Il libro di Carlo Cottarelli, Il Macigno. Perché il debito pubblico ci schiaccia e come si fa a liberarsene, Feltrinelli/Saggi, 2017 ricostruisce in maniera piana e brillante la storia del debito pubblico italiano. L’Italia è stata sempre un paese ad alto debito pubblico. In una prima parte spiega come nasce il debito e come in questi ultimi decenni esso è diventato un vero problema perché un grosso debito pubblico porta con se pericoli di crisi, bassa crescita e aumento delle diseguaglianze. In una seconda parte l’Autore fa una rassegna delle proposte che vengono avanzate per risolvere il problema. Limitandosi per brevità ai decenni della Repubblica Cottarelli sostiene che il debito pubblico ha iniziato a crescere nella seconda metà degli anni sessanta per via dell’aumento della spesa sanitaria e pensionistica ma in verità anche lui ammette dopo che gli anni cinquanta sessanta sono anni in cui il debito pubblico non è stato un problema se è vero che ancora nel 1971 la sua incidenza sul PIL è pari al 41,8%; passa al 58,5 nel 1981 e arriva al 98,2% nel 1991. Ad essere più precisi bisogna ricordare le gravi “turbolenze” degli anni settanta con il crollo del sistema di Bretton Woods (15 agosto 1971) e le successive crisi petrolifere del 1973 e 1979. L’aumento del prezzo del petrolio e di altre materie prime drenano liquidità da tutti i paesi occidentali. Il drenaggio viene compensato da politiche monetarie espansive anche per far fronte agli aumenti salariali strappati dai sindacati dei lavoratori che cercavano di difendere il potere d’acquisto dei salari. Per altro verso le continue svalutazioni del cambio mentre cercavano di recuperare competitività alle imprese esportatrici alimentavano anche esse la spirale inflazionistica. L’aumento della spesa in deficit trovava giustificazione anche nel processo di riforma del sistema tributario che vedeva la sua prima attuazione negli anni 1973-74 ma che trovava l’Amministrazione Finanziaria non preparata a gestire l’enorme aumento dei contribuenti. Per questi motivi la moderata crescita del debito pubblico negli anni 70 trova ampie giustificazioni anche per via della instabilità dei governi che si sono succeduti in quel decennio travagliato da attentati terroristici di ogni tipo. Quindi è vero che il debito pubblico cresce negli anni settanta ma si sviluppa enormemente al di là di ogni aspettativa negli anni ottanta che registrano un forte calo della crescita economica 2,5% in media decennale rispetto al 3,75% del decennio precedente. Nei due decenni c’è quindi un notevole effetto statistico dovuto al ridotto tasso di crescita economica e al forte aumento degli interessi per il servizio del debito. Se così, il divorzio Tesoro Banca d’Italia non solo non ha avuto alcun freno sulla crescita del debito pubblico ma ha contribuito ad alimentarne la crescita perché le nuove emissioni non assorbite dalla Banca d’Italia sono state assorbite dal sistema bancario e/o dai mercati con tassi via via crescenti. Neanche Cottarelli ricorda che lo spread a fine anni 80 era attorno ai cinquecento punti base e che nei primi anni 90 il servizio del debito pubblico costava il 12% del PIL.
Se si confrontano i due decenni anni 50-60 con quelli 70-80 si ha ampia evidenza empirica (anche se grossolana) che la forte crescita economica dei primi due decenni fa registrare livelli minimi del debito pubblico, mentre il forte e progressivo rallentamento della crescita nei due decenni successivi fa esplodere il dato sul debito pubblico.
Abbreviando drasticamente il discorso dagli anni a oggi posso dire che l’ulteriore caduta del tasso di crescita della produttività e del reddito al di là delle oscillazioni politiche nella condotta della politica economica e finanziaria non ha reso facile una riduzione del debito pubblico. L’arrivo della crisi mondiale e la politica dell’austerità con la doppia recessione, la perdita di 10 punti di PIL, la svalutazione interna che ha prodotto una deflazione da cui riusciamo ad uscire ha complicato ulteriormente il problema.

Prima di passare alle proposte mi preme commentare il capitolo 2 (pp.28-41): quando il debito pubblico causa una crisi finanziaria, nel quale Cottarelli commenta la crisi del debito del 2011-12 partendo dall’assunto che i mercati finanziari temessero l’uscita dell’Italia dall’euro con gravi ripercussioni sull’euro stesso. Intanto bisogna distinguere tra mercati delle merci e mercati finanziari. La fiducia nei primi va distinta da quelle nei secondi: lo stesso Cottarelli parla di umori variabili di questi ultimi. I mercati finanziari non hanno come obiettivo il buon governo dell’economia mondiale. Essi sono governati per lo più dalla finanza rapace. Pur di produrre denaro a mezzo di denaro sono disponibili a speculare contro il proprio paese. È questa la cruda realtà. In fatto, su una forte spinta della Germania e del Consiglio europeo, il Parlamento e la Commissione in tutta la Primavera 2011 stavano lavorando alla riforma del Patto di stabilità del 1997 per renderlo più rigoroso. Si temeva un attacco speculativo contro l’euro. In tale contesto il Mef Tremonti per la quarta volta il 15 luglio 2011 riusciva a far approvare una manovra economica che, a suo dire, metteva in sicurezza i conti pubblici come era riuscito a fare nei tre anni precedenti. Ma i suoi rapporti con Berlusconi era tesi per via di una norma c.d. salva-Fininvest che Tremonti ha escluso dalla manovra. La situazione peggiora quando alcuni giorni dopo l’approvazione della legge n. 111 di conversione del decreto 6-luglio 2011, n. 98, Berlusconi raccogliendo le proteste di alcuni ministri che avevano subito tagli ai loro bilanci, dichiarava che lui non si riconosceva nella manovra del suo Mef. A quel punto la speculazione attacca più direttamente l’Italia, i due non si parlano più e Berlusconi non sapendo cosa fare si rivolge alla Banca d’Italia chiedendo che cosa potesse fare per rassicurare i mercati. Come noto, la lettera della Banca d’Italia viene tradotta in inglese e fatta firmare da Trichet e Draghi rispettivamente governatore uscente ed entrante della Banca centrale europea. I giochini di Berlusconi e Tremonti vengono scoperti: il primo aveva negato che ci fosse stata una crisi e il secondo che ci fosse un problema con le banche, a suo dire, perché i banchieri italiani non parlavano inglese e non avevano stipulato molti contratti derivati ma avevano non poche sofferenze. Conviene ricordare che il 1 luglio 2011 lo spread era a livello 225, il 3 agosto supera i 300 punti base; a fine anno nonostante la manovra c.d. Salva-Italia di Monti esso supererà i 500. Al di là del discredito che il governo Berlusconi si era procurato da solo sotto vari aspetti, è chiaro che la crisi italiana dell’Estate 2011 si inseriva nell’ambito di quella dell’euro e che il problema stava anche in Italia nel rapporto biunivoco che si viene a creare quando le banche gonfiano i loro portafogli di titoli del debito pubblico con alti rendimenti perché ad alto rischio. Perché una crisi delle banche si trasmette prima o poi in crisi dei debiti sovrani e viceversa offrendo ai grandi operatori dei mercati finanziari l’opportunità di specularci sopra.
Tutto questo lungo inciso per circostanziare meglio la frase di Cottarelli che ripete continuamente: “siamo ancora schiavi dell’umore dei mercati finanziari”. Se questi fossero veramente efficienti, non sarebbe questione di umore ma di una attenta valutazione complessa circa la situazione dell’economia reale, dei conti pubblici, della capacità del governo di guidare il Paese nella direzione giusta, della disponibilità di strumenti efficienti ed efficaci, di prevenzione e/o risoluzione di eventuali crisi in un contesto di una globalizzazione anarchica non governata da nessuno e, quindi, alla merce della finanza rapace. E nella UE entra in gioco la credibilità e la reputazione non solo del singolo paese membro ma anche quella delle istituzioni dell’Unione. Non è casuale che la crisi dell’euro e dei debiti sovrani si avvia a soluzione dopo il discorso di Draghi del 12 luglio 2012 e l’anticipata operatività del meccanismo europeo di stabilità. Se in qualche modo migliora e tiene il quadro europeo anche le incertezze elettorali, le difficoltà di formazione dei governi in alcuni PM a partire dalla Germania non hanno effetti destabilizzanti come, tutto sommato non l’ha avuti la improvvida dichiarazione del Presidente della Commissione europea del 22 febbraio 2018.

Nei capitoli 3 e 4 Cottarelli riprende una serie di argomenti contro il debito pubblico compreso quello caro ai tedeschi secondo cui il debito è colpa. Lui parte dall’assunto sbagliato secondo cui quello che vale per la famiglia e l’impresa vale anche pe il governo. Ora se una famiglia deve comprare o ristrutturare un’abitazione o disinveste altri asset oppure chiede un mutuo. Se un’impresa che non ha profitti accantonati, sta utilizzando la sua capacità produttiva al massimo e si trova un portafogli colmo di ordini deve comprare nuovi macchinari o addirittura pensa di aprire un’altra unità produttiva lo fa indebitandosi. A pag. 45 Cottarelli, seguendo l’esempio della fabbrica, afferma che “il PIL potenziale dipende dall’occupazione e dagli impianti e quindi dagli investimenti che un’impresa è disposta fare”. Non si vede perché esso non possa dipendere anche dagli investimenti pubblici direttamente produttivi di beni e servizi. Probabilmente perché prende per oro colato i calcoli del FMI secondo cui soglie del debito del 70% per i PVS e 85% per i paesi avanzati debbono preoccupare. A sostegno della sua tesi contro il debito pubblico Cottarelli cita sommariamente il teorema di Ricardo sull’equivalenza tra imposta straordinaria e prestito, ma afferma che prima o poi il debito va ripagato. Nell’esempio di Ricardo c’è equivalenza tra imposta straordinaria e il valore attuale delle imposte ordinarie necessarie per pagare gli interessi delle quote di ammortamento del debito. In una gestione corretta del debito pubblico emesso per finanziare investimenti infrastrutturali di lungo termine è opportuno anche per problemi di equità intergenerazionale spalmare l’onere anche sulle generazioni future. Non ultimo Cottarelli introduce l’argomento dello spiazzamento degli investimenti privati (crowding out). Argomento molto discusso e di assai dubbia validità ed applicabilità in un contesto di economia aperta e, da ultimo, dopo il mare di liquidità prodotto prima dalla FED e poi dalla BCE. In un breve capitoletto tratta il problema dei risvolti etici del debito pubblico riprendendo la tesi millenaria del debito come colpa, sostenuta con vigore dai tedeschi; cita Adamo Smith e anche una frase attribuita a Cicerone che lui stesso ritiene falsa. Finalmente dopo aver ammesso che se lo Stato investe bene parte della fondatezza di certi argomenti contro il debito pubblico viene meno. Cita le tesi di Berlinguer sull’austerità 1977 e ne fa discendere che essa comporta un vincolo di bilancio, alias, il pareggio di bilancio e solo chi lo rispetta ha un visione di lungo termine. È facile contraddirlo dicendo che anche un governo che si indebita per costruire grandi infrastrutture pubbliche o investe nella istruzione e formazione permanente dei suoi cittadini nonché sulla loro salute ha una visione di lungo termine. Il punto è se il vincolo di bilancio lo si applica a tutte le spese pubbliche comprese quelle in conto capitale oppure solo a quelle correnti. La distinzione tra le due anche se difficile non è impossibile.
Ciò detto veniamo alla seconda parte del libro che esamina le proposte avanzate da varie parti. La prima è basta con l’euro. Cottarelli cita le critiche dei sei economisti Premi Nobel critici dell’euro ma cita anche altri non vicini alla sinistra anche essi scettici sulla costruzione dell’Unione economica e monetaria. Attribuisce la crisi al forte aumento del prezzo del petrolio, all’ingresso della Cina nella WTO, alla conseguente accelerazione della globalizzazione. Secondo me, aiuta a capire la crisi che ha colpito l’Italia il confronto tra gli anni ’70 e gli anni 2000. Anche nel decennio 1970 ci furono grossi sconvolgimenti nell’industria mondiale specialmente in quella pesante dell’acciaio e della cantieristica, della chimica, ecc. ma in Italia si continuava a investire sia pure a tassi ridotti rispetto a quelli dei due decenni precedenti. C’era la possibilità di manovrare il cambio e forse se n’è abusato. Nel 2000-06, ci sono stati le Due Torri, l’euro e in Italia l’inflazione da euro che taglia la domanda interna, nessuna politica industriale, l’euro via via sopravvalutato; cicli diversi dell’economia reale che richiedevano manovre di aggiustamento diverse e che, invece, sono state trattate con una ricetta unica di politica monetaria. Concordo con Cottarelli che l’uscita dall’euro non è ipotesi percorribile intanto perché non c’è identità tra la moneta unica e le politiche economiche adottate in suo nome e, in secondo luogo, perché il ritorno alla lira o altra moneta avrebbe conseguenze disastrose che prima o poi porterebbero al ripudio del debito.
Il secondo rimedio esaminato è quello di non pagare il debito. A solo parlarne ritorna l’eco degli italiani inaffidabili. Cottarelli smentisce in toto questa etichetta che viene cucita addosso agli italiani ma, in fatto, ci sono state diverse operazioni di conversione della rendita negli anni zero, 20 e 30 del secolo scorso. Al di là del discorso della credibilità Cottarelli non ritiene fattibile né il ripudio né la ristrutturazione perché gran parte del debito pubblico italiano è detenuto nei portafogli delle banche, assicurazioni e fondi di investimento e quindi questi operatori andrebbero incontro a crisi di liquidità. E una crisi bancaria molto probabilmente richiederebbe l’intervento o salvataggio da parte dello Stato. Proseguendo la sua analisi di traslazione e incidenza del costi dell’operazione Cottarelli afferma che essi vanno confrontati con quelli di mantenere avanzi primari per un lungo periodo (10 anni) perché consente la gradualità, alias, la possibilità di spalmare su una arco temporale più lungo i costi dell’operazione. Questo richiede una forte omogeneità di vedute nelle maggioranze politiche che si susseguono al governo – cosa secondo me improbabile ma non impossibile nella fase storico-politica che il paese sta attraversando. Il ripudio anche parziale è operazione straordinaria mentre mantenere avanzi primari è assimilabile a operazione ordinaria. Entrambe le operazioni sono equivalenti a imposte straordinarie oppure ordinarie e, quindi, ritorna il teorema di Ricardo. E se così, Cottarelli si chiede perché una tassazione dovrebbe essere fatta solo sulla ricchezza finanziaria in forma di titoli del debito pubblico e non anche su tutta la ricchezza mobiliare ed immobiliare.
Segue una ricostruzione della crisi greca dove fa vedere errori, misfatti, e i ritardi con i quali la UE e la stessa Troika nell’assumere i rimedi più adatti per risolverla. Resta il sospetto – scrive Cottarelli – che si volesse punire la Grecia per farne un caso emblematico.
Sul rimedio della mutualizzazione molti invocano la solidarietà. Questa non c’è nella UE né negli USA, in Canada e in altri paesi in assetto federale. La solidarietà ci dice anche la teoria dei giochi non funziona nei contesti allargati. Nella teoria dell’ottima area valutaria sono previsti trasferimenti a fondo perduto e altri compensativi di diseconomie esterne, lontananza dai mercati, ecc. ma la maggioranza dei paesi che si raccoglie attorno alla Germania hanno detto e ripetuto che non vogliono una Unione di trasferimenti. Cottarelli propone l’accentramento delle imposte sul reddito, un bilancio centrale per potere prevedere anche una indennità di disoccupazione in parte finanziata dalla Unione. Ma l’esito del primo vertice europeo sull’argomento del 23-02-2018 ha confermato l’opposizione della maggioranza dei Paesi membri che hanno difficoltà a compensare il previsto venire meno del contributo inglese. Il cemento della società moderne è la reciprocità, alias, l’interesse comune sempre che questo sia riconosciuto come tale dagli stessi interessati.
Scarsa efficacia Cottarelli attribuisce alla vendita dei patrimoni pubblici sia per l’entità valorizzabile che per i tempi non brevi della sua realizzabilità. Lui valuta positivamente l’operazione soprattutto ai fini della riduzione del perimetro dell’intervento dell’operatore pubblico nell’economia che come misura per aumentare l’efficienza del sistema. In questi termini, eventuali vendite possono solo aiutare altre operazioni più dirette.
Cottarelli argomenta un’austerità diversa affermando che non è per principio che bisogna tagliare prima la spesa pubblica per poter tagliare le tasse, assunte come alte ma non dice per chi queste sono alte. Invoca anche lui un recupero dell’evasione fiscale ma sottace che ciò dovrebbe essere fatto per ragioni di perequazione e di equilibrio dei bilanci pubblici a parità di pressione tributaria, sapendo che molti servizi pubblici non assicurano i livelli essenziali di assistenza previsti dalle leggi. Il suo argomento fondamentale a sostegno dell’austerità è che gli effetti del bilancio in pareggio nel lungo termine sono positivi sulla crescita se non si considerano gli sforzi per dimezzare il debito pubblico – anche se ammette che gli studi a sostegno di questa tesi “non ci spiegano quale sarebbe l’effetto sul reddito potenziale dello sforzo necessario per ridurre il debito”. Sostiene la fattibilità di un avanzo primario per almeno dieci anni e stima la velocità appropriata di riduzione del debito in tre punti di PIL all’anno. Alla fine arriva ad una valutazione critica delle mitiche riforme strutturali nascondendo in una nota che quelle vere degli anni ’60 del secolo scorso andavano nella direzione opposta di quelle che ora l’UE e le organizzazioni internazionali propongono. Ora come allora, secondo me, le riforme strutturali dovrebbero interessare l’accresciuto settore dei servizi pubblici e privati alle imprese e alle famiglie. Si tratta di un compito immane che richiederebbe una rigorosa programmazione a medio-lungo termine che probabilmente richiederebbe un più alto e pervasivo compito di regolazione da parte dell’operatore pubblico. E PQM anche le organizzazioni internazionali ripiegano: a) sulla proposta di diffondere le best practices; b) di agire – prevalentemente se non esclusivamente – con modifiche delle regole del mercato del lavoro per renderlo più flessibile e facilitare i licenziamenti. Ma i rimedi semplici spesso non bastano per risolvere problemi complessi come quelli della bassa produttività, della competitività dell’intero paese e non solo di alcune industrie.
Non ultimo, tra le cause dell’attuale crisi Cottarelli cita la stagnazione secolare che colpisce alcuni paesi. A me sembra che in Italia essa c’è da circa un quarto di secolo ed è frutto anche della politica dei redditi adottata e concordata con i sindacati durante la crisi 1992-93. Come noto, l’accordo è stato attuato a metà, ossia, tralasciando la parte relativa alla crescita e allo sviluppo frenati anche dalle dure manovre 1997 e 2007; la prima per entrare nell’euro e la seconda per poterci restare. Non casualmente la prima coincide con l’approvazione del Patto di stabilità e crescita europeo reg. n. 1466/1997 – anch’esso rimasto inattuato per la parte sostegno alla crescita; la seconda manovra 2007 ha consentito al governo Berlusconi-Tremonti una certa bonanza sino alla crisi dell’Estate 2011 e per arrivare nello stesso anno al varo definitivo del nuovo Patto di stabilità reg. n. 1175/2011 nel quale la priorità assoluta viene data non alla stabilizzazione del ciclo della economia reale ma al consolidamento dei conti pubblici. Di un nuovo Patto per la crescita, a detta del Sen. Monti, si è parlato nel Consiglio europeo del giugno 2012 ma poi non se n’è fatto niente. Intanto la politica sbagliata dell’austerità a senso unico non solo ha imposto il Jobs Act ma ha prodotto anche la svalutazione interna con gli effetti perversi di ulteriore redistribuzione del reddito a favore dei ricchi, di impoverimento della classe media, di aumento della disoccupazione, solo in minima parte compensata da un aumento di lavori poveri e precari. Se questo è vero, non basta il lancio del piano Juncker che pure comincia a decollare. Non basta ridurre il debito pubblico ad una velocità appropriata di 3 punti all’anno come alla fine propone Cottarelli. Come detto sopra, serve un vasto programma di investimenti pubblici direttamente produttivi anche direttamente controllati dalla Commissione europea, serve l’attuazione piena e consapevole della golden rule. E, come ha scritto Giuseppe Pennisi sull’Avvenire del 28 febbraio, “la montagna del debito pubblico si scala solo in cordata”, alias, bisogna battersi anche per rendere più flessibili le regole europee del Patto di stabilità e crescita e per avvalersi degli strumenti di assistenza già in essere.