La grande balla del Sud che vive alle spalle del Nord.

Finalmente una operazione verità sulla politica meridionalista dei governi degli ultimi 20 anni per non andare oltre. L’operazione non è nuova se uno pensa alle analisi della Svimez che annualmente pubblica un ponderoso Rapporto sull’economia del Mezzogiorno e due riviste (una economica ed una giuridica) su tematiche e ricerche più specialistiche. L’operazione non è nuova se uno pensa ai Conti pubblici territoriali che attirano l’attenzione solo degli addetti ai lavori e che vengono sistematicamente ignorati da ministri e parlamentari in un quadro di deterioramento dei conti pubblici da quando siamo passati dalla Relazione generale sulla situazione economica del paese e dal Dpef al generico e superficiale Documento di economia e finanza e al Programma nazionale di riforme – sempre promesse e per lo più non realizzate. Negli ultimi 25 anni è passata la narrazione secondo cui c’era una questione settentrionale che doveva avere la precedenza e che il Sud viveva alle spalle del Nord con la spesa assistenzialista.

Nel suo libro “La grande balla”, la nave di Teseo, 2020,  Roberto Napoletano, utilizzando i dati della Svimez e dei Conti Pubblici Territoriali, della Ragioneria generale dello Stato, dell’Istat, smentisce questa tesi e con interventi continui sul “Quotidiano del Sud – L’altravocedell’Italia” sta portando avanti una battaglia meridionalista ad oltranza che ha già avuto un suo sbocco parlamentare con le audizioni davanti alla Commissione finanze della Camera dei deputati presieduta da Carla Ruocco e da Antonio Misiani. 

Napoletano scrive di 61 miliardi all’anno non erogati alle regioni meridionali negli ultimi dieci anni che avrebbero dovuto andare a coprire i fabbisogni di asili nido, scuole, mense, centri estivi che però non vengono erogati grazie alla mancata attuazione dei fabbisogni e dei costi standard. Parla del deficit infrastrutturale del Mezzogiorno, dell’assenza di treni ad alta velocità tra Salerno e Reggio Calabria e tra Napoli e Bari per non parlare delle ferrovie siciliane. Scrive della mancata attuazione del fondo perequativo di cui all’art. 119 Cost. e della distribuzione regionale della spesa pubblica che non tiene conto della spesa pensionistica e degli interessi pagati sul debito pubblico che avvantaggia le regioni del centro Nord e che, per giunta, non vengono conteggiati nel calcolo del c.d. residuo fiscale. Tenendo conto del parametro demografico al Mezzogiorno spetterebbe il 34% dei nuovi investimenti mentre in fatto ne arrivano molto meno.

Cita i conti pubblici territoriali del 2017 che contengono una serie storica che documenta la sperequazione nella distribuzione della spesa pubblica regionale che tiene conto dei dati di cassa.  Critica il capitalismo relazionale che prevale in Italia dopo la liquidazione di quello statale dell’IRI e di quello delle grandi famiglie. Parla di un “privato”, secondo i neoliberisti, sempre migliore e più efficiente del “pubblico” mentre, ad esempio, i fatti della gestione della rete autostradale in concessione dimostrano esattamente il contrario.   Detto capitalismo predica le regole del mercato ma nei fatti applica le pratiche estrattive della rendita (rent-seeking). Analisi che converge con quella di Luca Ricolfi nel suo ultimo libro sulla Società signorile di massa.

Denuncia un grave problema di classe dirigente locale sia al Nord che al Sud che spiega non solo con la finanziarizzazione dell’economia ma anche con la scomparsa dei partiti strutturati di una volta. Per cui oggi abbiamo una classe politica al Nord predona dei fondi pubblici ma mancante di strategie industriali che ci hanno ridotti a subfornitori della Germania e della Francia. Simmetricamente al Sud vede un’avvilente evaporazione  della classe dirigente meridionale che assiste inerte e rassegnata al declino ineluttabile di quasi tutte le regioni meridionali incapaci di progettazione, incapaci di utilizzare i fondi comunitari e/o di farsi sentire in maniera coordinata all’interno della Conferenza Stato e autonomia locali. 

Questa constatazione lo porta a proporre l’abrogazione delle regioni o il loro ridimensionamento continua. Personalmente non condivido questa ipotesi: in primo luogo, perché 140 anni di Stato centralizzato non hanno dato ottima prova di sé: c’è stata sempre e c’è ancora una questione meridionale e le classi dirigenti locali dovrebbero essere i protagonisti del suo rilancio;  in secondo luogo, perché la costituzione europea, sia pure allo Stato embrionale, è e sarà sempre più una forma di governo decentralizzato e, quindi, l’ipotesi formulata da Napoletano sarebbe in contrasto con l’auspicale pieno sviluppo in senso federale dell’Unione europea che vuole essere una Europa delle regioni;  in terzo luogo, se la crisi, come sostiene Napoletano, è anche crisi dei partiti il problema sta non solo nella scarsa qualità della classe dirigente locale ma in altri fattori tra i quali anche la legge per la elezione diretta del presidente della regione. Detta legge favorisce gli outsiders e i demagoghi; ha ridimensionato il ruolo delle assemblee legislative; consegna importanti regioni nelle mani di un solo uomo come se si trattasse di un piccolo comune. Si invece ad una più attenta redistribuzione delle competenze e al rilancio del ruolo delle regioni in materia di programmazione dello sviluppo se si vuole coprire il vuoto di progettazione e l’incapacità di spendere specialmente nelle regioni meridionali.

 Sul primo versante, l’odierna crisi sanitaria richiama la natura globale del bene salute pubblica.  La sanità elencata tra le materie a competenza concorrente, a mio parere, non è in contrasto con l’art. 32 della Costituzione e con gli artt. 6 e 168 del Trattato di Lisbona che la elenca come materia di competenza concorrente speciale. Il problema sta nell’ultima frase del comma 3 dell’art. 117 Cost. che recita: “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” che sembra assegnare il grosso della iniziativa legislativa alle regioni. In realtà, tale interpretazione è frutto di un malinteso perché è chiaro che se si condivide la tutela piena si condivide anche l’iniziativa legislativa che l’attua e che, in ogni caso, vale il principio di sussidiarietà dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto, come prevede il protocollo n. 25 allegato al Trattato di Lisbona che chiarisce a modo suo la competenza concorrente speciale del più alto livello dell’Unione europea. In altre parole, persino i Paesi membri e le regioni in via sussidiaria agirebbero nei limiti in cui l’Unione non ha agito o ha cessato di agire in materia di salute pubblica. Poteri che in fatto l’Unione non ha esercitato neanche nei limiti di azioni di sostegno, completamento e coordinamento delle politiche sanitarie dei PM di cui all’art. 6 citato.  E come avrebbe potuto e come potrebbe mai farlo con un bilancio attorno all’1% del PIL dei PM e con assegnazioni risibili di risorse al piano sanità. Rinvio al mio post: http://enzorusso.blog/2020/03/04/la-salute-come-bene-pubblico-globale-ed-europeo/

Napoletano critica le regioni che avrebbero ostacolato l’attuazione della quota riservata di investimenti al SUD.          A me sembra che le Regioni a statuto ordinario non hanno mai impedito la destinazione del 40% dei nuovi investimenti al Sud prima perché negli anni del Centro-sinistra le RSO ancora non esistevano ma c’era un’attività di programmazione e lo Stato aveva a disposizione il sistema delle imprese pubbliche e di quelle a partecipazione statale. Quando lentamente nel 1976 si completa l’armamentario degli strumenti a disposizione delle RSO non c’è più la programmazione del governo centrale per via della crisi del Centro-sinistra, del crollo di Bretton Woods (Agosto 1971), del primo shock petrolifero 1973, della crisi mondiale dell’industria dell’acciaio e della cantieristica che porta da un lato alla cancellazione del V centro siderurgico di Gioia Tauro, e a provvedimenti di riconversione e/o ristrutturazione di molti settori industriali. Nel 1976 a fronte dell’accelerazione del processo inflazionistico dovuta al conflitto distributivo non solo interno ma anche internazionale, la priorità diventa la stabilizzazione dei prezzi con buona pace della programmazione della crescita anche delle regioni meridionali.  Nel 1978 veniva istituito il sistema sanitario nazionale e i trasferimenti e/o il gettito di tributi erariali devoluto alle Regioni viene a costituire il 75-80% delle entrate dei loro bilanci. Come ha scritto Giuliano Amato le regioni diventano stazioni di mediazione politica. Se aggiungiamo l’acutizzarsi della strategia terroristica di quelli anni – con il 1977 definito come l’anno della P38 e con il rapimento e assassinio del Presidente Moro nel 1978, e che il terrorismo metteva in discussione la sopravvivenza del sistema democratico il quadro è più o meno completo. Nel frattempo a livello europeo vinceva il neoliberismo e la fede nelle capacità taumaturgiche del mercato a fronte dei fallimenti dello stato. Gli attentati terroristici continuano e l’inflazione arriva a superare il 20 %, l’Italia esce ripetutamente dal Sistema monetario europeo. Negli anni 70 si susseguono tre recessioni nel 1971, 1975 e 1977 e tuttavia il tasso medio di crescita si aggira attorno al 3,7%; poi arriva la lunga recessione dei primi tre anni 80; nel secondo semestre 1983 l’Italia riesce ad agganciare il ciclo internazionale, la nave va ma la crescita annua del decennio scende al 2,5%.

Dieci anni dopo siamo punto e accapo, nell’Estate 1992 la lira esce dal sistema monetario europeo e il governo Amato è costretto a fare una manovra da 90 mila miliardi per stabilizzare il cambio e l’economia. Nel 1996 il governo Prodi deve fare un’altra manovra per entrare nell’euro.   Si continua a parlare di programmazione negoziale proponendo patti territoriali e contratti d’area ma detti istituti non vengono attuati bene come non viene attuata la seconda parte dei protocolli sulla politica dei redditi del 1992 e 1993.   In quest’ultimo anno, si abroga l’Agensud che aveva sostituito la Cassa del Mezzogiorno – dipinta come il vaso di Pandora di tutti i mali – e declinano gli investimenti pubblici e privati anche nel Mezzogiorno. A fronte della crescita del debito pubblico la soluzione accettata come naturale è quella delle privatizzazioni anche perché nel frattempo tutta la sinistra europea fa propri i paradigmi neoliberisti. Nel 1994 vince il centro-destra e Bossi ottiene l’abrogazione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Il governo Dini si impegna soprattutto nella riforma delle pensioni mentre il successivo governo Prodi riesce a farci superare l’esame di ingresso nell’Unione economica e monetaria. Con riguardo al Mezzogiorno si opera l’inserimento della legislazione sull’intervento straordinario nelle procedure ordinarie del bilancio dello Stato – operazione che occupa ben quattro anni. Ricordare quello che è successo negli anni 90 è essenziale per capire quello che succederà anche nei primi due decenni del XXI secolo. Negli anni 90 si riformano i sistemi elettorali, per merito dell’On. Bossi leader della Lega Nord, inizia un contrastato processo di riforma dello Stato nella direzione di un assetto federale – ancora non compiuto. Le leggi Bassanini propongono l’anticipazione del federalismo passando per il federalismo amministrativo, ossia, decentramento, delegificazione, semplificazione delle procedure, formazione del personale, telelavoro, riforma della Presidenza del Consiglio dei ministri, Autorità amministrative indipendenti, spoils system, ecc.. Inizia un lento e travagliato processo di risanamento dei conti pubblici che a fronte delle ripetute crisi congiunturali anche di origine esterna, all’inizio e alla fine del decennio, contribuisce a dare un’impronta strutturale alla bassa crescita dell’economia italiana – 1,5% tasso medio annuo del decennio – che si ragguaglia ad un misero 0,23 negli anni 2000 per diventare negativo in questo secondo decennio- ormai un evento ineluttabile anche per via delle conseguenze della crisi del coronavirus.

La mancata attuazione del federalismo lascia anche le Regioni in mezzo al guado e abbarbicate alla gestione della funzione sanitaria, senza vera autonomia finanziaria, senza risorse per gestire al meglio la formazione, le politiche attive del lavoro, senza consapevolezza che una più generale recupero della competitività del sistema Italia passa anche attraverso il rilancio dell’economia meridionale, la ricerca e l’innovazione, una nuova politica industriale, la digitalizzazione e la conversione ecologica dell’economia, in sintesi, lo sviluppo sostenibile.   Oggi l’Italia deve affrontare le sfide poste dal cambiamento tecnologico e da quello demografico – ora nel bel mezzo di una pandemia e di una recessione economica. Si richiede un piano organico di interventi dal lato della domanda e dell’offerta, alias, si richiede una pianificazione strategica quella che una volta chiamavamo PPBS (planning, programming, budgeting system) di cui pochi parlano oggi perché prevale la veduta corta dei politici. Non si pensa né alla pianificazione né alla programmazione di medio termine perché come vediamo ogni anno a fatica si riesce a varare con voto di fiducia su un   maxiemendamento presentato all’ultimo momento la legge di bilancio e le proiezioni triennali del DEF e del PNR restano scritte nella sabbia.

La rapina dei fondi che dovrebbero andare al Sud e che con il criterio della spesa storica vengono dati al Nord è resa operativa per i ritardi nell’attuazione del federalismo. Voglio ricordare che il problema era stato affrontato nella legge delega n. 133/1999 che prevedeva un periodo transitorio di soli tre anni per arrivare ai fabbisogni e costi standard.  Prevedeva anche nuovi sistemi perequativi lasciando fuori da essi il finanziamento della sanità che essendo un bene pubblico nazionale doveva avere una logica diversa. Fu emanato il d. lgs. n. 56/2000 ma anche questo decreto non venne attuato perché i Presidenti delle regioni preferirono negoziare patti della salute annuali. Poi arrivò nel 2001 la riforma del Tit. V.  Ma ci sono voluti altri 8 anni per arrivare alla legge n.42/2009, nel bel mezzo della doppia recessione 2009-2012. Il progetto di riforma avviato da questa legge era incentrato sul coordinamento della finanza pubblica e sul passaggio dalla spesa storica ai fabbisogni determinati secondo i costi standard ma dieci anni dopo siamo ancora ad una Commissione che sta studiando il problema. Le regioni hanno le loro colpe ma la colpa principale, a mio giudizio, resta con i governi centrali e le maggioranze che si sono succedute nel tempo. Inoltre vedo un collegamento con le esperienze di spending review sempre affidate a Commissioni di esperti esterni e non ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni. Se si fosse solta la spending review sul serio attraverso un’attività ordinaria e sistematica non solo a livello centrale ma anche sub-centrale e se avessero funzionato sul serio le migliaia di nuclei di valutazione della efficacia delle varie politiche pubbliche avremmo avuto tutti i dati per costruire fabbisogni e costi standard, e livelli essenziali delle prestazioni. Invece no. C’è sì un grosso problema di distribuzione delle risorse – come sottolinea instancabilmente Napoletano – ma c’è anche un problema di capacità di spesa, di valutazione dell’efficienza, economicità e efficacia di detta spesa. Come del resto c’è anche un problema di accertamento delle entrate tributarie in maniera equa ed efficiente. C’è in sintesi un grosso problema di efficienza della pubblica amministrazione a tutti i livelli di governo. Napoletano loda ripetutamente questo governo per avere avviato l’operazione verità sulla questione meridionale e fa bene a farlo. Critica le classi politiche locali del Nord e del Sud ma a fronte della crisi sanitaria e della conseguente e imminente recessione economica di cui Napoletano non si occupa perché aveva chiuso il libro prima, purtroppo, reputo basse le probabilità che questo governo possa trovare l’accordo per la revisione attenta dell’art. 117 Cost. e l’attuazione prioritaria del successivo art. 119 sui meccanismi perequativi necessari e fondamentali nell’attuazione del federalismo.  Un paese non può restare in mezzo al guado per 25 anni.

@enzorus2020

1 commento
  1. Carlo Giannone
    Carlo Giannone dice:

    Caro Enzo,
    Mi limito, ‘a caldo’ e, soprattutto, prima di aver letto il libro di R. Napoletano, ad alcune notazioni. Non si tratta di rilievi critici, in quanto il Tuo scritto mi appare ampio e. ben supportato da motivazioni del tutto condivisibili. In breve:
    a) riterrei utile un riferimento attuale ancora oggi, a più di un secolo di distanza, alle annotazioni di F.S. Nitti con le opere: F.S. Nitti, Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97, Roux e Viarengo Editori, Torino, 1900 e, in particolare, Nord e Sud . Prime Linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato in Italia (da cui la rivista nei decenni successivi). A tale proposito, lo storico G. Galasso scriveva sul ‘Corriere della Sera’ del 1 Novembre 1917: “ll Sud ha dato tanto al Nord. E Nitti lo spiega bene”. Per noi, entrambi uomini del Sud, il problema ‘Mezzogiorno’ ha certo radici profonde e antiche. Peraltro, è in quella tradizione che l’altro ieri Graziani e la ‘Scuola di Portici’ e oggi A. Giannola e la ‘Svimez’, pur con pochi mezzi disponibili, ne mantengono viva l’immagine offuscata;
    b) concordo pienamente, sul fatto che facciano soffrire il leggere una c.d. “questione settentrionale” e il logoro coro dei suoi sostenitori – in gran parte gli stessi che perseguono l’ obiettivo del perenne discredito del Mezzogiorno attraverso ambigue espressioni come un “regionalismo differenziato” – accampando presunte ma da anni disattese formulazioni consistenti negli standard di prestazioni di beni e servizi pubblici: questi ultimi, infatti, continuano ad avere fondamento nei divergenti livelli del reddito medio pro-capite, laddove le stentate ricerche tuttora in corso astraggono dal considerare essenziali diversità in specifici indicatori relativi al bisogno dei soggetti-elettori. Negli ultimi cinque lustri, costoro hanno raccontato baggianate – quelle sì– sul tentativo, maldestro, di poter realizzare sul territorio e per tutti i cittadini italiani delle condizioni che riflettano l’ obiettivo di “equità orizzontale”, sulla scorta di un mitizzato concetto di ‘residuo fiscale’. Va detto con chiarezza che ciò, perfino nell’idea dell’economista conservatore della Virginia insignito del premio Nobel nel 1986 e originario elaboratore del concetto, J. Buchanan, aveva senso solo ipotizzando l’esistenza di poteri fiscali (in sostanza, chiara autonomia tributaria nel determinare le aliquote d’imposta e la base imponibile) a entrambi i livelli di governo, centrale (o federale) e locale. In caso contrario, come in Italia, dove si insiste a calcolare come tali le c.d. “Partecipazioni al gettito di tributi riscossi centralmente”, come l’IVA, è incorretto stimare il saldo tra quanto è pagato dal singolo cittadino in un certo territorio, e le spese di cui beneficia. Più coerente sarebbe, secondo la indicazione di un autorevole studioso, R. Musgrave, prendere in esame -come, si noti, lo stesso Buchanan intendeva– l’imposta personale sui redditi delle persone fisiche, utilizzando aliquote diverse (una progressiva e l’altra proporzionale) ai rispettivi livelli di governo. Per un convinto liberale ’ante litteram’ quale il menzionato Nobel, la stima poteva, anzi doveva essere riferita ai singoli individui, non già alle autorità impositrici, né tanto meno ragguagliata al totale delle entrate.
    c) come spesso ci siamo soffermati a discorrere, larga parte dell’altezzoso atteggiamento di superiorità – non disagevole da ritrovare, nell’attuale Unione Economica Europea, e partitamente nell’ampio sottogruppo di paesi membri sovente denominato “Eurolandia” – viene celata la reale fonte di mancata di integrazione già da tempo stabilita da R. Mundell, vincitore a sua volta del ‘Nobel’ nel 1999, che è poi quella, con qualche forzatura, dell’infinitamente lunga storia che divide ricchi e poveri e che conduce, oggi come ieri nell’Italia martoriata dal Virus Covid-19 ognora divisa, almeno in due e altresì nell’Unione Europea i cui membri esibiscono diseguaglianze soprattutto in termini di capitale umano come di risorse, al punto di erigere barriere onde far valere il potere economico, e non solo;
    d) purtroppo, in definitiva, entrambe le realtà su cui continuiamo, a ragione, a fermare i nostri studi, rendono speculari i mali d’origine di costruzione di uno Stato, il nostro, e di un errato “Design of a Federation” per la carenza di un accettato complemento analitico essenziale del concetto-guida di efficienza, quello di equità (da intendersi, beninteso, ‘verticale’, dal momento che quello ‘orizzontale’ può a stento valere nel contesto individuale e rappresenta, con ogni evidenza, l’autentico caposaldo a base del tornaconto personale nel neo-liberismo). Resta, quindi, un’impresa impossibile edificare correttamente lo Stato nazionale e ancora meni uno concretamente federale, anche se al netto dei criteri da te richiamati circa una programmazione efficiente e criteri di responsabilità, individuale e collettiva, generalmente validi. Insomma, balle o meno, è indifferibile nella nostra epoca la necessità di sforzi immani e al momento irrisori verso la perequazione, magari tendente a una vera ancorché parziale eguaglianza, delle condizioni delle comunità ai tutti i livelli.
    La Tua ampia recensione contiene molti elementi opportunamente indicati da portare avanti con forza in ogni occasione, anche a dispetto delle relative inevitabili varietà di assetti ineguali di ogni genere e grado, sempre ricordando, con Wicksell, che la regola dell’unanimità non è in fondo preferibile se non in una democrazia diretta ideale e che non soltanto il benemerito R. Musgrave, insieme a una folta schiera di grandi teorici di finanza pubblica, ha elaborato schemi perequativi fondati su indici di bisogno che, com’è ovvio, sono caratterizzanti della diversità; a patto di non ignorarli.

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