Le idee di Rodrik per un’economia mondiale assennata.

Dani Rodrik, Dirla tutta sul mercato globale. Idee per un’economia mondiale assennata, Einaudi, 2019

La tesi principale del libro è che gli Stati nazionali hanno ancora un ruolo da giocare specialmente in termini di giustizia sociale, riduzione delle diseguaglianze e protezione dei diritti dei lavoratori. Devo dire che prima di leggere il lavoro di Rodrik ero convinto del contrario specialmente con riguardo alla posizione dei paesi membri dell’Unione europea. Dopo attenta meditazione sulle sue argomentazioni, tendo a convergere con la sua posizione. Il motivo è presto detto: intanto la globalizzazione degli ultimi decenni non è stata ben governata e la finanza rapace ha fatto il bello e il cattivo tempo. La globalizzazione implica una verticalizzazione del processo decisionale che per funzionare bene comporterebbe una riforma delle istituzioni sovranazionali. In assenza di detta riforma non si può contare su di esse per garantire a livello globale il rispetto dei diritti fondamentali, un livello essenziale di giustizia sociale, la libertà di movimento dei cittadini in cerca non solo delle libertà che sono loro negate nei paesi dove sono nati ma anche il diritto a migliorare il loro benessere emigrando.

Si tratta quindi di una soluzione di second best che non va condannata come tale ma di prendere atto che allo stato non è disponibile quella di first best. E chi sa quanto tempo bisogna ancora attendere prima di riuscire a costruirla. Come sappiamo, a livello sovranazionale, non ci sono parlamenti regolarmente eletti. E se ci sono come nell’Unione europea, ciò non significa che hanno l’ultima parola in materia di politiche sociali e redistributive. Ci sono tecnocrazie nominate da alcuni governi che non esprimono necessariamente gli interessi delle fasce più deboli dei paesi membri.  Per le istituzioni sovranazionali si parla di governance e non di organismi pienamente democratici. Nel massimo organo decisionale delle Nazioni Unite il potere è concentrato nel Consiglio di sicurezza composto da cinque membri permanenti e da dieci temporanei. I primi sono designati dalle potenze che hanno vinto la seconda guerra mondiale ed hanno potere di veto sulle azioni da intraprendere. Gli altri sono eletti dall’assemblea generale e restano in carica due anni. I membri dell’assemblea dell’ONU sono rappresentanti degli Stati e non dei popoli.

Per inciso, una breve considerazione sull’Unione europea. Un caso speciale di integrazione economica e monetaria costruita sulla base di due approcci: quello funzionale comunitario e quello intergovernativo. L’obiettivo è quello di diventare una Unione politica. Ha un parlamento regolarmente eletto ma i suoi poteri sono limitati rispetto a quelli di una grande democrazia liberale. La Commissione ha il monopolio dell’iniziativa legislativa ed è, allo stesso tempo, massimo organo esecutivo – in radicale contrasto con il principio della separazione dei poteri.  Di conseguenza la sua struttura istituzionale, come uscita dai Trattati di Lisbona, dopo la bocciatura del Trattato costituzionale, evidenzia un grosso deficit democratico al quale non si riesce a porre rimedio.  L’UE è riuscita ad assicurare ai Paesi membri un lungo periodo di pace ma non riesce a giocare un ruolo primario negli affari internazionali, nel governo della globalizzazione, nelle politiche sociali e redistributive per non parlare delle politiche di stabilizzazione a senso unico.

Come si è ingarbugliata la situazione con l’accelerazione della globalizzazione? Questa è avvenuta sotto l’egemonia della governance neoliberista, ossia, della politica tesa a delimitare l’intervento dello Stato, sull’assunto non dimostrato che i mercati siano perfettamente efficienti ed in grado di risolvere tutti i problemi che incontrano.  Intanto bisogna ricordare: 1) il crollo nell’agosto 1971 del sistema di Bretton Woods a cambi fissi e, nell’impossibilità di raggiungere un nuovo accordo tra i principali paesi del mondo, l’adozione del sistema a cambi flessibili; 2) nel 1976 il premio Nobel per l’economia veniva conferito a Milton Friedman, esponente apicale della Scuola di Chicago, un anno dopo la fine dei c.d. trenta gloriosi (1945-75) che segnano l’affermarsi del welfare State nei Paesi europei e l’inizio dei 40-45 anni vergognosi di egemonia neoliberista in Europa oltre che in America. Le idee neoliberiste trovano attuazione in Inghilterra e negli Stati Uniti rispettivamente con l’ascesa al potere di Margareth Thatcher e Ronald Reagan.  3) Prima ancora, già a partire dalla metà degli anni sessanta, in Europa era nato il c.d. mercato degli eurodollari creato principalmente dai paesi mediorientali produttori  di  petrolio, che è venuto crescendo in maniera incontrollata specie dopo i due shock petroliferi del 1973 e 1979. Il forte aumento non solo del prezzo del petrolio ma anche di altre materie prime ha posto serie difficoltà di stabilizzazione monetaria e finanziaria in molti paesi del mondo. Ricordo che gli Accordi di Bretton Woods prevedevano controlli sui movimenti di capitale in fatto mai implementati in modo efficace. Ma dopo il crollo del 1971, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, la situazione non consente controlli di sorta. La risposta europea del 1992 è quella sbagliata. Nel 1992 l’UE in coerenza con la libertà di stabilimento delle imprese formalizza la piena libertà dei movimenti di capitali che l’Italia mette in atto in anticipo nel 1991. 

Nel 2008 anche i paesi avanzati si accorgono di essere vittime della globalizzazione finanziaria ma solo nel 2012 il FMI, che fino ad allora aveva contribuito a determinare il c.d. Washington Consensus, cambia posizione e chiede di stabilire nuovi controlli sui movimenti di capitale. Come osserva Rodrik con la piena libertà dei movimenti si facilita l’indebitamento, si aumentano più facilmente i consumi che gli investimenti; aumenta la instabilità finanziaria perché molti capitali si muovono liberamente nel mercato globale non necessariamente per promuovere lo sviluppo equo e sostenibile ma anche per cogliere occasioni di profitto a breve termine.  Prevale la veduta corta (shortism). 

Ma ci sono anche due conseguenze principali della globalizzazione: la prima è la concorrenza economica tra le economie avanzate e quelle in via di sviluppo. Detta concorrenza ha dei vantaggi e degli svantaggi. Favorisce i consumatori dei paesi ricchi ma danneggia i lavoratori nei limiti in cui le imprese che producono gli stessi beni importati a prezzi più bassi sono costrette a chiudere e licenziare i loro dipendenti. La seconda conseguenza è la concorrenza fiscale. In un contesto di piena libertà dei movimenti di capitale, molti paesi per attirare investimenti dall’estero abbassano le tasse sui profitti delle imprese e il che va scapito anche della possibilità di finanziare l’attuazione dei diritti sociali ed economici. Anzi è proprio questo l’obiettivo dei neoliberisti: ridurre la spesa per i welfare e l’attuazione dei diritti sociali che è aumentata a loro giudizio, a livelli insostenibili.  

Come sappiamo, due approcci sostengono la teoria del commercio internazionale: il libero scambio basato sui costi e vantaggi comparati a maggiore beneficio di tutti e il mercantilismo, ossia, il controllo da parte del governo del commercio estero per accumulare saldi commerciali positivi e massimizzare la ricchezza dei paesi più efficienti. Schematizzando: I liberisti sostengono i consumatori; i mercantilisti i produttori. Secondo Rodrik, “i liberisti e i mercantilisti possono convivere a livello globale ma la felice coesistenza è finita”.  Ricorda che tuttora il FMI considera il controllo sui liberi movimenti di capitale come “estrema ratio” anche se esso resta una premessa necessaria per la stabilità finanziaria. Anche a questo riguardo Rodrik ricorda la rilevanza dei fattori interni ai singoli paesi (approcci diversi alla regolamentazione) soprattutto per far capire che non tutti i guai vengono dalla globalizzazione. In particolare nei PVS mancano le premesse e i presupposti interni che possono assicurare la stabilità finanziaria interna. In alcuni PVS –come in Italia – ad esempio, non manca il risparmio ma il problema è che i risparmiatori non di rado preferiscono investirli in paesi maggiormente stabili.  

La situazione è complicata dal fatto che molti paesi che agiscono sulla scena mondiale si trovano in fasi di sviluppo differenziate a seconda che affrontino problemi di prima industrializzazione oppure di passaggio da fasi di industrializzazione a quella di economie terziarizzate e/o di servizi avanzati e di istituzioni politiche in grado di gestire questi passaggi.    Secondo Rodrik, in generale – anche in termini politici – puntare sui servizi non paga. Anche in Italia, ad esempio, il settore è molto frammentato e in gran parte arretrato sia nel settore privato che in quello pubblico; pesa ancora il dualismo geografico Nord-Sud, dimensionale (grandi e PM imprese); e non ultimo, quello tra zone urbane e quelle rurali. La crescita più rapida di alcuni PVS è dovuta a processi di prima industrializzazione che consentono di trasformare velocemente contadini in operai mentre passare da servizi arretrati ed inefficienti a servizi ad alta produttività richiede personale altamente qualificato, con vasta gamma di competenze, e capacità istituzionali diversificate e, quindi, formazione permanente.  Esemplare secondo Rodrik il caso indiano.  

Ci sono anche gli squilibri fondamentali nelle bilance commerciali dei diversi paesi. Più vicino a noi c’è il caso Germania che accumula grossi surplus commerciali sacrificando e non espandendo la domanda interna che beneficerebbe anche gli altri Paesi membri. Paradossalmente e per motivi diversi, anche l’Italia gestisce una bilancia commerciale attiva per alcuni punti di PIL perché la stagnazione dell’economia e della domanda interna non attiva una corrispondente domanda di beni importati.

A proposito del caso Cina, che Rodrik riprende diverse volte, a me sembra interessante il confronto tra Cina e Russia: due dittature che hanno seguito percorsi diversi nella transizione da economie a pianificazione rigida ad economie di mercato o sedicenti tali. È interessante la verifica della tesi di alcuni teorici dello sviluppo secondo cui ci sarebbe un rapporto diretto tra liberalizzazione dell’economia e della politica e, quindi, della democrazia. La Russia ha messo in atto una transizione caotica e disordinata disperdendo il più grande patrimonio pubblico della storia. La Cina è riuscita ad assicurare una transizione ordinata a scapito della liberalizzazione politica.  In occasione del quarantennale (1978-2018) delle riforme economiche avviate Deng Xiaoping,  è stato sottolineato come l’economia cinese sia cresciuta, come noto, a tassi sostenuti ma “credere che la democrazia sia lo stadio ultimo e in qualche modo naturale dello sviluppo è stato un errore”. Al contrario Xi Jinping tenta di convincere i suoi concittadini della logica opposta: è perché la Cina non è una democrazia che l’economia ha potuto svilupparsi così in fretta e ha consentito alla stragrande maggioranza dei cinesi di uscire dalla povertà. Ma si contano tuttora circa mezzo miliardo di poveri. Si tratta di uno scambio equo? Spetta ai cinesi dirlo ma non solo a loro perché come sappiamo il mondo non può assistere indifferente alla compressione dei diritti fondamentali civili e sociali ovunque ciò si verifichi.

Tornando ai liberi movimenti di capitale che spesso destabilizzano la situazione di molti paesi, servirebbe un nuovo sistema di controlli ma perché questi possano essere efficaci dovrebbero essere pervasivi e onnicomprensivi piuttosto che chirurgici e selettivi. Ma c’è un’altra complicazione da considerare: diversi paesi adottano sistemi diversi di controllo più o meno complicati e più o meno efficaci e siamo in una fase dell’economia mondiale che rende più difficile un approccio cooperativo. USA e UE hanno problemi di bassa crescita. Non hanno più la forza di dettare le regole. Trump non apprezza il multilateralismo e ripiega sugli accordi bilaterali. La Cina e l’India hanno enormi difficoltà di ricollocazione della manodopera dalle zone rurali a quelle urbane, continuano a crescere ma anche loro enfatizzano problemi di sovranità nazionale.

 Il G20 e la WTO (Organizzazione mondiale del commercio) non sembrano consapevoli di questo radicale cambiamento e della necessità di governarlo. Abbiamo detto dell’approccio del FMI ma a fronte della concorrenza fiscale e degli squilibri fondamentali nelle bilance dei pagamenti servirebbe una Tax Authority come teorizzata da Vito Tanzi e una più decisa attività di coordinamento da parte del FMI.  Sul ruolo di questa istituzione vedi articolo di Barry Eichengreen su il Sole-24 Ore del 30-08-2009 dove riassume le quattro missioni che il FMI dovrebbe perseguire per assicurare crescita sostenibile nella stabilità:

 1) assistere i paesi che per motivi interni entrano in crisi finanziaria;

2) svolgere la funzione di riserva globale utile in particolare ai paesi poveri;

3) assicurare una supervisione macro prudenziale facendo previsioni e lanciando allarmi sui rischi per la stabilità finanziaria globale;

4) mettere in guardia i paesi ricchi dai rischi connessi alle loro politiche nazionali.

Il ruolo guida di supervisore macro prudenziale, di nuovo ed in generale, non è ben visto dai paesi membri restii a cedere sovranità ad un ente multilaterale.

Nel cap. X Rodrik riprende i sette criteri che aveva elaborato nel suo libro La Globalizzazione intelligente del 2011: 1) i mercati devono essere profondamente integrati in sistemi di governance democratica in modo da consentire non solo misure di stabilizzazione finanziaria ma anche sistemi fiscali redistributivi, reti di sicurezza e programmi di previdenza sociale;

2) l’organizzazione della governance democratica”. Mi sembra difficile organizzare una governance democratica se i suoi componenti gli Stati-nazione non sono democratici;

 3) “non esiste ‘una sola via’ per la prosperità”;

 4) “i paesi hanno il diritto di proteggere le proprie regolamentazioni e istituzioni”

5) I paesi non hanno il diritto di imporre ad altri le proprie istituzioni;

6) lo scopo degli accordi economici internazionali è di stabilire norme sui traffici per gestire l’interazione fra istituzioni nazionali;

7) nell’ordine economico internazionale i paesi non democratici non possono contare sugli stessi diritti e privilegi di cui godono le democrazie.

A parte la contraddizione insita nell’accostamento di termini alternativi, una governance democratica mi sembra altamente improbabile ai livelli sovranazionali di cui ci stiamo occupando – del resto confermata dal punto settimo. Infatti è chiaro che beni pubblici globali come la stabilità finanziaria, il commercio internazionale equo, divieto e/o assenza di dumping sociale, riduzione degli squilibri fondamentali e riduzione delle diseguaglianze non possono essere forniti se non c’è un alto grado di cooperazione a livello mondiale. E lo scenario prevedibile non sembra gran che incoraggiante se uno pensa all’abbassamento del livello di cooperazione a livello nazionale per effetto delle politiche populiste e sovraniste che, contrariamente alla propaganda politica, abbassano il livello di coesione sociale.

Più che negli ultimi due capitoli dove Rodrik propone il ripensamento delle sinistre e lo Stato innovatore, il commercio internazionale equo e il ripensamento della democrazia, il cuore del problema e la risposta fondamentale quanto difficile sta alle pp. 230-32 dove Egli propone che i cittadini pensino in maniera globale: “più ognuno di noi penserà a se stesso come un individuo di mentalità cosmopolita e manifesterà al proprio governo preferenze improntate ad essa, meno avremo bisogno di rincorrere la chimera di una governance globale”. È utopia? Si ma necessaria. E non mancano esperienze concrete che elenca nelle pagine citate e altri segnali per cui lo schema potrebbe funzionare. Ne cito uno solo: siamo in una fase di grande trasformazione economica planetaria a cui partecipano non solo le grandi multinazionali ma anche piccole e medie imprese che sempre più numerose si inseriscono nelle c.d. “catene mondiali del valore”. Cresce la interdipendenza economica non solo tra i paesi che scelgono volontariamente processi di crescente integrazione ma anche tra quelli che pensano di rimanere autonomi. Questo processo ha funzionato in Europa e potrebbe funzionare anche a livello globale.    

@enzorus2020

Le idee di Rodrik per un’economia mondiale assennata.

Dani Rodrik, Dirla tutta sul mercato globale. Idee per un’economia mondiale assennata, Einaudi, 2019

La tesi principale del libro è che gli Stati nazionali hanno ancora un ruolo da giocare specialmente in termini di giustizia sociale, riduzione delle diseguaglianze e protezione dei diritti dei lavoratori. Devo dire che prima di leggere il lavoro di Rodrik ero convinto del contrario specialmente con riguardo alla posizione dei paesi membri dell’Unione europea. Dopo attenta meditazione sulle sue argomentazioni, tendo a convergere con la sua posizione. Il motivo è presto detto: intanto la globalizzazione degli ultimi decenni non è stata ben governata e la finanza rapace ha fatto il bello e il cattivo tempo. La globalizzazione implica una verticalizzazione del processo decisionale che per funzionare bene comporterebbe una riforma delle istituzioni sovranazionali. In assenza di detta riforma non si può contare su di esse per garantire a livello globale il rispetto dei diritti fondamentali, un livello essenziale di giustizia sociale, la libertà di movimento dei cittadini in cerca non solo delle libertà che sono loro negate nei paesi dove sono nati ma anche il diritto a migliorare il loro benessere emigrando.

Si tratta quindi di una soluzione di second best che non va condannata come tale ma di prendere atto che allo stato non è disponibile quella di first best. E chi sa quanto tempo bisogna ancora attendere prima di riuscire a costruirla. Come sappiamo, a livello sovranazionale, non ci sono parlamenti regolarmente eletti. E se ci sono come nell’Unione europea, ciò non significa che hanno l’ultima parola in materia di politiche sociali e redistributive. Ci sono tecnocrazie nominate da alcuni governi che non esprimono necessariamente gli interessi delle fasce più deboli dei paesi membri.  Per le istituzioni sovranazionali si parla di governance e non di organismi pienamente democratici. Nel massimo organo decisionale delle Nazioni Unite il potere è concentrato nel Consiglio di sicurezza composto da cinque membri permanenti e da dieci temporanei. I primi sono designati dalle potenze che hanno vinto la seconda guerra mondiale ed hanno potere di veto sulle azioni da intraprendere. Gli altri sono eletti dall’assemblea generale e restano in carica due anni. I membri dell’assemblea dell’ONU sono rappresentanti degli Stati e non dei popoli.

Per inciso, una breve considerazione sull’Unione europea. Un caso speciale di integrazione economica e monetaria costruita sulla base di due approcci: quello funzionale comunitario e quello intergovernativo. L’obiettivo è quello di diventare una Unione politica. Ha un parlamento regolarmente eletto ma i suoi poteri sono limitati rispetto a quelli di una grande democrazia liberale. La Commissione ha il monopolio dell’iniziativa legislativa ed è, allo stesso tempo, massimo organo esecutivo – in radicale contrasto con il principio della separazione dei poteri.  Di conseguenza la sua struttura istituzionale, come uscita dai Trattati di Lisbona, dopo la bocciatura del Trattato costituzionale, evidenzia un grosso deficit democratico al quale non si riesce a porre rimedio.  L’UE è riuscita ad assicurare ai Paesi membri un lungo periodo di pace ma non riesce a giocare un ruolo primario negli affari internazionali, nel governo della globalizzazione, nelle politiche sociali e redistributive per non parlare delle politiche di stabilizzazione a senso unico.

Come si è ingarbugliata la situazione con l’accelerazione della globalizzazione? Questa è avvenuta sotto l’egemonia della governance neoliberista, ossia, della politica tesa a delimitare l’intervento dello Stato, sull’assunto non dimostrato che i mercati siano perfettamente efficienti ed in grado di risolvere tutti i problemi che incontrano.  Intanto bisogna ricordare: 1) il crollo nell’agosto 1971 del sistema di Bretton Woods a cambi fissi e, nell’impossibilità di raggiungere un nuovo accordo tra i principali paesi del mondo, l’adozione del sistema a cambi flessibili; 2) nel 1976 il premio Nobel per l’economia veniva conferito a Milton Friedman, esponente apicale della Scuola di Chicago, un anno dopo la fine dei c.d. trenta gloriosi (1945-75) che segnano l’affermarsi del welfare State nei Paesi europei e l’inizio dei 40-45 anni vergognosi di egemonia neoliberista in Europa oltre che in America. Le idee neoliberiste trovano attuazione in Inghilterra e negli Stati Uniti rispettivamente con l’ascesa al potere di Margareth Thatcher e Ronald Reagan.  3) Prima ancora, già a partire dalla metà degli anni sessanta, in Europa era nato il c.d. mercato degli eurodollari creato principalmente dai paesi mediorientali produttori  di  petrolio, che è venuto crescendo in maniera incontrollata specie dopo i due shock petroliferi del 1973 e 1979. Il forte aumento non solo del prezzo del petrolio ma anche di altre materie prime ha posto serie difficoltà di stabilizzazione monetaria e finanziaria in molti paesi del mondo. Ricordo che gli Accordi di Bretton Woods prevedevano controlli sui movimenti di capitale in fatto mai implementati in modo efficace. Ma dopo il crollo del 1971, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, la situazione non consente controlli di sorta. La risposta europea del 1992 è quella sbagliata. Nel 1992 l’UE in coerenza con la libertà di stabilimento delle imprese formalizza la piena libertà dei movimenti di capitali che l’Italia mette in atto in anticipo nel 1991. 

Nel 2008 anche i paesi avanzati si accorgono di essere vittime della globalizzazione finanziaria ma solo nel 2012 il FMI, che fino ad allora aveva contribuito a determinare il c.d. Washington Consensus, cambia posizione e chiede di stabilire nuovi controlli sui movimenti di capitale. Come osserva Rodrik con la piena libertà dei movimenti si facilita l’indebitamento, si aumentano più facilmente i consumi che gli investimenti; aumenta la instabilità finanziaria perché molti capitali si muovono liberamente nel mercato globale non necessariamente per promuovere lo sviluppo equo e sostenibile ma anche per cogliere occasioni di profitto a breve termine.  Prevale la veduta corta (shortism). 

Ma ci sono anche due conseguenze principali della globalizzazione: la prima è la concorrenza economica tra le economie avanzate e quelle in via di sviluppo. Detta concorrenza ha dei vantaggi e degli svantaggi. Favorisce i consumatori dei paesi ricchi ma danneggia i lavoratori nei limiti in cui le imprese che producono gli stessi beni importati a prezzi più bassi sono costrette a chiudere e licenziare i loro dipendenti. La seconda conseguenza è la concorrenza fiscale. In un contesto di piena libertà dei movimenti di capitale, molti paesi per attirare investimenti dall’estero abbassano le tasse sui profitti delle imprese e il che va scapito anche della possibilità di finanziare l’attuazione dei diritti sociali ed economici. Anzi è proprio questo l’obiettivo dei neoliberisti: ridurre la spesa per i welfare e l’attuazione dei diritti sociali che è aumentata a loro giudizio, a livelli insostenibili.  

Come sappiamo, due approcci sostengono la teoria del commercio internazionale: il libero scambio basato sui costi e vantaggi comparati a maggiore beneficio di tutti e il mercantilismo, ossia, il controllo da parte del governo del commercio estero per accumulare saldi commerciali positivi e massimizzare la ricchezza dei paesi più efficienti. Schematizzando: I liberisti sostengono i consumatori; i mercantilisti i produttori. Secondo Rodrik, “i liberisti e i mercantilisti possono convivere a livello globale ma la felice coesistenza è finita”.  Ricorda che tuttora il FMI considera il controllo sui liberi movimenti di capitale come “estrema ratio” anche se esso resta una premessa necessaria per la stabilità finanziaria. Anche a questo riguardo Rodrik ricorda la rilevanza dei fattori interni ai singoli paesi (approcci diversi alla regolamentazione) soprattutto per far capire che non tutti i guai vengono dalla globalizzazione. In particolare nei PVS mancano le premesse e i presupposti interni che possono assicurare la stabilità finanziaria interna. In alcuni PVS –come in Italia – ad esempio, non manca il risparmio ma il problema è che i risparmiatori non di rado preferiscono investirli in paesi maggiormente stabili.  

La situazione è complicata dal fatto che molti paesi che agiscono sulla scena mondiale si trovano in fasi di sviluppo differenziate a seconda che affrontino problemi di prima industrializzazione oppure di passaggio da fasi di industrializzazione a quella di economie terziarizzate e/o di servizi avanzati e di istituzioni politiche in grado di gestire questi passaggi.    Secondo Rodrik, in generale – anche in termini politici – puntare sui servizi non paga. Anche in Italia, ad esempio, il settore è molto frammentato e in gran parte arretrato sia nel settore privato che in quello pubblico; pesa ancora il dualismo geografico Nord-Sud, dimensionale (grandi e PM imprese); e non ultimo, quello tra zone urbane e quelle rurali. La crescita più rapida di alcuni PVS è dovuta a processi di prima industrializzazione che consentono di trasformare velocemente contadini in operai mentre passare da servizi arretrati ed inefficienti a servizi ad alta produttività richiede personale altamente qualificato, con vasta gamma di competenze, e capacità istituzionali diversificate e, quindi, formazione permanente.  Esemplare secondo Rodrik il caso indiano.  

Ci sono anche gli squilibri fondamentali nelle bilance commerciali dei diversi paesi. Più vicino a noi c’è il caso Germania che accumula grossi surplus commerciali sacrificando e non espandendo la domanda interna che beneficerebbe anche gli altri Paesi membri. Paradossalmente e per motivi diversi, anche l’Italia gestisce una bilancia commerciale attiva per alcuni punti di PIL perché la stagnazione dell’economia e della domanda interna non attiva una corrispondente domanda di beni importati.

A proposito del caso Cina, che Rodrik riprende diverse volte, a me sembra interessante il confronto tra Cina e Russia: due dittature che hanno seguito percorsi diversi nella transizione da economie a pianificazione rigida ad economie di mercato o sedicenti tali. È interessante la verifica della tesi di alcuni teorici dello sviluppo secondo cui ci sarebbe un rapporto diretto tra liberalizzazione dell’economia e della politica e, quindi, della democrazia. La Russia ha messo in atto una transizione caotica e disordinata disperdendo il più grande patrimonio pubblico della storia. La Cina è riuscita ad assicurare una transizione ordinata a scapito della liberalizzazione politica.  In occasione del quarantennale (1978-2018) delle riforme economiche avviate Deng Xiaoping,  è stato sottolineato come l’economia cinese sia cresciuta, come noto, a tassi sostenuti ma “credere che la democrazia sia lo stadio ultimo e in qualche modo naturale dello sviluppo è stato un errore”. Al contrario Xi Jinping tenta di convincere i suoi concittadini della logica opposta: è perché la Cina non è una democrazia che l’economia ha potuto svilupparsi così in fretta e ha consentito alla stragrande maggioranza dei cinesi di uscire dalla povertà. Ma si contano tuttora circa mezzo milioni di poveri. Si tratta di uno scambio equo? Spetta ai cinesi dirlo ma non solo a loro perché come sappiamo il mondo non può assistere indifferente alla compressione dei diritti fondamentali civili e sociali ovunque ciò si veirifichi.

Tornando ai liberi movimenti di capitale che spesso destabilizzano la situazione di molti paesi, servirebbe un nuovo sistema di controlli ma perché questi possano essere efficaci dovrebbero essere pervasivi e onnicomprensivi piuttosto che chirurgici e selettivi. Ma c’è un’altra complicazione da considerare: diversi paesi adottano sistemi diversi di controllo più o meno complicati e più o meno efficaci e siamo in una fase dell’economia mondiale che rende più difficile un approccio cooperativo. USA e UE hanno problemi di bassa crescita. Non hanno più la forza di dettare le regole. Trump non apprezza il multilateralismo e ripiega sugli accordi bilaterali. La Cina e l’India hanno enormi difficoltà di ricollocazione della manodopera dalle zone rurali a quelle urbane, continuano a crescere ma anche loro enfatizzano problemi di sovranità nazionale.

 Il G20 e la WTO (Organizzazione mondiale del commercio) non sembrano consapevoli di questo radicale cambiamento e della necessità di governarlo. Abbiamo detto dell’approccio del FMI ma a fronte della concorrenza fiscale e degli squilibri fondamentali nelle bilance dei pagamenti servirebbe una Tax Authority come teorizzata da Vito Tanzi e una più decisa attività di coordinamento da parte del FMI.  Sul ruolo di questa istituzione vedi articolo di Barry Eichengreen su il Sole-24 Ore del 30-08-2009 dove riassume le quattro missioni che il FMI dovrebbe perseguire per assicurare crescita sostenibile nella stabilità:

 1) assistere i paesi che per motivi interni entrano in crisi finanziaria;

2) svolgere la funzione di riserva globale utile in particolare ai paesi poveri;

3) assicurare una supervisione macro prudenziale facendo previsioni e lanciando allarmi sui rischi per la stabilità finanziaria globale;

4) mettere in guardia i paesi ricchi dai rischi connessi alle loro politiche nazionali.

Il ruolo guida di supervisore macro prudenziale, di nuovo ed in generale, non è ben visto dai paesi membri restii a cedere sovranità ad un ente multilaterale.

Nel cap. X Rodrik riprende i sette criteri che aveva elaborato nel suo libro La Globalizzazione intelligente del 2011: 1) i mercati devono essere profondamente integrati in sistemi di governance democratica in modo da consentire non solo misure di stabilizzazione finanziaria ma anche sistemi fiscali redistributivi, reti di sicurezza e programmi di previdenza sociale;

2) l’organizzazione della governance democratica”. Mi sembra difficile organizzare una governance democratica se i suoi componenti gli Stati-nazione non sono democratici;

 3) “non esiste ‘una sola via’ per la prosperità”;

 4) “i paesi hanno il diritto di proteggere le proprie regolamentazioni e istituzioni”

5) I paesi non hanno il diritto di imporre ad altri le proprie istituzioni;

6) lo scopo degli accordi economici internazionali è di stabilire norme sui traffici per gestire l’interazione fra istituzioni nazionali;

7) nell’ordine economico internazionale i paesi non democratici non possono contare sugli stessi diritti e privilegi di cui godono le democrazie.

A parte la contraddizione insita nell’accostamento di termini alternativi, una governance democratica mi sembra altamente improbabile ai livelli sovranazionali di cui ci stiamo occupando – del resto confermata dal punto settimo. Infatti è chiaro che beni pubblici globali come la stabilità finanziaria, il commercio internazionale equo, divieto e/o assenza di dumping sociale, riduzione degli squilibri fondamentali e riduzione delle diseguaglianze non possono essere forniti se non c’è un alto grado di cooperazione a livello mondiale. E lo scenario prevedibile non sembra gran che incoraggiante se uno pensa all’abbassamento del livello di cooperazione a livello nazionale per effetto delle politiche populiste e sovraniste che, contrariamente alla propaganda politica, abbassano il livello di coesione sociale.

Più che negli ultimi due capitoli dove Rodrik propone il ripensamento delle sinistre e lo Stato innovatore, il commercio internazionale equo e il ripensamento della democrazia, il cuore del problema e la risposta fondamentale quanto difficile sta alle pp. 230-32 dove Egli propone che i cittadini pensino in maniera globale: “più ognuno di noi penserà a se stesso come un individuo di mentalità cosmopolita e manifesterà al proprio governo preferenze improntate ad essa, meno avremo bisogno di rincorrere la chimera di una governance globale”. È utopia? Si ma necessaria. E non mancano esperienze concrete che elenca nelle pagine citate e altri segnali per cui lo schema potrebbe funzionare. Ne cito uno solo: siamo in una fase di grande trasformazione economica planetaria a cui partecipano non solo le grandi multinazionali ma anche piccole e medie imprese che sempre più numerose si inseriscono nelle c.d. “catene mondiali del valore”. Cresce la interdipendenza economica non solo tra i paesi che scelgono volontariamente processi di crescente integrazione ma anche tra quelli che pensano di rimanere autonomi. Questo processo ha funzionato in Europa e potrebbe funzionare anche a livello globale.    

@enzorus2020

De Valoribus Disputandum Est

Laura Pennacchi, De Valoribus Disputandum Est. Sui valori dopo il neoliberismo. Mimesis Edizioni, 2018.

Il libro è una formidabile rassegna della filosofia morale, dell’etica, dell’economia, della sociologia, della psicanalisi, della teoria della giustizia sociale degli ultimi secoli non senza trascurare quella dei Greci e dei Romani. In considerazione degli effetti devastanti prodotti dal neoliberismo negli ultimi quaranta anni in termini di scissione tra mezzi e fini, di razionalità strumentale in un contesto di accelerazione del processo di globalizzazione quello di Laura Pennacchi è un importante tentativo di ricostruire una teoria dei valori. Un contesto che ha messo in discussione la possibilità di conciliare globalizzazione non governata, sovranità nazionale e democrazia secondo il noto trilemma di Dani Rodrik.

Partendo dall’assunto della Scuola di Chicago secondo cui i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato e, quindi, dalla endemica ostilità del neoliberismo nei confronti dell’operatore pubblico, ci si aspetterebbe che l’individuo fosse seriamente valorizzato al massino, invece, il soggetto viene ridotto a homo economicus. Un uomo razionale che massimizza il proprio interesse e, quindi, egoista, migliore giudice di sé stesso che non ha bisogno delle mediazioni di chicchessia. Dagli economisti il soggetto è assunto come individuo rappresentativo che semplifica e fa funzionare i modelli ora computabili di equilibrio economico generale. Apparentemente in contrasto con questo assunto, le forze politiche populiste e sovraniste assumono il popolo come soggetto del loro modello teorico. Sennonché, mentre l’individuo rappresentativo ha qualche risconto concreto con gli individui reali operanti nell’economia e nella società, il popolo rappresentativo è mera realtà virtuale sulla quale appaiono efficaci le semplificazioni ingannevoli ed illusorie propalate dai politici populisti e sovranisti. Esempio chiaro di tale mistificazione il caso recente del nostro governo giallo-verde che accredita la recente legge di bilancio per l’anno 2019 come manovra del popolo costringendo il Parlamento ad approvarla senza che i parlamentari – neanche quelli della maggioranza – avessero la disponibilità del suo testo definitivo.

I motivi della crescita dei movimenti populisti e sovranisti, non solo in Italia ma anche nel mondo, sono diversi e complicati: “Il leaderismo e il personalismo come carica selvatica e divisiva, il ridimensionamento dei corpi intermedi quali i sindacati, lo svuotamento dei partiti come strutture educative….. l’annebbiamento di principi valoriali e di tessuti normativi di matrice universalistica…. Una concezione elementare e famelica dell’esistenza che ricorre alla paura (pp. 24-25).

E fu la paura del comunismo che durante e dopo il biennio rosso (1919-20) determinò l’ascesa del fascismo in Italia. Oggi il comunismo è in quiescenza ma la paura viene alimentata sistematicamente dai governi populisti e sovranisti con una valanga di fake news che identificano il nemico, di volta in volta, nel diverso, nello straniero, nell’immigrato oltre che nel terrorismo internazionale. La Pennacchi cita Timoty Snyder il quale non esita a definire la post verità come prefascismo e l’Italia in materia, purtroppo, vanta un tragico precedente.  Le fake news, contrapponendo a fatti oggettivi emozioni e sentimenti, sono piuttosto efficaci sugli elettori hobbit che ignorano le complessità e le sottigliezze della comunicazione politica in un mondo globalizzato. Il neoliberismo vi contribuisce in termini sostanziali giocando sull’assunto che i fallimenti dello Stato – come detto – sono più di quelli del mercato e, quindi, delegittimano l’operatore pubblico a cui, di conseguenza, vanno sottratti i mezzi per finanziare i suoi interventi diretti e indiretti. I fautori del neoliberismo non si rendono conto che se non puoi fidarti dal privato il quale, per ipotesi, persegue solo il proprio interesse e se non puoi fidarti dell’operatore pubblico il quale spreca risorse con i suoi interventi diretti e commette gravi errori anche nella sua attività di regolazione, si crea un sistema che mina la fiducia reciproca tra i cittadini e lo spirito di cooperazione sempre necessario per creare una comunità e farla funzionare al meglio. Il tutto produce un annebbiamento dei valori che per la verità non è un fatto recente e che alcuni filosofi come Green e Honneth fanno risalire al fallimento del trittico della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità. Dopo il Congresso di Vienna (1815), da parte dei partiti liberali la libertà è stata propalata come libertà individuale (in pratica, dell’individuo più forte), l’uguaglianza in termini formali se nell’ottocento si votava solo per censo e le donne vengono ammesse al voto nel corso del novecento; e la solidarietà resta merce rara specialmente in contesti di area vasta.

Certo è un fatto non revocabile in dubbio che dopo la seconda guerra mondiale abbiamo avuto l’affermazione del welfare state frutto del c.d. compromesso socialdemocratico per cui, in cambio di diritti civili e sociali, le masse lavoratrici accettavano la legittimità del sistema capitalistico e il riconoscimento della proprietà privata come diritto fondamentale alla cui elaborazione aveva contribuito il costituzionalismo moderno. Ma dopo i trenta gloriosi di Tony Judd sono subentrati i quaranta vergognosi dell’egemonia neoliberista frutto anche della cesura dal liberalismo progressista. Basti ricordare che Beveridge autore de Memorandum e poi del Piano per i servizi sociali alla base del welfare britannico era un liberale.

A fronte dell’eclissi valoriale prodotta dal neoliberismo Laura Pennacchi – d’ora in poi LP -propone un’etica relazionale fondata sulla premessa di interdipendenza. Ed è chiaro che come c’è per le persone così tale legame c’è per le comunità, per i popoli in una fase storica di consolidamento dell’economia globalizzata. Sennonché non si consolida solo l’interdipendenza delle economie reali dei vari paesi del mondo ma anche il ruolo egemonico della finanza come dimostrano i dati che LP riporta sulla dinamica della capitalizzazione di borsa rispetto al PIL mondiale. Si evidenzia il primato della finanza rispetto all’economia reale e di questa rispetto alla politica. Il discorso sui valori sociali viene sostituito con quello dei valori di borsa. La politica rinuncia anche alla gestione diretta della fase applicativa della regolazione, l’affida alle autorità amministrative indipendenti che non è in grado di controllare e che, non di rado, vengono “catturate” dai soggetti che dovrebbero controllare. 

LP rigetta la tesi secondo cui il neoliberismo sia impulso alla razionalità ribaltandolo in impulso alla irrazionalità confermando il classico paradigma di Amartya Sen dello “sciocco razionale” come è la scissione tra mezzi e fini, l’eclissi del discorso sui fini, il dogma tatcheriano TINA (there is no alternative). In realtà, le scelte sia per i beni privati che per quelli pubblici devono tener conto non solo dei vincoli di bilancio ma anche delle strategie degli altri attori. “la riflessione etica ha bisogno di una dimensione di spiegazione sociale”. Citando A. Atkinson “le persone sono motivate da differenti visioni degli obiettivi della società”. Economia e mercati non sono sfere “libere” da norme e valori”. Tornando al trittico della rivoluzione francese, Axel Honneth afferma che non basta la libertà individuale, serve la libertà sociale. LP segue la critica del capitalismo come “forma di vita” secondo l’impostazione di Rahel Jaeggi, allieva di Honneth. A fronte della crisi del modello di cultura occidentale, non è una risposta appropriata quella di “rientrare in casa, e rifugiarsi nel ‘privato’” (Rorty). Servono tre tipi di crisi sociale: a) quella funzionale relativa all’instabilità del capitalismo; b) quella morale sotto il profilo della giustizia sociale per combattere le diseguaglianze; c) quella etica sotto il profilo della vita buona. Secondo LP, serve la phronesis aristotelica, non solo l’abilità nello scegliere i mezzi, ma capacità di elaborare i diversi significati dei nostri comportamenti in situazioni distinte”. Completa il discorso con la citazione di Guido Calogero: “è l’etica che fonda la logica”.

I diritti come i beni pubblici che li implementano sono valori; non si producono senza cooperazione; non fioriscono nel deserto; sono costruzioni storiche, giuridiche contestuali alla costruzione della sfera pubblica (Luigi Ferrajoli). Come preferenze, sono quindi discutibili come i gusti. Presuppongono il superamento e il rigetto dello schema Hobbesiano del patto leonino, ossia, della rinuncia ai diritti in cambio della protezione, o uso produttivo della paura. C’è un collegamento tra crisi mondiale e crisi dei valori? Secondo me, non c’è nesso diretto e immeditato di causa ed effetto perché in Europa la crisi dei valori risale alla seconda metà degli anni 70 e agli inizi degli anni ’80 con l’arrivo al potere della Signora Thatcher in Inghilterra e di Ronald Reagan negli USA. È collegata al “suicidio” della sinistra che ha fatto propri i paradigmi del neoliberismo, i progetti di riforma costituzionale ridotti a riforma elettorale anche in paesi a bassa coesione sociale e legittimare il decisionismo e/o un uomo solo al comando che gestisce da solo un rapporto di agenzia direttamente con il popolo e deistituzionalizza e spoliticizza anche la società civile. A fronte dell’accentuarsi della concorrenza economica e fiscale indotta alla globalizzazione non governata, il lavoro viene ridotto a merce. Nel contesto europeo e in particolare della zona euro caratterizzata da forti squilibri economici e sociali, la crisi produce due recessioni molto gravi che seminano paura ed incertezza soprattutto circa il futuro delle regioni periferiche. Se a questo si aggiungono gli effetti della digitalizzazione dell’economia e dell’utilizzo della intelligenza artificiale nelle nuove catene internazionali del valore le prospettive del lavoro non sono incoraggianti se non proprio disperate. Servono grandi investimenti pubblici e privati, servono investimenti enormi nel capitale umano. Servono nuove regole fiscali e redistributive del valore aggiunto creato anche dai robot. Serve non la riduzione del perimetro dell’intervento dello Stato ma la sua più adeguata espansione. E qui insiste la contraddizione che, secondo me, non consente una ulteriore espansione dei movimenti populisti e sovranisti e un ulteriore sopravvivenza del neoliberismo specialmente in Europa. Non a caso la tesi di LP è quella che ci sono capitalismi diversi e che essi vanno opportunamente riformati se vogliono sopravvivere e che in Europa occorre mettere in moto un nuovo processo costituente, un vero e proprio governo politico ed economico con i mezzi necessari per perseguire con determinazione politiche di pieno impiego del lavoro e della capacità produtttiva che ridurrebbe il bisogno di assistenza. Saranno i politici europei che usciranno dalle elezioni del maggio prossimo in grado di perseguire questi obiettivi?

@enzorus2020       

La politica commerciale comune e la Cina

Secondo l’art. 3 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE):  “1. L’Unione ha competenza esclusiva nei seguenti settori: a) unione doganale; b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; c) politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro; d) conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; e) politica commerciale comune. 2. L’Unione ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata”.

Come si evince chiaramente dal combinato disposto del comma 1 lett. e) e del comma 2 dell’art. 3 del TFUE non è revocabile in dubbio che la competenza nello stipulare un accordo commerciale rientra nelle competenze esclusive dell’Unione europea come, in primo luogo, l’Unione doganale. È chiaro che la prima implica l’esistenza e il coordinamento della seconda con la prima. E allora come si giustifica, almeno fin qui, l’acquiescenza della Commissione e del Consiglio all’iniziativa italiana sul Memorandum di intenti.  In parte, si giustifica con la natura stessa del documento che enuncia propositi; in parte con la debolezza dell’Unione in questa fase politica e, non ultimo, con la prassi discutibile per cui quando si registra un dissenso dei Paesi membri (d’ora in poi PM) su come gestire alcune politiche comuni si rinvia la soluzione del problema. Nel frattempo, i PM più forti agiscono autonomamente come hanno fatto in questa materia Francia e Germania. L’esempio emblematico è quello della politica estera. Nonostante che la presenza dell’alto rappresentante, i PM più importanti conducono una politica estera autonoma. Analogamente nella politica commerciale. Francia, Germania, la Grecia, l’Ungheria hanno sottoscritto accordi con la Cina. Quindi niente di nuovo sotto il sole.

In teoria gli accordi commerciali possono essere esaminati da due punti di vista contrastanti: il primo è quello classico dei vantaggi comparati per cui il libero scambio di merci e servizi avvantaggia tutti quando i paesi che vi partecipano sono specializzati in diversi settori di beni scambiabili. L’altro punto di vista è quello mercantilista per cui le esportazioni vanno bene perché conservano posti di lavoro, consentono di accumulare risorse valutarie per pagare le importazioni. Ma se l’accumulazione supera certi limiti come in Germania e in Cina si determinano c.d. squilibri globali per cui la domanda effettiva dei diversi paesi che si scambiano beni e servizi risulta inferiore a quella che consentirebbe un maggiore sviluppo dell’economia internazionale.

Anche il primo schema non funziona bene nel contesto della globalizzazione dove la situazione dei paesi è molto diversificata e, come nella realtà, alcuni di essi non sono particolarmente specializzati in prodotti scambiabili. E non basta, la competitività dei diversi paesi dipende anche dai sistemi sociali (diverso sviluppo dei diritti civili e sociali), dalle caratteristiche dei mercati e dalla gestione libera o guidata della loro politica commerciale. Nel criticare a caldo il memorandum firmato da Di Maio, non casualmente, Salvini ha ricordato che in Cina non c’è un libero mercato. 

Come ci ricorda D. Rodrik nel suo ultimo libro: “Dirla tutta sul mercato globale”, Einaudi, 2019 quando nel 2001 la Cina firmò l’accordo per entrare nella Organizzazione mondiale del Commercio assunse l’impegno di trasformare la sua economia in una di mercato nel giro di 15 anni. Tale promessa non è stata mantenuta. Argentina, Brasile, Cile e Corea del Sud le hanno riconosciuto comunque tale status. Ora segue l’Italia l’ultimo (o primo) paese del G7 in forte declino. Nel memorandum il tema è preso di striscio quando si afferma che: “Le Parti seguiranno principi di mercato, promuoveranno la collaborazione tra capitale pubblico e privato, incoraggeranno gli investimenti e il sostegno finanziario attraverso modelli diversificati”.  Nessuna menzione invece del delicatissimo problema del dumping sociale, alias, del rispetto dei diritti civili e sociali in Cina. Lo ha fatto il Presidente Mattarella nel suo discorso al Quirinale alla presenza di Xi Jinping.

Apparentemente con la firma del Memorandum l’Italia rientra nel grande e criticabile gioco degli accordi commerciali dopo che gli Stati Uniti di Trump hanno scelto la via difficile degli accordi bilaterali. Ma il fatto che, dopo Roma, il Presidente cinese vada a Parigi a parlare con Macron, la Merkel e il Presidente della Commissione Juncker ridimensiona la portata propagandistica dell’accordo firmato a Roma. Credo che Francia e Germania faranno capire meglio a Xi Jinping chi comanda in Europa. L’Italia è del tutto isolata e il governo giallo-verde lo ha fatto di sua iniziativa; Francia e Germania sono i PM che, a torto o a ragione, guidano il carro europeo. Tutti e tre i Paesi gestiscono un deficit commerciale con la Cina ma nel Memorandum non trovo indicazioni su come la situazione potrebbe essere riequilibrata.

Le trattative sul Memorandum sono state condotte in regime di segretezza e, quindi, era difficile fare delle valutazioni circostanziate senza il testo dell’accordo. Nei contenuti il documento non è altro che un documento di buone intenzioni, “salvo intese”, come ormai ci ha abituati il governo giallo-verde. Prima o poi verranno fuori i contenuti e, allora, vedremo cosa succederà.

@enzorus2020

A proposito di bail-in e/o di salvataggi bancari necessitati.

Al ministro Tria non piace il bail-in a suo tempo (2014) “imposto” dalla Germania. Il bail-in è la nuova regola per cui azionisti e titolari di obbligazioni strutturate partecipano pro-quota alle perdite di banche inefficienti e/o in fase di liquidazione amministrativa perché gestite male. Tria ha sostenuto che nel 2014 il Ministro Saccomanni sarebbe stato “ricattato” dal collega tedesco Schauble che minacciava di rivelare lo stato precario del sistema bancario italiano.   Subito dopo temendo reazioni da parte tedesca – Schauble è ora presidente del Camera dei deputati – Tria ha addolcito la sua affermazione. Nei giorni successivi il ministro Saccomanni ha detto che quando lui è arrivato a Bruxelles la decisione era già maturata perché la discussione dell’idea del bail-in era iniziata a partire dal 2011 e, quindi, lui non poteva fermare un processo decisionale che andava avanti da circa tre anni. Sono questi i tempi medi di una decisione complessa a Bruxelles calcolati dall’allora presidente del Parlamento europeo Martin Schulz nel suo libro Il gigante incatenato. Quindi ha ragione Saccomanni: non c’è stato alcun ricatto al ministro pro-tempore.  

In fatto, la norma non è stata applicata, anzi si è fatto il contrario anche perché la stessa Germania ha problemi analoghi con le banche locali. Per capire bene la vicenda bisogna fare due passi indietro e chiarire il contesto che ne ha determinato la necessità. Il primo va alla riforma del 1993 (vedi TU n. 385) che reintroduce il modello della banca universale abrogato con la riforma del 1936. La banca torna a fare tutto e di più. Eroga il credito ordinario, concede mutui, acquista partecipazioni in imprese, fa speculazioni finanziarie azzardate, non cerca di recuperare le sofferenze sui prestiti concessi ad amici e sodali dei dirigenti.  Nella imperante logica neo-liberista le banche sono considerate imprese come le altre. Possono fare tutto quello che vogliono e se sono grandi “non possono fallire” perché ancora peggiori sarebbero i danni per l’economia reale.  In questa linea, il fallimento della banca Lehman Brothers del 15 settembre 2008 alcuni anni dopo veniva considerato come un errore che bisognava evitare.

Dopo la improvvida ed inopportuna affermazione del ministro Tria nella sua audizione davanti alla 6° Commissione finanze e Tesoro del Senato del 27 febbraio scorso si scatena un coro di dichiarazioni e consensi a favore della tesi contraria all’attuazione del bail-in e, quindi, favorevole ai salvataggi bancari senza se e senza ma. In prima linea, si schiera ovviamente il Presidente della Associazione bancaria italiana Antonio Patuelli per ragioni di Ufficio ma quello che sorprende è che anche alcuni esponenti della Banca d’Italia hanno fatto dichiarazioni convergenti. Non si è apertamente pronunciato il Governatore Visco ma sappiamo che anche la storia bancaria del secondo dopoguerra è costellata di crisi di singole banche sempre salvate dalla Banca d’Italia in nome della stabilità del sistema invero inefficiente e arretrato. Come hanno dimostrato degli studi dell’Ente Einaudi a suo tempo coordinati coordinati da Tommaso Padoa Schioppa  il sistema banco-centrico italiano è uno dei più arretrati di Europa e, non di rado, pratica l’usura. Da ultimo si è creato un legame diabolico per cui le banche sottoscrivono titoli dello Stato – ne hanno in portafoglio diverse centinaia di miliardi – e riscuotono cedole relativamente basse, non remunerano i depositi dei risparmiatori, si sono trasformate in agenzie immobiliari, vendono polizze assicurative a tariffe esose, non erogano fidi a imprese con scarsa liquidità.  L’intreccio è diabolico perché una crisi del sistema bancario potrebbe mettere a repentaglio la gestione del debito pubblico attraverso la vendita obbligata dei titoli del debito pubblico nei loro portafogli e, viceversa un attacco speculativo diretto al debito pubblico italiano finirebbe con lo svalutare anche i titoli in possesso delle banche.   A livello internazionale ed europeo, sono state avanzate proposte mirate a sciogliere il legame diabolico ma in Italia dette proposte sono state respinte senza un vero dibattito pubblico.

La mia tesi di base è che sia la riforma del 1993 che tutti i salvataggi fatti successivamente – emblematico il caso del Monte dei Paschi di Siena – sono contrari allo spirito e alla lettera dell’art. 47 comma 1 della Costituzione il quale dice che: “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. L’indagine parlamentare svolta nella precedente legislatura ha messo in evidenza come nel controllo dell’esercizio del credito delle altre attività delle banche non c’è stato coordinamento adeguato tra Banca d’Italia e la Consob – quest’ultima per la parte relativa all’emissione di titoli da parte delle controllate perché quotate in borsa. Poi c’è la concentrazione in testa all’autorità europea di vigilanza sulle grandi banche c.d. sistemiche. Il discorso sarebbe lungo e complicato ma la sostanza è la tutela del risparmio “in tutte le sue forme”, secondo me, non può essere invocata solo a fronte di gestioni sgangherate di banche locali piccole e medie, di nomine di dirigenti senza le qualifiche necessarie, ecc.. La vera tutela dei risparmiatori si fa in chiave preventiva.  Le funzioni di cui parla il primo comma dell’art. 47 Cost. sono eminentemente pubbliche e le autorità indipendenti chiamate ad esercitarle dovrebbero evitare di farsi catturare dai controllati. Le banche piccole o grandi non sono imprese come le altre e l’idea maturata a livello europeo di coinvolgere la responsabilità di azionisti ed obbligazionisti poco attenti nell’impiego dei propri risparmi ha un suo fondamento logico. Il punto di domanda, la questione che non viene discusso e approfondito è che il fatto che le banche vengano considerate imprese come le altre, secondo me, non fa venire meno la funzione pubblica e di preminente interesse generale che esse svolgono e, quindi, la necessità di una vigilanza rigorosa ai vari livelli e secondo le diverse competenze.   Il governo e la Banca d’Italia sostengono anche programmi di educazione finanziaria – in Italia a livelli troppo bassi. Va bene ma il loro compito principale è quello di rendere più efficienti ed efficaci il sistema dei controlli. Di nuovo, qualche barlume di speranza oggi viene dall’Europa. Politici ed opinione pubblica indipendenti dovrebbero schierarsi a difesa del bail-in.

@enzorus2020      

Il socialismo italiano come partito della democrazia.

Paolo Bagnoli, Il partito della democrazia. Per una riflessione critico-storica sul Partito socialista italiano, Biblion Edizioni, Milano, Aprile 2018.

La scomparsa del PSI, secondo opinioni diverse,sarebbe dovuta alla deriva e/o alla sua mutazione genetica, agli scandali, al fallimento e/o alla rinuncia alla grande riforma e/o sua riduzione a problema di sistema elettorale, all’implosione della DC e del PSI, da un lato, e all’esplosione della crisi della finanza pubblica, della lira, al governo Amato, a quello tecnico di Ciampi, dall’altro lato. Io aggiungo l’attacco allo Stato da parte della mafia; l’attentato e le stragi attorno all’uccisione di Falcone e Borsellino maggio e luglio 1992, la strage di Via dei Georgofili a Firenze maggio 1993 che evidenziano una crisi profonda non solo dei partiti ma anche dello Stato. La mia idea è che la risposta alla crisi viene erroneamente semplificata in termini di richiesta di sistemi elettorali di tipo maggioritario come se la questione potesse essere risolta solo con la stabilità delle scadenti classi dirigenti, di volta in volta, scelte ai vari livelli di governo – vedi vicende del referendum del 1991 sulle leggi elettorali. Arriva quindi la legge elettorale n.81/1993 per l’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti delle Province e dei relativi consigli; secondo me, essa aveva un senso solo per i comuni piccoli ma non per quelli grossi e, meno che mai, per le grandi città; e, come se non bastasse, negli anni ’90, si abrogano i controlli preventivi sui livelli sub-centrali di governo che, a giudizio di quelle dirigenze, insieme alle frequenti crisi, erano alla base del basso livello di governabilità nei Comuni, nelle Province e nelle Regioni. Si trattò di risposta sbagliata perché se rispetto ad una classe dirigente – non di rado incapace e corrotta – rispondi con l’abrogazione dei controlli in vista di un nuovo assetto dei medesimi da instaurare con l’attuazione del federalismo esecutivo (amministrativo) che cosa ti puoi aspettare?

Nei primi anni ’90, un po’ per virtù un po’ per necessità, avviene anche una ridefinizione del ruolo dei sindacati prima con il governo Amato poi con quello tecnico di Ciampi. Governo e sindacati firmano nel 1993 un protocollo importante in cui finalmente i secondi accettano la politica dei redditi ma non si impegnano a chiedere l’attuazione della seconda parte sul controllo degli investimenti e poi “subiscono”, a loro dire, la riforma previdenziale Dini. Si prende atto finalmente che c’era un problema grave non solo del debito del Tesoro ma anche degli Enti previdenziali- come evidenziava l’alto livello dello spread a fine anni ’80 e primi anni ’90. 

Tra il 1989 e il 1993 dopo il crollo del Muro di Berlino, avviene l’implosione dell’Unione sovietica, l’emersione della Cina come grande potenza commerciale; ed ovviamente la fine della Guerra fredda. Sul piano interno implode il sistema dei partiti che aveva governato, in un modo o nell’altro, nei 20-30 anni precedenti; nello stesso periodo, si aggiunge l’attacco efferato della mafia allo Stato; mentre dilaga la corruzione.

Anche se Berlusconi e la Lega governarono solo per l’Estate-Autunno 1994, il potere mediatico del primo porta avanti la sua campagna di delegittimazione della magistratura e dello Stato elevando a sistema l’intreccio tra affari e politica e il conflitto di interessi.

L’implosione dell’URSS sancisce secondo politologi occidentali il fallimento dei sistemi di pianificazione economica rigida di stampo sovietico; spiana la strada al trionfo pieno del neoliberismo proteso a ridimensionare il perimetro dello Stato.

Il governo D’Alema porta a compimento la politica di smantellamento del sistema delle partecipazioni statali e di privatizzazioni dopo che nel 1991 si era adottata la piena libertà dei movimenti di capitale; e pochi anni dopo si era fermata all’interno della Unione la politica di armonizzazione fiscale e si dava via libera alla concorrenza fiscale.

Si pone fine alla concertazione con i sindacati o almeno con alcuni di essi; i sindacati confederali tornano a muoversi separatamente dopo la mega manifestazione (2-3 milioni di partecipanti, secondo notizie di stampa) della CGIL al Circo Massimo (23-03-2002) in cui Cofferati si dichiarava contrario ad ogni modifica allo Statuto dei lavoratori. Questo avveniva solo 4 giorni dopo l’uccisione di Marco Biagi, giuslavorista che teorizzava la moltiplicazione dei contratti per cogliere le nuove fattispecie.

I forti cambiamenti nella società, nell’economia e nella politica, il trionfo del neoliberismo ripropongono con forza il problema dei rapporti tra partiti e democrazia.

Partiamo dalle costanti storiche: lo sviluppo democratico a livello locale tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo viene fermato dalla I guerra mondiale e dall’avvento del fascismo. Come osserva Paolo Bagnoli nella sua Monografia anche la rivoluzione democratica proposta dal Partito d’azione alla fine della II Guerra mondiale viene fermata dall’ingresso nell’Alleanza Atlantica e da quella che Calamandrei, sul piano interno, ha chiamato la desistenza e, per circa 40 anni, dalla Guerra Fredda che non consentiva l’alternanza al governo delle principali forze politiche per via della presenza del PCI – il più forte partito comunista dell’Occidente europeo.  

Pesa molto sullo sviluppo della democrazia italiana non solo il vincolo esterno ma anche la divisione interna tra le forze politiche di sinistra specialmente dopo la scissione di Livorno del 21 gennaio 1921. Il problema dell’Italia è sempre stato quello di farsi nazione oltre che organizzazione statuale – peraltro sempre scarsamente efficiente. Trasformare la massa in soggetto politico coeso e consapevole; in qualche modo, il problema è ancora oggi quello di sempre: “fare gli italiani” – come aveva già avvertito Massimo D’Azeglio all’indomani dell’unità territoriale – di sentirsi comunità, di condividere  un nucleo essenziale di valori fondamentali come quello della democrazia, uguaglianza e giustizia sociale; in questi termini, la storia e la cultura socialista  sono portatori di un patrimonio ideale che non va disperso ma anzi valorizzato come è stato fatto in gran parte nell’elaborazione della Carta costituzionale del 1948 che resta in parte non secondaria ancora un programma da attuare – ora in armonia con il quadro europeo che si è venuto costruendo lentamente negli ultimi 70 anni. Nonostante che la solidarietà sia inserita all’art. 2 della Costituzione, l’Italia rimane un paese a livello molto basso di coesione sociale.

Ma seguiamo Bagnoli che parte dalle fondamenta trovandole nel programma minimo socialista di Turati 1895. In realtà questo trova le sue radici nel Congresso della SPD di Erfurt Ottobre 1891 che, in fatto, aveva elaborato due programmi: uno massimalista attestato sulla rivoluzione marxista di Karl Kaustsky e il secondo appunto programma minimo riformista moderato (in 15 punti) come elaborato da Eduard Bernstein sulla linea di Ferdinand Lassalle, uomo politico e filosofo tedesco che aveva partecipato ai moti del 1848 e successivamente contribuì allo studio dell’economia e dell’organizzazione del movimento operaio tedesco. Qui mi basta ricordare: il suffragio universale; la libertà d’espressione e di associazione; la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore; l’assistenza sanitaria; la scuola pubblica gratuita; la parità uomo-donna; la sostituzione delle imposte indirette con quelle dirette, leggi a favore dei lavoratori, ecc. 

Le sue linee ispiratrici sono: gradualità e connessione (che oggi definiremmo approccio globale), riformismo e programmazione; in sintesi, fermezza delle idealità e concretezza programmatica per attuare l’uguaglianza.

Bagnoli spiega perché il PSI è partito della democrazia. In sintesi perché è un partito socialista e delle libertà.

La più plastica rappresentazione dell’evoluzione del problema della democrazia è quella dei quadri dipinti da Pelizza da Volpedo il quale nel 1895 dipinge gli Ambasciatori della fame; nel 1898 la Fiumana e nel 1901 il Quarto Stato. Nel 1907 Pelizza purtroppo si suicida.

Nel 1922 la democrazia veniva suicidata dalla Monarchia e dal Partito nazional fascista.

Rispetto a 100-120 anni fa sono cambiate: la società, l’economia del Paese, la condizione dei lavoratori, la classe dirigente ma restano molti problemi con la partecipazione, con l’ignoranza degli affari politici –oggi vieppiù complicati– che, oggi come ieri, portano al potere movimenti senza storia e senza cultura.

In qualche modo vedo un’analogia con gli eventi degli ultimi 30-35 anni. In Europa, a fronte dell’avanzata del neoliberismo e del populismo anche di centro-sinistra, la sinistra europea non ha saputo rinnovarsi sul serio e proporre alternative intelligenti alle ricette semplificatrici neoliberiste, al leaderismo e alla personalizzazione della politica che, alla fine, ha provocato la scomparsa dei partiti strutturati del passato.

Leggendo le dense pagine (38-39-40) che parlano di socialismo liberale, di liberalismo come filosofia della libertà, di collocazione del socialismo nel “solco di una integrale vocazione democratica” ossia “di una democrazia che è fattore di sviluppo della democrazia medesima…in relazione alle condizioni sociali che devono essere regolate dal principio di giustizia….tramite le lotte e la costituzione di soggetti – partito, sindacato, movimento cooperativo – che mirino a conquiste strutturali progressive che nell’allargamento delle libertà, solidifichino la democrazia stessa in un contesto di giustizia sociale…..” e ancora le pagine 

43-44-45 dove Bagnoli riprende le critiche di Carlo Rosselli a Turati vedo i segni del parallelismo con la più recente analisi di Axel Honneth – succeduto a Habermas alla direzione della Scuola di Francoforte. Il filosofo Honneth, Socialismo. Un sogno necessario, Feltrinelli, 2016, spiega le ragioni del fallimento storico della rivoluzione francese ed in particolare della libertà intesa come libertà individuale come l’hanno interpretato i pensatori e partiti liberali del novecento. Honneth contrappone l’idea della libertà sociale, piena e consapevole delle masse diseredate senza la quale non c’è vera democrazia. È qui la differenza sostanziale tra un sistema liberaldemocratico ed uno socialdemocratico perché la democrazia più avanzata o è sociale o non è compiuta.

La riprova di questa affermazione, secondo me, trova conferma nella frase di p. 45-46 dove Bagnoli sintetizza il pensiero di Rosselli: “libero progresso di riforma e trasformazione sociale che, liberando su tutti i piani il popolo nella giustizia e nella democrazia, non si siede, in qualche modo, su di esso, ma afferma la moralità di una ideologia – ossia di una visione del mondo – altrettanto libera e giusta”.

Lo ripeto, a me sembra di vedere un notevole parallelismo tra la elaborazione dottrinaria della SPD e quella del PSI eppure le due forze politiche non hanno mai cercato una convergenza operativa, secondo me, per via della presenza dell’ala massimalista al loro interno che supereranno a fine anni ’50 del secolo scorso la prima con il Congresso di Godesberg 1959 e il secondo con la scissione dei c.d. carristi del gennaio 1964.

Oggi incombe la crisi dei partiti socialisti europei: in Germania la SPD non gode di ottima salute; in Francia il partito socialista attraversa una profonda crisi    e in Italia c’è rimasto un isolato portabandiera.

I partiti socialisti della UE sono condannati alle larghe intese con partiti centristi e/o di centro-destra e, quindi, hanno e avranno difficoltà a portare avanti programmi con contenuti significativamente socialisti; quindi logoramento e arretramento elettorale.

I partiti socialisti, chi più e chi meno, si sono lasciati ammaliare e poi travolgere dal neoliberismo a partire dalla metà degli anni ’80; hanno accolto il paradigma secondo cui tutto si riconduce al singolo individuo razionale in quanto economicisticamente massimizza il proprio interesse ed è il migliore giudice di se stesso; un tale individuo non ha bisogno di mediazioni né dei partiti né di altri corpi intermedi……

Mentre il socialismo teorizza e pratica o meglio dovrebbe praticare il “progressivo allargamento delle libertà attuato nella libertà quale processo di liberazione dell’umanità”. 

A pag. 56 Bagnoli torna su una impostazione uguale o simile a quella di Honneth ma rispettando l’approccio storiografico la intesta a Bernstein: “diritti e doveri degli uomini verso la società e di questa verso di loro”.

Nelle ultime pagine della sua bella monografia Bagnoli passa alle proposte: costruire un blocco sociale per una società governata dal principio di giustizia (sociale)ossia una esigenza etica che risponde appunto, a quella generale di società nel suo insieme…… rifondare una politica democratica nella sua irrinunciabile base etica.

In questi termini è chiaro che la monografia di Bagnoli non è solo storia del PSI, della democrazia in Italia ma anche della democrazia in Europa e nel mondo. Qual è il problema da risolvere?

L’ostacolo difficile da superare è che gli attuali partiti non hanno e non condividono una teoria della giustizia sociale, lottano per il potere in un contesto globale caratterizzato dalla doppia concorrenza economica e fiscale con paradisi fiscali fuori e dentro l’UE dove l’economia e, soprattutto, la finanza rapace dettano le regole e la politica gioca un ruolo subalterno. In un contesto locale (Italia) in cui ci sono: corruzione e illegalità diffuse, forte presenza della criminalità organizzata, Stato criminogeno (Giulio Tremonti, Laterza, 1997), familismo amorale, la partita è ardua se non impossibile. Se questa è la situazione, è difficile intravvedere una comunità di valori, di sentimenti, di solidarietà in un contesto allargato in cui prevalgono gli interessi egoistici individuali. I socialisti utopisti avevano presenti e teorizzavano comunità e spazi più limitati anche se propugnavano un credo internazionalista.

Oggi, invece, il discorso della mondializzazione è accettato supinamente ed acriticamente dai leader delle grandi potenze e se reagiscono lo fanno solo per trarne profitto. Qui occorre distinguere i problemi della globalizzazione che guida un processo mai visto di integrazione economica a livello planetario e quello della finanziarizzazione che riducono i governi dei Paesi piccoli e medi a comparse e/o agenti della finanza rapace di Wall Street. Ma non tutto è perduto se è vero come è vero che negli Stati Uniti si parla di socialismo e in Inghilterra Corbin sta promuovendo la rinascita del Partito laburista Vedi rispettivamente intervista di Alessandra Lorini a Eric Foner e intervento di Jonathan White e Lea Ypi.  

Il processo della globalizzazione, se governato bene, porta alla moltiplicazione delle interdipendenze economiche che sono l’antidoto alle guerre come dimostra la straordinaria esperienza dell’Unione Europea.

La seconda va governata ancora più rigorosamente e determinatamente anche nella fase applicativa.

Qui di nuovo abbiamo tre ordini di problemi:

  1. L’assetto istituzionale internazionale è del tutto inadeguato a governare sul serio suddetti fenomeni;
  2. I G7, G8, G20 ed altri organismi formali ed informali che “fingono di governare il mondo” non funzionano nell’interesse generale dei popoli.
  3. Prevalgono in fatto regole neoliberiste che lasciano troppo spazio libero ai mercati nell’assunto non dimostrato che questi siano perfettamente efficienti;

Concorrenza e paradisi fiscali, guerre commerciali, neoliberismo, populismi e sovranismi di destra sono all’attacco della democrazia che arretra nel mondo. 

La dimensione sociale, il rispetto e l’attuazione dei diritti fondamentali arretrano dappertutto anche nelle democrazie c.d. avanzate travolti dalle logiche del potere e dalle esigenze della politica economica nazionale ed internazionale. Quindi non è solo questione di scarsa solidarietà o fraternitè – un’altra componente del trittico della Rivoluzione francese. Se a livello dell’ONU due terzi dei paesi membri sono dittature più o meno soft, se il processo decisionale del Consiglio di sicurezza prevede il potere di veto, alias, la dittatura della minoranza, se le regole del mercato sono quelle viste sopra, è chiaro che a livello internazionale allargato la solidarietà non funziona come del resto non funziona all’interno di paesi medi e piccoli a bassa coesione sociale. Se il soggetto, vero o presunto, è l’homo economicus che massimizza il proprio interesse individuale, egli è egoista e l’egoismo è intrinsecamente in contrasto con la solidarietà. Come dice Honneth, l’individuo rappresentativo oggi al meglio si comporta come “l’uno con l’altro” ma non secondo il modello solidale “l’uno per l’altro”.

In buona sostanza, è questione di interesse comune, di reciprocità, di cooperazione, di valore aggiunto comune a livello globale che non viene riconosciuto e percepito correttamente dalle classi dirigenti e nemmeno dagli stessi cittadini-elettori.

C’è un ingente problema del lavoro e del suo futuro, della robotizzazione, dell’intelligenza artificiale, di nuove regole distributive, ecc.

Ci sono riflessioni di scienziati sociali, studiosi e organizzazioni internazionali, think thank, ecc..

Ci sono state le occupazioni di Zuccotti Park a NYC del movimento “siamo il 99%” ma l’argomento non entra nell’agenda politica dei Paesi grandi né di quelli piccoli e medi. L’inerzia giova ai governanti in carica. E l’inerzia aumenta se il cittadino viene ridotto a mero consumatore seduto davanti alla TV, al Tablet, al cellulare, frastornato dalla pubblicità ingannevole, dalle fake news che spesso non riconosce come tali. Non deve pensare autonomamente e/o criticamente, deve solo soddisfare i suoi bisogni materiali più immediati di consumatore o bere la cicuta.

L’economia e soprattutto la finanza esercitano la loro egemonia sulla politica. Ma è compito dei politici avveduti e della cittadinanza attiva contrastarla.

Nel passato è stato fatto e si può fare di nuovo.

Enzorus2020@gmail.com

A che serve il nuovo Trattato franco-tedesco?

 La Francia e la Germania hanno firmato ieri un nuovo Trattato di cooperazione tra di loro per concordare linee di più stretta intesa sulle questioni di maggiore integrazione europea. Il Trattato di Aquisgrana rinnova quello dell’Eliseo di 56 anni fa. Ma oggi non si capisce che senso abbia un Trattato del genere all’interno di una Unione. O questa parola ha un preciso significato e ce l’ha se uno pensa all’Unione economica e monetaria, alla stretta sorveglianza delle politiche economiche e finanziarie o è una parola vuota. E’ vero che oltre al metodo comunitario negli ultimi decenni è stato utilizzato sempre più frequentemente il metodo intergovernativo ma il ricorso a quest’ultimo è stato motivato dal fatto che i paesi leader non si fidavano della pronta attuazione delle decisioni europee da parte di alcuni paesi. Bisogna pensare che in prospettiva neanche la Francia e la Germania si fidano di loro stesse? Se poi lo scopo fondamentale del Trattato è quello di dare solennità all’impegno di periodiche consultazioni preventive, che bisogno c’è di ricorrere allo strumento del Trattato? Non è che negli Stati Uniti la California e il New Jersey ricorrono ad un Trattato per consultarsi ed esprimere un parere concordato nella Conferenza dei governatori? O forse dobbiamo assumere che nonostante i progressi fatti in chiave di maggiore integrazione europea dobbiamo ritenere che siamo ancora gli Stati Disuniti d’Europa? Neanche in quest’ultimo scenario hanno senso gli insulsi e masochistici attacchi alla Francia da parte dei due Vice-presidenti del Consiglio Di Maio e Salvini.

Pubblico volentieri l’articolo di Livio Zanotti sulle elezioni americane

L’ODIO NON HA VINTO,RESTA L’ESTRANEITÀ

Cos’hanno a che fare quel signore nero, elegante, tempie sbiancate, pronto a replicare con agile sarcasmo alle grevi menzogne dell’avversario che l’insulta in una congestione di derisione e minacce: cosa possono condividere l’ex Presidente Barack Obama, tornato volontario in prima linea nell’infuocata campagna elettorale di mid-term, e il Presidente Donald Trump, che tra un rally di wrestling e l’altro definisce se stesso magico e non gli dispiace che lo chiamino messianico? Le maggioranze contrapposte espresse dalle urne nei due rami del Congresso ne sono la dualistica e irriducibile incarnazione istituzionale.
Quest’opposizione riflette e sintetizza la lotta politica tra le due Americhe e il risultato ne certifica la reciproca estraneità tanto quanto la contiguità (nella notte dello scrutinio un canale TV mandava in onda brani dello storico incontro di boxe vinto da Ray Sugar Robinson contro l’indomito Jack La Motta, toro scatenato…). Stacey Abrams, che ad Atlanta abbiamo visto sperare fino all’alba di diventare la prima donna governatrice di uno stato conservatore come la Georgia, fino allo spoglio dell’ultimo voto, conclude senza arrendersi con un sorriso sfinito sul grande e bellissimo volto nero: ”Continueremo a parlare a tutti, porta a porta…”.
La conquista democratica della camera dei deputati, che significa il controllo dell’attività legislativa, è un risultato decisivo. Tuttavia aveva ragione il New York Times a suggerire fino all’ultimo momento cautela verso l’ottimismo dei sondaggi. I repubblicani hanno vinto tutte le sfide a rischio ballottaggio e rafforzato la maggioranza al Senato. La pervicace ed esagitata demagogia populista di Trump è stata probabilmente risolutiva in più di una situazione. Anche se appare necessario scavare più a fondo per trovare le radici del fanatismo su cui riesce ad attecchire a dispetto della realtà dei fatti.
Un esempio significativo a Tallahassee, lungo una faglia della frattura che divide gli Stati Uniti non tanto tra popolo ed élites quanto trasversalmente tra forti squilibri culturali e socio-economici, frutto di storie diverse. Qui il democratico afro-americano Andrew Gillum ha perduto per un soffio contro Ron Desantis, più volte soccorso personalmente da Trump nelle settimane immediatamente precedenti il voto. Ebbene anche il New Deal roosveltiano vi aveva trovato vita particolarmente difficile. E ancor prima -158 anni fa- la capitale della Florida, da sempre centro degli interessi agricoli regionali, ospitò gli stati secessionisti per deliberare sulla guerra di Secessione.
Non a caso Trump ha scelto la Florida per lanciare la sua fantasiosa crociata contro le poche migliaia di appiedati migranti centramericani, appena apparsi sul territorio messicano e ancora distanti 3mila chilometri dalla frontiera meridionale degli Stati Uniti. Ma lui li ha chiamati “orde d’invasori” e ha ordinato di mandare ad attenderli 15 mila soldati in assetto di combattimento. Un’ altra “magia” della sua campagna elettorale, un altro illusionismo del suo piffero che hanno potuto attrarre pregiudizi e paure di tanti votanti per condurli fino alle urne e votare per il traballante candidato repubblicano.
L’onda lunga della deindustrializzazione avviata da Ronald Reagan a fine anni Settanta del secolo scorso, l’integrazione dei mercati su scala mondiale, l’introduzione crescente e tumultuosa delle nuove tecnologie sono momenti successivi di un processo unico e senza precedenti. Un vero e proprio sconvolgimento dell’universo culturale degli americani, delle loro sicurezze e aspettative. Così come della scala di valori, della qualità della vita interiore dell’intero Occidente. Non solo una sostituzione epocale dei sistemi produttivi, che ne costituiscono nondimeno l’evidente, invasiva materialità essenziale e quotidiana. E’ negli interstizi delle sue contraddizioni sociali e morali che riesce a penetrare il tossico illusionismo di Trump.
Livio Zanotti
Ildiavolononmuoremai.it

Jair Bolsonaro è il nuovo presidente del Brasile

Volentieri pubblichiamo il seguente pezzo di Livio Zanotti.

In politica i miracoli non esistono, neppure nell’esuberante terra brasiliana. E solo un miracolo di convinta, attiva solidarietà repubblicana e democratica avrebbe potuto evitare la vittoria dell’estremista di destra Jair Bolsonaro. Troppi e lasciati marcire troppo a lungo i contrasti, le diffidenze, le rivalità, gli inganni tra i dirigenti politici di un centro-sinistra largo, la cui somma dei voti raccolti al primo turno di queste elezioni sarebbe pur stata sufficiente a fermare il successo dell’ex capitano nostalgico di colpi di stato e dittature militari. Ma nessuno, tranne forse il perdente Fernando Haddad, ci ha creduto davvero. Il voto del secondo turno ha certificato la realtà: quasi il 55 per cento a Bolsonaro, quasi il 45 per Haddad.
Eppure il paese non appare più il gigante deitado, il gigante sdraiato della sua poesia patriottica. Gli oltre centodieci milioni di elettori della maggiore potenza economica sudamericana hanno espresso un voto articolato, sebbene maggioritariamente orientato a destra. Il recupero del candidato di centro-sinistra in questo secondo turno è dell’ordine di vari milioni di voti, dunque rilevante anche in termini percentuali. Il partito dei lavoratori (PT) che lo ha espresso resta il primo gruppo parlamentare, anche se ridotto di un 10 per cento. Nella distribuzione dei governi statuali (il Brasile è uno stato federale) la destra non è riuscita a sbaragliare gli avversari. Alcuni stati chiave restano al centro-sinistra.
L’evidente e rilevante successo personale (e dell’intera famiglia: con Jair sono stati eletti in diversi ambiti istituzionali anche i suoi tre figli, tutti maschi e più bellicosi del padre) non spalanca tuttavia a Bolsonaro una presidenza facile. Il nuovo capo dello stato dovrà costruirsi al Congresso una maggioranza capace di sostenere le sue già annunciate iniziative di legge (più armi, meno diritti alle donne e alle minoranze sociali e di genere, meno rispetto dell’ambiente, aumento delle spese scolastiche, etc.), in un sistema abnorme, con 30 partiti abituati nella maggior parte dei casi al più lucroso commercio dei propri voti. E’ nelle permanenti e ineludibili trattative di corridoio che si sono usurati nei decenni trascorsi prestigio e credibilità di più d’un Presidente.
Sconfitti nella corsa al Palazzo del Planalto, al centro-sinistra e al PT che fu del presidente-operaio Lula viene adesso richiesto di mostrare la capacità di rinnovarsi nel ruolo di oppositori, contro un governo dichiaratamente risoluto ad abbattere l’incompiuta democrazia brasiliana, smontandone le garanzie fondamentali. E’ questo il solo terreno, per vasto, impervio e pericoloso che sia, sul quale possono sperare di ricucire la profonda lacerazione, anche e forse innanzitutto culturale, creatasi tra la loro capacità di rappresentanza e gran parte del paese. Non esclusa quella nient’affatto trascurabile che ha continuato a votarli solo seguendo il criterio del meno peggio. Meriti e prestigio del passato non bastano più per aspettarsi credito.
Livio Zanotti
Ildiavolononmuoremai.it

Il Brasile scivola a destra di Livio Zanotti

Per gentile concessione dell’Autore volentieri pubblichiamo:

Adesso il rammarico supera la speranza in quell’abbondante metà del Brasile che ha votato contro Jair Bolsonaro, l’ex militare di estrema destra che domenica scorsa, al primo turno delle elezioni presidenziali, ha raccolto il 46,2 per cento dei voti (oltre 40 milioni) intravvedendo per un momento la maggioranza assoluta e comunque superando al galoppo ogni previsione della vigilia. Con un 29,28 per cento, il suo maggiore contendente, Fernando Haddad, candidato del Partito dei Lavoratori (PT) ed erede dell’ex presidente Lula ormai in carcere, dovrà compiere salti mortali per riunire la maggioranza necessaria a sconfiggerlo nella prevista seconda tornata elettorale, tra due settimane.
Sebbene il suo candidato sia stato largamente distanziato nella corsa al Palacio do Planalto e abbia perduto una mezza dozzina di parlamentari, il Partito dei Lavoratori, il PT di Lula, resta il gruppo più numeroso al Congresso di Brasilia (56 deputati e una cospicua pattuglia di senatori). La sua base ha tenuto. Non tutto è perduto, commentano nel partito socialdemocratico di Fernando Henrique Cardoso, l’ex capo di stato considerato il restauratore della democrazia brasiliana dopo i vent’anni di dittatura militare (1964-1983). I loro deputati sono stati quasi dimezzati dalle urne (da 49 a 29). E in campagna elettorale lo stesso FHC, come lo chiamano, ha bruciato parte del suo prestigio in un atteggiamento attendista che l’elettorato ha considerato ambiguo.
All’esterno delle influenze petiste, egli resta tuttavia l’architetto maggiore d’un accordo capace di riunire attorno ad Haddad l’alleanza necessaria a fermare Bolsonaro. Un’impresa che si presenta comunque a dir poco impervia, per l’enormità del successo ottenuto dall’ex capitano che al sostegno degli interessi più conservatori e a quello di buona parte delle chiese evangeliche è riuscito ad aggiungere una quota importante dell’elettorato popolare meno politicizzato. Ed anche per la frammentazione del sistema partitico (sono ben 30 le diverse formazioni presenti in Parlamento) e la sua eterogeneità, tutt’altro che facile da ridurre fino a compatibilizzarla in un sostegno sufficientemente ampio e convinto ad Haddad.
Richiederà la massima perizia disinnescare risentimenti e diffidenze suscitati dagli scontri di questi ultimi anni ed esasperati ulteriormente dalla campagna elettorale, anche tra le forze democratiche e progressiste. Eppure qualora l’impresa andasse a buon fine, la somma dei loro elettori non è certo che riesca a sconfiggere Bolsonaro. Non mancano pertanto quanti ritengono necessario costringerlo a dibattere pubblicamente le promesse da lui spese a piene mani, fino a renderne evidenti le contraddizioni. Dalla riforma delle pensioni, all’abolizione della tredicesima mensilità per tutti i lavoratori dipendenti pubblici e privati, al rilancio dei consumi e dell’occupazione. Ed erodere così il suo stesso elettorato.
I risultati di questa prima consultazione hanno però evidenziato in una parte rilevantissima degli oltre 200 milioni di brasiliani (tre quarti dei quali con diritto di voto), lacerazioni che sono culturali ancor prima che politiche. Non c’è semplicemente il distacco dai partiti in crisi di credibilità a favore del demagogo vissuto come demiurgo. Ci sono disincanto e disinteresse per valori fondanti di una democrazia partecipata e dei diritti, quali il rifiuto d’ogni violenza, a cominciare da quella delle istituzioni, il rispetto delle minoranze, la solidarietà. Quale che sia l’esito della seconda tornata elettorale, il lavoro di consolidamento e restauro della Repubblica brasiliana risulterà assai lungo e cosparso di pericoli.
Livio Zanotti
Ildiavolononmuoremai.it