Vito Tanzi revoca in dubbio che l’economia sia materia scientifica.
Il libro di Vito Tanzi, Advanced Introduction to Public Finance, EE, Elgar Publishing, 2020, è un misto di analisi teorica e di storia del pensiero economico e finanziario e, proprio per questo motiv0, rientra nella serie di Introduzioni avanzate. Grande attenzione viene data alla letteratura sulle procedure decisionali nel settore pubblico e in materia finanziaria proprio perché queste si prestano a creare facili illusioni come ci ha insegnato Amilcare Puviani 1903. La maggior parte dei contribuenti che non ha studiato economia e scienza delle finanze è poco avvertita dei fenomeni di traslazione e incidenza delle imposte e, quindi, non distingue, tra chi, in prima istanza, è percosso dall’imposta e chi ne rimane effettivamente inciso dopo gli aggiustamenti reali che avvengono nel mercato. Tasse anche basse infatti modificano i comportamenti degli operatori economici come le famiglie e le imprese. Naturalmente, evitare ogni carico di imposta è missione impossibile, si tratta di minimizzarli e limitarli a quelli veramente inevitabili (68). Da un lato Tanzi ridimensiona le analisi di equilibrio parziale sull’eccesso di pressione di certe imposte che, come tali, non tengono conto dei benefici che apportano ai contribuenti e alla società e dice che quelli che si occupano di riforme fiscali dovrebbero preoccuparsi di più della fattibilità amministrativa di certe imposte anche nei casi in cui questa è fortemente condizionata dalla quantità e qualità del personale assegnato alle amministrazioni finanziarie. Di conseguenza, Tanzi ridimensiona anche la regola di Ramsey (1927) tassare di più i beni a domanda rigida che è alla base della teoria dell’ottima imposta. Afferma quindi che le questioni di progressività, redistribuzione e di giustizia sociale sono questioni essenzialmente politiche; sono e restano problemi di second best (72).
Tanzi utilizza quindi alcune statistiche essenziali per descrivere e valutare l’evoluzione della pressione tributaria negli ultimi 150 anni. Nel 1870 nei paesi avanzati la pressione tributaria (PT) si aggirava sotto il 10% del PIL, solo tre paesi registravano un dato più elevato. Si mantenne stabile sino al 1913. E questo in un periodo di forte sviluppo e di accelerazione della globalizzazione. Nel 1920, la PT sale al 14%, nel 1937 al 17%; nel 1960 al 29%. Per un gruppo di paesi OCSE la PT passa dal 24,9% del 1965 al 31,5% del 1985, al 33% del 2005 (81-82). Controcorrente, alcuni paesi de Centro e Nord Europa mantengono la PT a livelli elevati: la Svezia al 50% nel 1987; la Danimarca al 48% ancora nel 2005; il Belgio al 44% nel 2013-14; la Francia al 45% nel 2014; la Finlandia al 46% nel 1994; la Norvegia al 44% nel 1986 salvaguardando crescita economica e alti livelli occupazionali e, quindi, smentendo teorie dominanti (in molti paesi ma non in tutti) sugli effetti negativi delle alte aliquote delle imposte (84). Intanto si era affermato il credo neoliberista e la PT in molti paesi si stabilizza. Per converso, in altri paesi, non si riesce a frenare la crescita della spesa pubblica e, quindi, il conseguente aumento del debito pubblico. Emblematico anche il caso dell’Italia dove nel 1981 si introduce il cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca centrale confidando nella disciplina che il mercato avrebbe imposto ai vari governi e invece il debito passerà dal 59,9% del 1981 al 120,9% del 1991 sfidando non solo la disciplina dei mercati ma anche la coerenza interna di governi che facevano leggi di bilancio a parità di pressione tributaria ma non controllavano il versante della spesa. Allora, in Italia, ministero delle finanze e del tesoro erano distinti e separati. In presenza di governi di coalizione essi venivano assegnati a personalità di partiti diversi non sempre propensi a coordinarsi strettamente anche perché portatori di diverse preferenze circa le regole fiscali da applicare sugli equilibri di bilancio e/o la sostenibilità del debito pubblico.
All’interno di questi dati statistici è chiaro che la struttura dei sistemi fiscali è fortemente condizionata da due fattori di carattere esterno ai singoli paesi: 1) la forte accelerazione della globalizzazione e 2) la tax competition. Entrambi i fattori sono imposti dalla logica neoliberista per cui, da un lato, la creazione di catene di valore a livello internazionale è comunque positiva perché crea opportunità di sviluppo nei PVS, dall’altro, pone dei freni al potere dei sindacati nei paesi sviluppati. Per decenni si è discussa la necessità di regole che impedissero ai paesi meno avanzati di praticare il dumping sociale ma non si è fatto niente. Per altri verso, i paesi più avanzati hanno visto la competizione fiscale come uno strumento che potesse porre un freno più efficace alla crescita della spesa pubblica. Vedi il caso emblematico dell’Unione europea che negli anni 90 abbandona i piani di armonizzazione fiscale e, in pratica, lascia il campo libero alla competizione fiscale consentendo al suo interno l’esistenza di 7-8 paradisi fiscali che aiutano i ricchi e le organizzazioni criminali a nascondere gran parte della loro ricchezza – anche quella di provenienza illegittima.
Tanzi riconosce la necessità di una intensa cooperazione tra gli Stati e le loro amministrazioni finanziarie che ritiene poco probabile anche se non si stanca di riproporre una Tax Authority a livello mondiale (93). Anche in Italia sono state approvate rigorose leggi sul riciclaggio e contro la evasione fiscale ma non di rado – come succede anche in altri paesi – dette leggi non vengono applicate rigorosamente per via della lentezza delle rogatorie internazionali che esse comportano oppure perché le agenzie fiscali vengono tenute sottodimensionate in termini di personale specializzato in controlli altamente complicati. Non ultimo, l’Italia soffre di una lunga tradizione di gestione politica dell’accertamento oggi più che mai attuale data la polarizzazione della politica sull’argomento per cui, da un lato, l’opposizione ritiene e fa credere ai più che la riduzione generalizzata delle imposte sia la ricetta magica per rilanciare l’economia; propone condoni di ogni tipo e anche la maggioranza ne esce condizionata per cui è difficile pensare che una gestione lassista dei conti pubblici possa accompagnarsi ad una rigorosa lotta all’evasione fiscale. Di conseguenza, neanche la maggioranza vuole pagare i costi di impopolarità di una rigorosa lotta all’evasione.
Tornando alle penetranti osservazioni di Tanzi sulle imposte dirette e il rapporto necessario tra ampiezza delle basi imponibili e altezza delle aliquote Egli osserva giustamente che se riduci le basi imponibili inevitabilmente hai bisogno di aliquote più elevate. Se non hai a lato delle imposte sul reddito imposte anche sul patrimonio inevitabilmente devi contare sulla tassazione indiretta dei consumi in particolare delle imposte sul valore aggiunto. Critica il presunto trickle down effect per cui la forte riduzione delle aliquote marginali delle imposte dirette avrebbe portato ad una più alta crescita e, a sua volta, ad una crescita dei salari medi. Non c’è alcuna evidenza empirica per detto effetto e, per altro verso, si discute poco se la riduzione delle alte aliquote ha contribuito all’aumento delle diseguaglianze. Discute criticamente anche la tesi di R. Lucas e L. Summers a favore dell’abolizione delle imposte sulle società dichiarando che non la condivide e cita il caso negativo della riforma fiscale di Trump 2017. Afferma che la riduzione dell’imposta sulle società ha portato solo all’acquisto di azioni di altre società ma non al capital deepening o acquisto di nuovo capitale con il quale è stata giustificata (91).
Più in generale Tanzi osserva che le scelte fiscali dipendono anche dal contesto storico, dal momento congiunturale, dalla politica monetaria accomodante o meno, ecc.. Solo se si osservano attentamente questi diversi fattori si riesce a capire come funziona o non funziona la politica fiscale dei governi di ieri, oggi e domani. Elenca le problematiche che devono essere affrontate quando si analizzano le questioni dell’efficienza e dell’efficacia di un sistema tributario avendo presente che limitarsi ai soli aspetti del prelievo non basta e che bisogna guardare anche all’utilizzo più o meno efficiente ed efficace della spesa pubblica. Riassume queste problematiche con il termine ecologia dei sistemi tributari per cui questi sono condizionati in vario modo dalla struttura economica, dalla qualità dell’attività governativa, dal comportamento degli elettori e dei contribuenti, dal grado di inflazione che caratterizza un dato paese e dalle diverse fasi della globalizzazione e della concorrenza economica e fiscale.
Ricorda le difficoltà di tassare i patrimoni complessivi. Cita Piketty 2014 e le crescenti diseguaglianze dovute anche alla caduta della quota dei redditi di lavoro dipendente. Osserva che ove applicate le imposte personali e progressive sui patrimoni hanno dato gettiti limitati in confronto ai casi in cui sono applicate in maniera estesa property taxes, ossia, imposte patrimoniali reali e proporzionali. Tuttavia considera che oggi la proprietà immobiliare è solo una parte dei patrimoni più grossi e, quindi, richiama l’attenzione degli economisti sui trasferimenti inter vivos e le successioni che contribuiscono non poco a consolidare l’esistente ed iniqua distribuzione della ricchezza.
Nel cap. 9 Tanzi tratta il crescente ricorso alla regolamentazione che è strumento formalmente alternativo in mano all’operatore pubblico ma, in pratica, equivalente alle imposte per gli effetti economici, in quanto può essere utilizzato per ridurre i costi sociali di certe operazioni o per produrre e/o assicurare rendite ad alcune clientele fiscali. Ovviamente anche la regolamentazione se bene articolata e sottoposta a periodiche revisioni può contribuire al buon governo. Osserva quindi che come le tasse anche le regolamentazioni sono ostracizzate dagli economisti neoliberisti – o libertarian come li definisce lui – ma siccome neanche i mercati operano sempre in maniera efficiente ed efficace né producono distribuzioni accettabili del reddito e, meno ancora, dei patrimoni il Nostro realisticamente afferma che non è saggio rigettare la regolamentazione in blocco. Si tratta, invece, di vedere come essa può contribuire a costruire un sistema più equo ed efficiente (124).
Nel cap. 10 si occupa di deficit nei conti pubblici e debito pubblico. Ma qui ci limitiamo a riportare la sua opinione secondo cui la versione originale keynesiana non contemplava un ruolo attivo della politica monetaria. Negli sviluppi delle teorie keynesiane e post-keynesiane si è teorizzata la necessità di un coordinamento e/o un ruolo accomodante atteso che politiche monetarie restrittive avrebbero neutralizzato per ipotesi il segno espansivo della politica fiscale. Naturalmente le cose sono cambiate dopo la rivoluzione monetarista che mette in discussione gli assunti principali delle politiche keynesiane e oggi, specialmente nella Unione europea sino a qualche anno fa, non solo si è teorizzato ma anche praticato un ruolo servente della politica fiscale (l’austerità) rispetto alla politica monetaria anche se non mancano le voci di banchieri centrali secondo cui con tassi prossimi a zero da sola la politica monetaria non ce la fa ad assicurare crescita e sviluppo sostenibili. Negli ultimi 50 anni, sulla spinta dei monetaristi si è rafforzata l’autonomia e l’indipendenza delle Banche centrali ma questa operazione provoca inevitabilmente tensioni con le autorità fiscali più decisamente caratterizzate politicamente anche perché, in non pochi casi, gli obiettivi fissati negli Statuti delle banche centrali non coincidono con quelli cangianti delle autorità di politica economica e finanziaria.
Quindi Tanzi riprende il discorso della forte crescita della spesa pubblica e individua due cause strettamente connesse. L’invecchiamento della popolazione nei paesi più ricchi e la connessa esigenza di trasferimenti pubblici sostitutivi di quelli che prima venivano operati all’interno delle famiglie – ovviamente più facoltose. Da qui la necessità di politiche redistributive più consistenti a favore delle famiglie con redditi medio-bassi. PQM anche Tanzi prevede un ruolo crescente delle imposte patrimoniali per mettere i governi in grado di finanziare i necessari trasferimenti sociali (138).
Nelle conclusioni Tanzi revoca in dubbio che l’economia sia materia scientifica. L’economia è scienza sociale ed appartiene al grande settore delle c.d. humanities. I governi non possono essere condotti da robot che seguono regole chiare e semplici (158). Aggiungo io che governare gli uomini a mezzo dei robot e dell’intelligenza artificiale è possibile se le persone fossero ridotte a robot con gli stessi gusti per i consumi privati, le stesse preferenze per i beni pubblici e gli stessi prevedibili comportamenti come cercano di farci diventare le imprese del capitalismo della sorveglianza. Tanzi cita il modello agente-principale che stenta a funzionare bene quanto i compiti assegnati all’agente sono numerosi e molto complessi e i principali non riescono a controllare i loro agenti. Secondo me, perché, come detto sopra, gusti e preferenze sono ancora fortemente differenziati a causa delle forti diseguaglianze. Visto che anche Tanzi cita en passant Google, mi viene di aggiungere che oggi con le nuove tecnologie della digitalizzazione, internet delle cose e l’utilizzo diffuso dell’intelligenza artificiale molte di queste differenze possono essere ridotte. E’ vero che, come dice Tanzi, oggi non basta più teorizzare il mercato di Adamo Smith per il quale bastavano poche e semplici regole per il suo buon funzionamento. Oggi il mercato internazionale è globalizzato e abbisogna di essere governato adeguatamente. I mercati interni delle principali potenze del mondo sono dominati da nuovi poteri oligopolisti che mirano non solo a standardizzare i consumi ma anche a cambiare i comportamenti anche elettorali dei cittadini vedi Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, 2019. Oggi questi poteri privati collaborano con i poteri pubblici ed influenzano le elezioni politiche. Nei paesi autoritari le nuove tecnologie consolidano il potere di leader autocratici che possono permettersi di far approvare riforme costituzionali che assicurano loro il potere per diversi decenni se non proprio a vita. In questi termini, l’uso spregiudicato di queste nuove tecnologie mette a rischio anche il funzionamento della democrazia nel mondo. Ma il cittadino comune non lo sa o non n’è pienamente consapevole. Sono gli arcana imperii del XXI secolo.
La lettura di questo libro è altamente raccomandabile perché è un distillato di saggezza prodotta da un’ampia conoscenza della letteratura rilevante, dalla storia del pensiero economico e finanziario e da una trentennale esperienza operativa con il FMI in giro per il mondo.
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