi – come nel caso di alcune cooperative sociali di Mafia Capitale che recentemente hanno attirato l’attenzione e della magistratura e dell’opinione pubblica.
Come noto, negli ultimi anni, fioriscono gli studi e le proposte che rilanciano il discorso del welfare aziendale e della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. Il discorso ha trovato spazio nel Documento unitario delle Confederazioni sindacali CGIL-CISL-UIL del 14 gennaio 2016. Non è casuale che le esperienze più avanzate di partecipazione – come si può leggere nel volume di Astrid sulla partecipazione incisiva (il Mulino, 2015) – oggi si riscontrino nella Regione Emilia-Romagna dove storicamente il movimento cooperativo ha sempre registrato una forte presenza. Non è un caso che il volet welfare aziendale per il quale la legge di stabilità 2016 prevede più ampi incentivi, in fatto, riprende due obiettivi originari delle cooperative: quello della previdenza e assistenza dei lavoratori quando non esisteva il lo Stato sociale e quello dell’investimento nel capitale umano. Di tutto questo ci sono pagine essenziali nell’agile e scorrevole volumetto di Tito Menzani che riassume 15 anni di ricerche più specifiche dell’autore e che perciò merita un’attenta lettura in un momento in cui è di moda parlare e scrivere di sharing economy. Non ultimo , vale la pena citare il libro di James E. Meade, Agathopia: L’economia della partnership, Feltrinelli, 1990. Secondo il noto economista inglese, le tendenze – che nei decenni precedenti si osservavano – verso la co-gestione, le imprese gestite direttamente dai lavoratori , gli schemi di suddivisione dei profitti o alla partecipazione al capitale delle società in cui lavorano potrebbero rappresentare la vera alternativa a certe forme tradizionali di capitalismo.