Analogie e divergenze tra Italia e Germania.

A fronte del rallentamento dell’economia tedesca nel secondo trimestre (-0,1), prima di Ferragosto, i maggiori esponenti del governo tedesco assunsero l’atteggiamento keep cool rimani calmo; non c’è bisogno di provvedimenti straordinari per tenere l’economia tedesca sui binari della crescita. Dopo pochi giorni, secondo rivelazioni dello Spiegel – vedi corrispondenza da Francoforte di Isabella Bufacchi Il Sole 24 Ore del 17 agosto – la Cancelliera Merkel e il ministro delle finanze Scholz sarebbero disposti a passare all’azione sempre che il terzo e quarto trimestre confermino l’entrata in recessione tecnica dell’economia tedesca.    Secondo gli economisti di Citigroup (gruppo di consulenti finanziari che studiano i mercati globali) “la Germania rischia di diventare un’altra volta il malato d’Europa” – aggiungo io: non da solo ma in buona compagnia dell’Italia la cui economia, come noto, è fortemente interdipendente da quella tedesca. Ricordo che l’interscambio commerciale tra Italia e Germania ammonta a oltre 126 miliardi di euro.

Nonostante che permanga l’ossessione tedesca di non aumentare il debito pubblico, la Bufacchi scrive di rinuncia del ministro delle finanze all’obiettivo di ridurlo al disotto della fatidica soglia del 60% prevista dal Trattato di Maastricht. Riferisce che il ministro SPD del lavoro Heil sta approntando incentivi per le imprese in difficoltà e una riduzione dell’orario di lavoro per i lavoratori a tempo pieno che, come noto, in occasione della I e II recessione (2009 e 2012) ha funzionato bene evitando massicci licenziamenti.

 Ma la vera novità è quella relativa ad una stima dei fabbisogni di risorse finanziarie necessarie per colmare i deficit infrastrutturali ai diversi livelli di governo locale, statale (Laender) federale riguardanti strade, scuole, edilizia pubblica e popolare, impianti idrici, trasporti, digitalizzazione dell’economia, banda larga, intelligenza artificiale, istruzione e formazione permanente, ricerca e sviluppo, ecc.. Si stima il fabbisogno in 450-500 miliardi di euro in un decennio, in media 45-50 miliardi all’anno, somma tra il 2-3% del PIL tedesco ritenuta adeguata per imprimere una spinta idonea a far riprendere la crescita tedesca.

È interessante riflettere su queste proposte perché l’economia italiana si trova in una situazione analoga e, per certi versi, notevolmente peggiore (vedi bassa produttività del sistema produttivo nel suo insieme, deficit infrastrutturali e situazione dell’istruzione ai vari livelli). Le analogie e le differenze evocano una impostazione espansiva delle politiche economiche non solo in Germania e in Italia ma anche a livello generale europeo. E’ chiaro che se la Commissione europea riconoscesse tale esigenza di coordinamento, l’Italia avrebbe maggiori probabilità di far passare anche la sua politica anticiclica. Di questi problemi economici e finanziari non sento una forte eco nel dibattito asfittico sulle proposte di politica economica che dovrebbero essere alla base della legge finanziaria 2020 e/o addirittura di un eventuale accordo di legislatura tra i 5S e il PD. I “grandi” leader politici italiani preferiscono discutere di riduzione del numero dei parlamentari, di flat tax, di tassa c.d. piatta che tale non è, e di riduzione generalizzata delle tasse ovviamente senza mai menzionare i servizi pubblici da tagliare e, quindi, ingannando gli elettori.

Enzorus22020@gmail.com

Diario della crisi 190813

Dopo l’annuncio della crisi di governo prima da parte di Salvini e immediatamente dopo del Presidente Conte, si scatena la fantasia di giornalisti e osservatori vari circa la sua possibile soluzione: elezioni subito come richieste dal leader della Lega con grande sfacciataggine e arroganza; governi di scopo, governi istituzionali, governi tecnici; governi con compiti limitati: approvazione della legge finanziaria 2020 evitando l’aumento dell’IVA – proposta approvata da quasi tutti; approvazione della riduzione del numero dei parlamentari – su cui mi sono espresso precedentemente; ecc..  Quasi tutti chiedono elezioni anticipate dopo appena 16 mesi dalle elezioni, ma interviene saggiamente Grillo in maniera secca e determinata opponendosi a tali ipotesi. Ovviamente non decide neanche lui ma come Lord protettore del M5S il suo parere ha un grande significato politico. Lo raccoglie subito il Senatore Renzi che lo condiziona all’approvazione della legge finanziaria e possibilmente a una nuova riforma del sistema elettorale.

L’altro ieri grande sorpresa: inversione a U del PD di Zingaretti: no allo scioglimento delle Camere purché ci si metta d’accordo con i 5S su un programma di legislatura ampio e condiviso. Secondo me, è da apprezzare il ravvedimento del PD ma chiedere un programma siffatto è come chiedere la luna nel pozzo tali e tante sono le differenze programmatiche tra i due partiti. E per superarle serve molto tempo e tanta buona volontà. Voglio sperare che quella di Zingaretti non sia solo una proposta tattica o addirittura provocatoria. Ricordo che in Germania qualche tempo fa i partiti che sostengono la Merkel e la SPD dopo le elezioni di settembre impiegarono circa tre mesi per raggiungere un accordo sotto Natale.

Noi non abbiamo tutto questo tempo e sarebbe un successo enorme se si riuscisse a lasciare fuori dal governo l’On. Salvini neutralizzando la sua smodata ambizione, proporre un italiano colto e preparato per la Commissione europea, varare la legge finanziaria per il 2020, cercare alleanze con altri Paesi membri dell’Unione e dell’eurozona per riformare il Regolamento di Dublino sulla distribuzione dei migranti e per la riforma del Patto di stabilità e crescita. Con l’economia tedesca in forte rallentamento e con il fatto che i 5S hanno votato anche loro per la nuova Presidente della Commissione europea Ursula von Der Layen aumenterebbero le probabilità di arrivare ad una manovra maggiormente espansiva che aumenterebbe la sostenibilità del nostro debito pubblico. A tale scopo bisogna spiegare ai 5S che oggi le priorità assolute sono la crescita del PIL e dell’occupazione, la stabilità finanziaria e l’isolamento della Lega che accarezza l’idea dell’uscita dall’eurozona se non proprio dall’Unione europea. Bisogna spiegare al PD di Zingaretti che con l’alternativa “tutto o niente” non si va da nessuna parte. La politica è l’arte del possibile e questa si fonda su ragionevoli compromessi. Mentre un nuovo governo M5S, PD e altre formazioni che hanno a cuore la democrazia costituzionale in questa Italia lavorano a risolvere i problemi più urgenti, si possono organizzare gruppi di lavoro, conferenze programmatiche possibilmente congiunte delle forze che sostengono il governo per smussare i punti più contrastanti dei diversi programmi delle diverse parti politiche con onorevoli compromessi operati in nome del bene comune. La teoria dei giochi e l’esperienza insegnano che la strategia di un giocatore non può non tener conto della strategia dell’altro e/o degli altri. Qualcosa che Salvini, preso dal delirio di onnipotenza, probabilmente non ha capito.    

Enzorus2020@gmail.com

Il voto anticipato non è scelta obbligata.

Tutti all’unisono chiedono elezioni anticipate tranne Grillo e Renzi. Delle due l’una: o Salvini è un pericolo pubblico e allora bisogna impedirgli di ottenere un’altra investitura pubblica che aumenterebbe enormemente la sua tracotanza e il suo delirio di onnipotenza oppure è un sincero e affidabile democratico di cui ci si può fidare, capace di autocontrollo. Io propendo per la prima ipotesi e la sua recente richiesta di “pieni poteri” conferma che il leader della Lega sia un aspirante dittatore. In ogni caso, anche nella sciagurata ipotesi che si andasse all’elezioni non credo proprio che la quota di consenso popolare che gli assegnano i sondaggi si traduca in seggi parlamentari.

Quello che mi sorprende è il fatto che a chiedere elezioni anticipate sono da un lato Forza Italia e dall’altro il Partito democratico due partiti senza un programma chiaro e in grosse difficoltà organizzative. Il primo con la scissione in corso quella del governatore della Liguria e il secondo con una scissione strisciante quella di Renzi – fin qui minacciata. Se è vero che detti partiti non sono pronti per andare alle elezioni, se è vero che la RAI è controllata dalla Lega, verrebbe di dire: si accomodino pure. Il probabile esito potrebbe essere una coalizione di Centro-destra tra Salvini e la Meloni con l’appoggio esterno di Casa Pound come sostiene The Economist.

Ieri fortunatamente è arrivata una proposta diversa quella dell’ex Presidente del Senato definita come lodo Grasso. Una proposta molto astuta che suggerisce alle attuali opposizioni ad uscire dall’Aula e lasciare sola la Lega a votare contro il governo di cui il suo leader è ancora vice-presidente del Consiglio dei ministri. Una situazione paradossale difficile da spiegare agli osservatori europei e non, che ancora una volta la dice lunga sull’affidabilità dei politici italiani: un partito di governo che vota la sfiducia a sé stesso. Che lo faccia pure. Si coprirà di ridicolo e confermerà la sua irresponsabilità.

Lo scioglimento anticipato delle Camere è avvenuto già cinque volte ma mai a così breve distanza dall’inizio della legislatura: solo 14-15 mesi. Giustamente è stato sottolineato che lo scioglimento delle Camere è competenza del Presidente della Repubblica sentiti i Presidenti delle Camere, i segretari dei partiti accompagnati dai Presidenti dei gruppi parlamentari. Concludendo, il punto che voglio sottolineare è che lo scioglimento delle Camere consegue alla constatazione da parte del Presidente Mattarella dell’impossibilità di formare un nuovo governo. E il primo tentativo di formarlo, secondo prassi costituzionale, spetterebbe al Capo del M5S.       

La riduzione del numero dei parlamentari va accantonata.

La riduzione del numero dei parlamentari, proposta dal M5S è una riforma vecchia che guarda al passato e non al futuro come dovrebbe. Visto che siamo inseriti e vogliamo restare nell’Unione Europea possiamo abrogare il Senato e, al limite, il Presidente della Repubblica. Devo precisare che da circa un quarto di secolo siamo coinvolti in un processo di trasformazione del nostro sistema istituzionale in senso federale, e la proposta è stata sempre quella di un Senato federale. Da circa 10 anni detto processo è bloccato per via della grande crisi economica e finanziaria che, anche negli Stati federali, di norma, impone un maggior ruolo del governo federale e quindi un processo di centralizzazione. Anche nella riforma Renzi c’era una chiara svolta centralista perché non avendo avuto il coraggio di mettersi contro la classe politica regionale e dei sindaci che è ben più numerosa e radicata di quella centrale attuale, in nome del superamento del bicameralismo paritario, aveva proposto qualcosa che non era un vero senato federale né un senato delle regioni ma un papocchio o una camera di serie B non eletta direttamente dai cittadini.

Vengo al mio punto centrale. Se l’Unione Europea, in fatto, è già uno stato federale in fieri e non può essere diversamente visto che abbiamo una moneta unica, una politica economica finanziaria centralizzata, e si sta avviando il discorso di una difesa comune come reazione alle prese di posizione del neo-presidente USA; se le costituzioni sono costruite per il futuro, bisognerebbe tener conto che nei sistemi federali veri e propri (Australia, Canada, USA, Svizzera) non ci sono seconde camere né presidenti della repubblica a livello sub-centrale. In un assetto istituzionale di stampo federale com’è quello europeo – in parte ancora da portare a compimento – la collocazione appropriata del Senato sarebbe al centro al posto dell’attuale Consiglio europeo che io considero il cancro delle istituzioni europee. Se si tiene conto di questi vincoli, la soluzione migliore sarebbe l’abrogazione totale del Senato e possibilmente una riduzione limitata del numero dei deputati. Dico limitata perché in Italia prevale la prassi secondo cui i problemi del paese si risolvono approvando una nuova legge e nel nostro paese si legifera cercando di prevedere tutte le fattispecie possibili. Missione impossibile in una società molto dinamica, nell’era della digitalizzazione e della globalizzazione.

La proposta del M5S è quindi mal concepita anche perché non prevede una clausola ragionevole della sua eventuale entrata in vigore (ad esempio nella legislazione successiva a quella in cui viene approvata). I parlamentari in carica per quanto scarsamente autonomi rispetto ai loro capi al governo, difficilmente accetteranno di suicidarsi. Sappiamo che il M5S alla democrazia rappresentativa preferisce quella diretta.

PS.: per maggiori approfondimenti sulla semplificazione del processo legislativo rinvio a un mio post del novembre 2016.

Bisogna attuare il federalismo fiscale non l’autonomia differenziata.


Ieri 11 luglio l’ennesimo vertice della maggioranza non ha raggiunto l’accordo su come procedere sull’attuazione del contratto di governo sul trasferimento di quasi tutte le attuali competenze concorrenti di cui all’art. 117 Cost. alle tre Regioni a statuto ordinario che ne hanno fatto richiesta anche sulla base di alcuni referendum locali.  
Non è un caso che la ministra per gli affari regionali Stefani in un seminario di approfondimento presso il CNEL abbia continuato a parlare di autonomia differenziata e di non meglio precisate divergenze tra gli esponenti della Lega e del M5S, quando invece nella sostanza si tratta di avanzare in maniera surrettizia sulla strada di un federalismo fiscale male inteso e/o di secessione dei ricchi come sostiene Gianfranco Viesti. La Lega di Bossi per diversi lustri ha portato avanti – per fortuna solo a parole – il federalismo competitivo che spinto alle estreme conseguenze può portare alla secessione vera e propria. La Lega di Salvini ha saggiamente abbandonato almeno formalmente l’obiettivo secessionista, si è trasformata in un partito nazionale massimizzando il suo consenso, ma i governatori regionali della Lega portano avanti un disegno stravolgente di redistribuzione delle competenze tra Stato e RSO anche se con un tono minimalista, parlando di autonomia differenziata, citando l’art. 5 Cost., valorizzando attraverso le c.d. Intese  il ruolo del governo centrale, dall’altro, quello delle regioni.
E’ bene precisare che nel discorso sull’autonoma differenziata si assume la narrazione prevalente in questi ultimi tre ultimi lustri secondo cui la riforma del 2001 è stata frettolosa e sbagliata e che le competenze concorrenti hanno determinato un forte contenzioso costituzionale. Secondo me, questa narrazione è in grossa parte falsa: 1) perché la riforma del 2001 è stata fatta con il consenso di tutte le regioni e di gran parte dell’opposizione; ha dei punti deboli ma il suo impianto complessivo è valido e coerente tanto è vero che nessuno ha chiesto un referendum abrogativo; aspetta ancora la sua piena attuazione;  2) analizzando i ricorsi alla Corte costituzionale per conflitti di attribuzione si vede che è stato il legislatore centrale ad innescarli nella maggior parte dei casi perché ha continuato a legiferare non tenendo conto della nuova distribuzione delle competenze. Le regioni che premono per l’autonomia argomentano sulla base di due argomenti principali: a) i referendum propositivi locali svolti quando non si conoscevano i termini esatti della domanda; b) la ricerca dell’efficienza assumendo che le loro strutture sono più efficienti di quelle statali e, quindi, farebbero risparmiare risorse.  
I due argomenti hanno qualche pregio ma non possono essere assunti come decisivi perché, nel primo caso, secondo me, non si può sconvolgere l’assetto del governo multilivello solo sulla base di alcuni referendum locali senza il coinvolgimento del Parlamento e di tutte le altre regioni a statuto ordinario e speciale. In generale, non c’è dubbio che un assetto federale rispetto ad uno centralizzato possa e debba perseguire una differenziazione delle competenze del resto già previsto dalla Costituzione con la distinzione tra RSO e RSS e, addirittura, con la emanazione per regio decreto dello statuto speciale della Regione Sicilia (15-05-1946) prima della proclamazione della Repubblica (18-06-1946) e dell’entrata entrata in vigore della Costituzione (1 gennaio 1948).    Nel merito, per procedere ad una redistribuzione condivisa delle competenze non basta assumere che le regioni richiedenti siano più efficienti. C’è del vero ma si tratta comunque di condizione necessaria ma non sufficiente. Tutti i processi di federalizzazione e/o di decentralizzazione vengono motivati dalla ricerca di maggiore efficienza allocativa, ossia, di migliore rispetto delle preferenze e dei bisogni dei cittadini-contribuenti, di rispetto dell’eguaglianza dei cittadini e, non ultimo, di maggiore responsabilizzazione (accountability) dei politici eletti. La questione va affrontata alla luce della teoria dei beni pubblici, ossia, a partire dall’analisi della natura del bene e/o servizio pubblico di cui parliamo. I giuristi di norma ragionano in prima approssimazione sulla base del principio di attribuzione: la Costituzione, la legge in generale ha attribuito una certa competenza ad un dato livello di governo e tant’è. Gli economisti – semplificando –  guardano ai benefici individuali e sociali, alle economie e diseconomie esterne che la produzione di certi beni pubblici comporta e alla loro diffusione sul territorio. E qui arrivano le complicazioni perché benefici ed economie esterne in molti casi non si fermano ai confini delle giurisdizioni amministrative e, di converso, all’interno di ciascuna giurisdizione, non sempre beneficiano tutti i residenti allo stesso modo. Per questi motivi bisogna prevedere dei meccanismi correttivi e compensativi già previsti nell’art. 119 Cost. In questi termini l’attuale dibattito è deviante perché devia dalla strada principale che è quella dell’attuazione della riforma del 2001 e della legge Calderoli del 2009. È strano che la Lega se ne dimentichi.   PQM non basta abrogare o ridurre le tanto criticate competenze concorrenti che, secondo me e secondo coloro che hanno confrontato i diversi sistemi federali vigenti nel mondo, sono la soluzione più adatta ad un assetto federale dove, inevitabilmente, è previsto anche il principio di sussidiarietà verticale oltre che orizzontale. Non casualmente la Germania e altri paesi federali hanno le competenze concorrenti. Le competenze concorrenti garantiscono meglio la soddisfazione delle preferenze e dei bisogni dei cittadini che possono chiedere agli Enti locali alle Regioni o allo Stato di provvedere.  Anche qui nel caso in cui si decide che intervengano sia lo Stato che le Regioni perché si tratta di garantire certi servizi essenziali, rilevano poi gli accordi di cost-sharing perché spesso ci sono responsabilità condivise. In secondo luogo, il dibattito segreto all’interno della maggioranza non sembra che tocchi, in nessun modo, il problema dell’ottima dimensione della giurisdizionale che si individua guardando alle economie e diseconomie esterne e che é questione fondamentale se si vuole cercare l’efficienza nella gestione della spesa pubblica. Fin dal 1990, si era detto che le province come giurisdizioni amministrative non rispettavano il criterio e si contrapponeva giustamente l’ambito territoriale ottimale (ATO) o una giurisdizione di area vasta ma, dopo 30 anni, ancora oggi non riusciamo a decidere quanti livelli di governo vogliamo. Nella riforma del 2001 è entrata l’aria vasta sotto la forma discutibile di Città metropolitana; poi vengono abrogate le Province che però vengono resuscitate dal referendum abrogativo della riforma costituzionale di Renzi del 2016. Ora abbiamo le Province sguarnite di personale e di risorse e le Città metropolitane che non si sa cosa fanno. Altri come il prof. Alfonso Celotto si sono chiesti quale assetto istituzionale deve avere la Repubblica.  La mia risposta da federalista europeo è: un assetto federale all’interno di quello nascente e in parte significativa già in essere a livello superiore dell’Unione europea (vedi moneta unica e forte coordinamento delle politiche economiche dei paesi membri anche se male attuato), ossia, un assetto fortemente decentrato in cui le regioni hanno un loro autonomo potere impositivo e di indebitamento. Per una Unione di 500 milioni a 28 ma destinata a crescere per la richiesta di adesione da parte di altri paesi balcanici, l’unico assetto che può garantire l’unità salvaguardando le diversità è quello federale e la sua proiezione interna non può essere un monolitico Stato centralizzato. Non ultimo, nei Trattati europei è previsto il Comitato delle regioni uno dei due massimi organi consultivi della Commissione e del Parlamento europeo e le singole regioni interloquiscono direttamente con alcune istituzioni europee. PQM ritengo ambiguo e deviante il fatto che il governo continui a parlare di autonomia differenziata. Se si trattasse solo di questione amministrativa il problema potrebbe rientrare nell’ambito delle competenze del ministro degli affari interni ma qui c’è la proposta divaricante di finanziare le funzioni trasferite con compartecipazioni ai tributi dello Stato non inferiori alla spesa storica. Mi limito ad alcuni accenni. Bisogna spiegare agli elettori e ai loro rappresentanti che le compartecipazioni sono quote dei tributi erariali che le regioni richiedenti vogliono che restino nel loro territorio. Sono equivalenti sostanzialmente ai trasferimenti che vengono erogati dal lato delle uscite del bilancio dello Stato. Sono trasferimenti sotto mentite spoglie. Anche su questa operazione, in nessun modo, si può escludere il ruolo decisivo del Parlamento che, come noto, storicamente è nato per controllare la spesa dei sovrani assoluti e, oggi, delle maggioranze assolute determinate da sistemi elettorali manipolati alla bisogna. Con John Rawls ritengo che non c’è alcuna garanzia che le leggi approvate a maggioranza contengano soluzioni giuste specialmente se si tratta di leggi di rango costituzionale come quelle che stiamo esaminando. Un’altra precisazione riguarda lo sviluppo delle autonomie ex art. 5 Cost. si tratta di richiesta legittima, una volta attuati prioritariamente e seriamente i livelli essenziali di assistenza dei servizi fondamentali e i livelli essenziali delle prestazioni per gli altri servizi, che assicurano l’eguaglianza a livello nazionale.  Nessuno vuole e può impedire che alcune regioni possano fare di più ma se lo vogliono lo devono finanziare con il gettito di tributi propri.
Una finale battuta sulla scuola. Oggi il problema non è costruire la scuola regionale ma rendere più efficiente quella statale e costruirvi dentro quella europea. Ciò ovviamente non impedisce che si introducano alla bisogna corsi di storia e cultura delle singole regioni – in non pochi casi dichiarate patrimonio dell’umanità. Il problema vero oggi è l’attuazione del diritto allo studio da garantire con adeguate borse di studio per gli studenti meritevoli e bisognosi. Solo così si può sbloccare l’ascensore sociale oggi bloccato non solo per gli effetti recenti della crisi economica ma anche perché né lo Stato né le regioni fanno abbastanza.

Non basta dire Europa

Enrico Rossi, Non basta dire Europa, a cura di Antonio Pollio Salimbeni, Prefazione di Frans Timmermans, con un appello di Sting, Castelvecchi, maggio 2019.  Si tratta di un libro intervista scritto in occasione delle elezioni europee. Attraverso domande e risposte, si occupa della sfida populista e sovranista in corso in Europa a cui i socialisti in declino nei maggiori Paesi membri (PM) devono rispondere con fermezza se non vogliono abbandonare il campo. Lo potranno fare se essi riusciranno in parte a rispolverare i vecchi ideali socialisti, in parte, ad elaborare un piano strategico per affrontare i complessi problemi della grande trasformazione dell’economia e della società, della digitalizzazione, dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale, della migliore formazione permanente del lavoro, delle crescenti diseguaglianze che questi fenomeni producono.   Quindi non è un semplice pamphlet elettorale come si scrivevano una volta ma un libro che affronta i problemi strutturali della politica italiana ed europea e, quindi, la sua valenza non è di breve ma di lungo termine sapendo che le riforme strutturali non sono solo quelle che i politici dalla veduta corta ritengono di fare strappando al Parlamento una generica legge delega e diluendo nel tempo la sua attuazione con decreti legislativi che poi non vengono controllati da nessuno nella loro fase attuativa o non vengono emanati per niente. Non si può continuare andare avanti a piccoli passi.

Serve un salto di qualità tanto facile a dirsi quanto difficile a farsi se uno considera la bassa qualità della classe dirigente europea ed in particolare di quella italiana, entrambe caratterizzate dalla veduta corta il cui interesse prevalente è quello di confermarsi al potere. Vuole cogliere ogni opportunità per massimizzare il suo consenso elettorale a prescindere dalle politiche che porta avanti. Utilizza le fake news, ciancica di democrazie diretta, propone referendum su questioni molto complesse di cui essa stessa ignora le conseguenze ultime.  Vedi il caso emblematico della Brexit.

Vorrei subito riprendere un’affermazione del Presidente Rossi quando, a difesa delle cose buone che l’Europa fa, parla di una serie lunga di beni pubblici europei. In realtà, se distinguiamo correttamente tra beni pubblici europei ci accorgiamo che mancano alcuni di quelli classici (la spada, la bilancia) e abbiamo solo una Unione economica e monetaria incompleta.  Abbiamo solo l’euro che indubbiamente nel tempo ha prodotto il bene pubblico della stabilità finanziaria comune ma che non è apprezzata da tutti i PM allo stesso modo e, in nome della quale, in alcuni casi, è stato prescritto e rigorosamente applicato il consolidamento dei conti pubblici come valore in sé. Non abbiamo un appropriato sistema giudiziario europeo che distingua tra reati penali e civili europei e quelli dei PM; non abbiamo una difesa comune. E meno che mai abbiamo a livello centrale i tre pilastri fondamentali del welfare state: sanità, istruzione e previdenza che restano tuttora di competenza dei PM. E del resto come potremmo avere beni pubblici europei con un bilancio striminzito come quello attuale pari all’1,14% del PIL dei PM quando sappiamo che negli Stati federali più snelli il bilancio federale si colloca ben al disopra del 20% del PIL. Quindi parlare di attuazione del pilastro sociale a me sembra alquanto velleitario. In questo senso, è realistica la proposta di Rossi che non è solo sua di alzare il bilancio al 4% il minimo indispensabile per poter fare all’occorrenza qualche manovrina di politica economica per rispondere a shock simmetrici o asimmetrici in PM in crisi.

Con un bilancio dell’1,14%, al di là della volontà politica, non si possono affrontare le tre fratture che secondo Rossi caratterizzano lo stato dell’Unione: 1) il divario Nord-Sud; 2) quello Est-Ovest; 3) le crescenti diseguaglianze economiche e sociali. E’ un fatto che non c’è sufficiente convergenza tra le regioni periferiche del Sud e dell’Est con quelle centrali per via anche delle insufficienti risorse che direttamente o indirettamente sono destinate allo scopo. Né si può ritenere realisticamente che il “problema possa essere risolto con il completamento dell’eurozona con il pilastro sociale” (citazione dal libro di G. Provenzano). Semmai ci fossero le risorse per il primo obiettivo questo comporterebbe che i PM dovrebbero prevedere compensazioni per i lavoratori della zonaeuro che rimangono senza lavoro per via delle imprese che delocalizzano nelle regioni dell’Est dove i salari e la protezione sociale sono più bassi. E ancora non mi sembra adeguata la proposta di porre vincoli sociali alle imprese che delocalizzano nelle regioni periferiche più convenienti perché se vincoli del genere fossero seriamente applicati finirebbero col neutralizzare la libertà di stabilimento delle imprese. Vedi al riguardo la proposta sulle compensazioni di Rodrick, Dirla tutta sul mercato globale, 2019. In fatto, c’è una forte analogia tra quello che avviene all’interno della UE e quello che avviene a livello planetario in termini di concorrenza economica, concorrenza fiscale e dumping sociale.

Il libro contiene anche una radiografia delle forze reazionarie all’interno della UE. Anche se il loro “assalto” al PE è sostanzialmente fallito, il fenomeno non va sottovalutato. Bisogna continuare a combatterle perché in alcuni PM, a partire dall’Italia, esse sono vive e vegete. Rossi chiarisce bene l’accrocco istituzionale del Trattato di Lisbona per cui la Commissione riassume in sé tutti i tre classici poteri: di iniziativa legislativa, di esecuzione di regolamenti e direttive, di sanzione delle violazioni delle regole europee comprese quelle relative allo Stato di diritto all’interno dei PM. Per respingere le critiche al riguardo dei populisti e sovranisti Rossi cita la bella frase di Draghi letta a Bologna secondo cui “la vera sovranità consiste nel miglior controllo degli eventi per rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini. E oggi nella globalizzazione è impresa molto difficile”.   Come dargli torto! Solo se prevale il buon senso i PM potranno valorizzare la loro residua sovranità conferendola all’Unione.

Il Presidente Conte ridotto alle comunicazioni a mezzo stampa.

Non sono disponibile a rimanere a Palazzo Chigi per vivacchiare. O si va avanti con l’attuazione del contratto oppure mi dimetto – così il Presidente del Consiglio nella Conferenza stampa di ieri. Lo ha detto chiaramente ed è la sintesi che hanno ripreso molti commentatori. Altri hanno apprezzato il coraggio mostrato da Conte ma, a mio parere, il problema rimane il contratto, con i suoi obiettivi non convergenti e definiti in maniera sommaria, sottoscritto in stato di necessità da forze politiche ispirate da principi e sistemi valoriali diversi.  Conte non manca di festeggiare il 1° compleanno del governo giallo-verde che, a suo dire, ha suscitato da un lato entusiasmi e dall’altro, critiche e di cui lui ha svolto la funzione di garante. Ha respinto la critica della mancanza di legittimità democratica (di non essere un politico eletto) appigliandosi all’art. 95 Cost. che definisce il ruolo del Presidente del Consiglio e alla formula del giuramento che impegna tutti i membri del governo a servire gli interessi generali del Paese e in cui trova fondamento la sua legittimazione. Sintetizza i provvedimenti del primo anno come la fase 1 nella quale la priorità è andata all’assistenza dei ceti più deboli, dei cittadini smarriti e sfiduciati, alla lotta alla corruzione, allo scambio polito-mafioso (art. 416 cp), all’attuazione e/o implementazione delle leggi approvate, ad una più incisiva politica di integrazione degli immigrati. Ringrazia i gruppi parlamentari per la collaborazione prestata ed il lavoro svolto. Confessa che ha sottovalutato gli effetti della convivenza del governo con una campagna elettorale permanente – svolta specialmente dal suo Vice-presidente e ministro degli affari interni Salvini.

Nella fase 2, quella che comincerebbe ora, dice che il governo si impegnerà maggiormente sulla semplificazione del sistema legislativo, sul sostegno ai disabili; sulla (ennesima) riforma dei codici di procedura civile e penale; sulla sicurezza; sul decreto sblocca cantieri; su autonomia differenziata senza pregiudicare la questione sociale del Mezzogiorno; su una organica riforma fiscale; sulla giustizia tributaria; sui conflitti dio interesse; sulla manovra di politica economica che deve avere comunque un segno espansivo, sui conti pubblici che devono restare in equilibrio con le attuali regole salvo modifica; e tanti altri bellissimi progetti come quelli per il turismo, la valorizzazione del patrimonio artistico, l’università e la ricerca.

Conte è consapevole che le elezioni europee, da un lato, hanno confermato i partiti del governo giallo-verde ma, dall’altro, hanno prodotto un diverso consenso attorno ad essi. Stigmatizza l’eccesso di verbosità dei leader politici. Auspica un atteggiamento più costruttivo, maggiore impegno e fiducia e, soprattutto, più leale collaborazione che declina con una serie di esempi anche in negativo, in particolare, quello riguardante la indebita pubblicazione della bozza di lettera del MEF Tria alla Commissione europea.   Rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano dell’assenza di una data di scadenza per la sua richiesta di chiarimento sulle intenzioni della maggioranza si mostra flessibile nel senso che non è questione di pochi giorni ma neanche di un rinvio sine die.

Molti, come ho detto, hanno apprezzato il coraggio di rispondere a mezzo stampa come hanno fatto sistematicamente i suoi azionisti di maggioranza. Secondo me, il vero problema resta il contratto di governo e i suoi obiettivi non convergenti. Anche la valorizzazione massima delle cose fatte nella prima fase mi sembra eccessiva perché si tratta di cose fatte a metà anche per la deleteria prassi adottata anche dal governo giallo-verde di strappare al Parlamento deleghe ampie da riempire successivamente con decreti legislativi tutti da formulare per non parlare dell’inaudita quanto illegittima prassi dei decreti legge “salvo intese”. Per non parlare di provvedimenti in grossa parte sbagliati come quota 100 e del reddito di cittadinanza.

Per le cose da fare la situazione è altrettanto problematica perché non basta indicare gli argomenti su cui legiferare. Ne commento solo alcuni per non dilungarmi troppo: riforma fiscale organica con annessa riforma della giustizia tributaria; semplificazione legislativa saggiamente senza i famigerati “falò” di Calderoli; prossima manovra di politica economica con o senza rispetto delle regole europee; decreti legge vari che vanno dallo sblocco dei cantieri, alla sicurezza, alla spinosa questione dell’autonomia differenziata. Tutte questioni molto complesse e delicate che richiederebbero la riscrittura seria ed approfondita del contratto di governo che finora non è stata fatta.

Giustamente sulla riforma fiscale Conte ha sposato la tesi del Governatore della B.d’I. Visco ma su questa non ci sono paletti fissi e condivisi neanche all’interno del governo. La riforma fiscale dei primi anni 70 arrivò dopo un decennio di studi ed elaborazioni. Quella di Reagan dei primi anni 80 arrivò dopo un intenso lavoro biennale di una commissione parlamentare bipartisan. Mancano le premesse fondamentali a livello nazionale, europeo ed internazionale con riguardo al mantenimento del principio della progressività, alla definizione della base imponibile, alla tassazione del nucleo familiare, all’ampiezza dei regimi forfettari e a quelli sostitutivi, nonché sulla tassazione dei patrimoni, sulle agevolazioni ed esenzioni, la disciplina della concorrenza fiscale dentro e fuori dell’Europa, ecc.… quello che sappiamo e possiamo dare per certo che Tria è costretto a continuare  con condoni, rottamazioni e fantasiosi recuperi di evasione nella disperata ricerca di coperture ad aumenti della spesa corrente o peggio ancora a fronte di irresponsabili promesse di taglio delle imposte per tutti (evasori compresi).

Anche sui provvedimenti di semplificazione legislative non vedo fondamento né concretezza se non si supera la prassi deleteria del governo presente e di quelli passati, secondo cui i problemi si risolvono riscrivendo leggi deleghe ampie e incerte con conseguente carico di decreti legislativi, regolamenti e circolari amministrative che rendono incomprensibile la nuova disciplina della materia persino agli addetti ai lavori: funzionari pubblici e giudici che sono chiamati ad applicarla. E perciò rimangono disapplicate ed inefficaci.

Sullo sblocca cantieri, si parla di moratoria della legislazione sugli appalti. il Presidente dell’Anac Cantone ha già preavvisato il governo circa i forti rischi di una escalation dei fatti corruttivi di una simile misura in un contesto già infestato da simili fenomeni. L’azzeramento della disciplina ribadito anche oggi è esempio classico di come politici disinvolti intendono la semplificazione: niente leggi né regolamenti.

Con riguardo alle regole del Patto di stabilità e crescita come ritoccato nel 2011 Salvini vanta l’accresciuto appoggio dei suoi elettori e la testa più dura dei burocrati di Bruxelles. A parte il fatto non secondario che il governo giallo-verde non ha precisato come intende modificarle, neanche Conte sembra consapevole che per modificare suddette regole servono in media 2-3 anni di tempo e che il governo italiano è del tutto isolato. L’orizzonte quindi si sposta al 2021-22 se non dopo. Sempreché i due galli nel pollaio riuscissero a contenere la loro verbosità e a studiare i complessi fascicoli delle questioni europee.

@enzorus2020         

Poveri e in declino storico senza un ravvedimento operoso dei governanti.

Alcuni giornali aprono stamani con il titolo “L’Italia più povera senza l’Europa” sintetizzando le considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia di ieri. È vero, ma vediamo perché. Intanto bisogna partire dalla constatazione che l’economia italiana ha un forte grado di interdipendenza con tutti gli altri paesi membri (PM) dell’UE. Al riguardo Visco ci ricorda che il 60% delle nostre importazioni provengono dagli altri PM della UE, il 56% delle nostre esportazioni trova sbocco in detti paesi. Stiamo parlando di un flusso di scambi pari al 18% del PIL. Per chiarire basti ricordare che noi abbiamo un interscambio con la Germania pari al 126 miliardi di euro e altrettanti con la Francia e Spagna sommati. Bastano questi dati assoluti per dire che una via autarchica non è percorribile per l’Italia – come dimostra anche il fallimento del tentativo del governo inglese di portare a termine la Brexit quando pretende di uscire dalle istituzioni europee ma, allo stesso tempo, di rimanere all’interno della Unione doganale. Il titolo è vero perché a un paese trasformatore serve il mercato unico europeo e perché senza l’UE è illusorio pensare che da soli, senza le istituzioni europee, si possa incidere in maniera apprezzabile nel complesso processo della globalizzazione.     

Oggi, in una fase molto avanzata della globalizzazione, l’interdipendenza non si limita ai PM dell’UE; è diventata planetaria e, quindi, diventano ancora più stringenti i vincoli esteri che condizionano la crescita e lo sviluppo dell’economia italiana. Dico subito che questa non è condizionata solo dai vincoli esterni ma anche dai vincoli strutturali interni non meno stringenti di cui dirò più avanti. La globalizzazione dei mercati – come ci ricorda Visco – porta con sé la concorrenza di prezzo dei paesi emergenti che è determinata dal più basso costo del lavoro e dalla minore protezione sociale o maggiore sfruttamento dei lavoratori che si registra in quei Paesi. Il che non è senza conseguenze anche nei paesi più avanzati attraverso la chiusura di imprese non competitive e il c.d. dumping sociale che porta alla riduzione dei livelli di protezione sociale dei lavoratori. Se si aggiunge che i governi dei paesi emergenti fanno di tutto per attirare investimenti dall’estero si determina anche una concorrenza fiscale ed una corsa al ribasso che “costringe” anche molti paesi avanzati a fare altrettanto. Fin qui inutili sono stati i tentativi di stabilire delle regole a livello planetario da parte delle organizzazioni informali come il G20, G8, ecc… Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: a livello globale si sono ridotte le distanze tra i paesi ricchi e quelli in via di sviluppo ma, all’interno dei due blocchi, sono aumentate le diseguaglianze tra i ricchi e i poveri. In particolare nei paesi ricchi si è impoverita la classe media che, in condizioni normali, ha svolto spesso una funzione di stabilizzazione dei sistemi politici. Politici demagoghi, populisti e sovranisti sfruttano questi elementi oggettivi di crisi per costruirci sopra le loro fortune politiche.

Stiamo vivendo in una congiuntura molto speciale dopo una crisi mondiale di straordinaria portata anche per via della digitalizzazione dell’economia, dell’utilizzo della intelligenza artificiale che impongono una grande trasformazione ed in una fase di ulteriore accelerazione della globalizzazione non solo non governata ma addirittura travagliata da guerre commerciali senza quartiere.  Purtroppo, negli ultimi 30 anni, la concorrenza fiscale ha preso piede anche all’interno della UE tra i suoi PM e, fin qui, non si intravede alcun consenso emergente su come porvi rimedio. In queste condizioni, l’invito di Visco a considerare per l’Italia una riforma tributaria di ampio respiro è in teoria opportuno ma ho paura che, senza un preliminare accordo a livello europeo per abbandonare la concorrenza fiscale interna e passare all’armonizzazione fiscale, sia destinato a rimanere un pio desiderio. E questo perché l’invito resta opportuno per cercare di frenare le proposte insensate e irresponsabili del Capo della Lega, e in parte anche del Capo del M5S in materia fiscale ma, a ben riflettere, è chiaro che esse si inseriscono pienamente nel solco della concorrenza fiscale, ossia, della corsa verso il livello più basso della pressione tributaria che evidentemente i due leader della maggioranza del governo giallo-verde ritengono appropriata e utile ai loro fini politici. Né l’uno né l’altro spiegano come sia possibile andare avanti finanziando in deficit spesa corrente (reddito di cittadinanza, anticipazione del pensionamento, riduzione del cuneo fiscale, riduzione di imposte ai forfettari, alle famiglie e alle imprese) senza aumentare il debito pubblico di un paese che ha già un alto debito pubblico (per un 30% in mano a non residenti), di un paese che non investe abbastanza per rimettere in moto un processo di crescita del PIL e dell’occupazione.

Un paese che da oltre 25 anni sta nella c.d. stagnazione secolare perché non riesce a far aumentare la produttività e che ha dei tassi di attività inferiori a quelli medi della UE; un paese che nei prossimi 25 anni vedrebbe ridursi le persone in età lavorativa di 6 milioni di unità nonostante una ipotesi di afflusso netto di 4 milioni di immigrati e che, per contro, vedrà aumentare quelle con età superiore ai 65 anni al 33% della popolazione rispetto al 28% degli altri PM. Eppure il rimedio interno – che non dipende direttamente dalle regole europee – resta quello di spingere l’economia verso il pieno impiego e far aumentare la produttività ma i nostri governanti passati e presenti non riescono a farlo.  

Passando a scenari più o meno ravvicinati Visco dice che: “Da qui al 2030, senza il contributo dell’immigrazione, la popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni diminuirebbe di 3 milioni e mezzo, calerebbe di ulteriori 7 nei successivi quindici anni. Oggi, per ogni 100 persone ce ne sono 38 con almeno 65 anni; tra venticinque anni ce ne sarebbero 76. Queste prospettive sono rese più preoccupanti dall’incapacità del Paese di attrarre forze di lavoro qualificate dall’estero e dal rischio concreto di continuare anzi a perdere le nostre risorse più qualificate e dinamiche.”

Un Paese altrettanto incapace di attirare investimenti dall’estero e che per altro verso non trova 250 mila lavoratori altamente qualificati.

Nelle sue considerazioni finali Visco cita una massa ingente di dati che, da un lato, consentono di valutare i passi fatti nel decennio del dopo crisi mondiale e, dall’altro, delinea scenari di medio e lungo termine da cui emerge una lezione importante: “è un errore addossare all’Europa le colpe del nostro disagio – direi della nostra crisi profonda; non porta alcun vantaggio e distrae dai problemi reali”. Un’ampia parte delle sue Considerazioni finali è dedicata all’Europa e agli strumenti che si è data e a quelli che dovrebbe darsi per completare l’unione bancaria, per avviare l’integrazione dei mercati dei capitali e, soprattutto, l’Unione di bilancio strumento fondamentale per potere condurre una politica economica idonea almeno ai fini della stabilizzazione macro-economica dei PM che ne hanno bisogno. C’è materia su cui riflettere attentamente ma i nostri due ineffabili Vicepresidenti del Consiglio dalla veduta corta sapranno finirla di sproloquiare individualmente e chiudersi in un seminario riservato con i loro ministri tecnici, confrontarsi seriamente tra di loro per decidere cosa fare dopo le recenti elezioni europee? Lo vedremo nelle prossime settimane.

@enzorusso2020

Per costruire meglio l’identità europea.

In Italia i protagonisti dello sgangherato dibattito sul regionalismo differenziato non utilizzano le indicazioni della teoria dei beni pubblici per argomentare o valutare quali funzioni assegnare alle regioni e/o allo Stato. Vogliono modificare l’art. 117 cost. spostando le competenze concorrenti quasi tutte in testa alle regioni. Un’operazione che viene da alcune regioni del Nord-Est, dalla Lombardia e dall’Emilia Romagna. Un’operazione che dai meridionalisti viene valutata come secessione dei ricchi. Tranne qualche sporadica presa di posizione le regioni meridionali tacciono come se il problema non le riguardasse. Istruzione e sanità sono beni pubblici nazionali e come tali sono di competenza dello Stato.Istruzione e sanità sono strettamente collegate: “mens sana in corpore sano” dicevano gli antichi romani. A mio avviso, sbagliarono i Padri costituenti ad assegnare la sanità alle regioni ma avevano un alibi: non si era ancora ben sviluppata la teoria economica dei beni pubblici che arriva con Paul Samuelson nel 1954. Qualche anno fa Chiamparino presidente della Regione Piemonte, concordemente, ha ipotizzato l’idea di togliere la sanità alle regioni non solo per via di episodi gravi di corruzione nella gestione delle risorse assegnate dallo Stato ma soprattutto perché trattandosi di un bene pubblico nazionale è ovvio che il principale responsabile della programmazione e del finanziamento debba essere lo Stato.

Analogo è il discorso sulla scuola. Alcuni hanno ricordato il dibattito alla Costituente sulla quale vedi l’impegno profuso da Concetto Marchesi e Aldo Moro; vedi infine gli art. 33 e 34 Cost. sulla necessità di creare una scuola nazionale e di “garantire ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Ora da qui a passare alla scuola regionalizzata ci passa tanta strada che condurrebbe comunque nella direzione sbagliata. Perché la scuola di ogni ordine e grado non solo cerca di formare l’identità nazionale ma è anche lo strumento fondamentale per attuare l’eguaglianza di opportunità dei cittadini. Quindi in pratica il discorso si sposta su quello che lo Stato e le regioni fanno, da un lato, per fare rispettare l’obbligo scolastico e, dall’altro, per mettere a disposizione degli studenti meritevoli e bisognosi le risorse necessarie ad attuare sul serio il diritto allo studio. 
La scuola forma l’identità dei cittadini e riempie di contenuti l’istituto giuridico della cittadinanza. Noi europei abbiamo la doppia cittadinanza istituita con il Trattato di Maastricht art. 8 poi trasfuso nel Trattato di Lisbona.
Quella italiana è assunta come data – anche se non dimostrata nella c.d. costituzione materiale. Quella europea è ancora una nebulosa. Il fatto che nel passaporto c’è scritto Unione Europea e nella patente c’è la microscopica bandierina a 12 stelle è solo un fronzolo, al meglio, un simbolo. Per darle contenuti pregnanti occorre costruire una solida identità europea che innanzitutto rifletta i valori comuni della cultura, della letteratura, della democrazia, dell’etica pubblica, della storia comune nel bene e nel male.

Il problema, oggi e in prospettiva, non è la scuola nazionale che bene o male esiste in tutti i Paesi membri.Oggi  occorre costruire la scuola e l’università europee. Nel dibattito del 15 maggio scorso al Parlamento europeo tra i candidati alla Presidenza della Commissione che sarà formata dopo le elezione solo Frans Timmermans ha accennato al problema della scuola dicendo che il programma Erasmus va generalizzato. Non so se il candidato del PSE ha un programma più ampio ma mi sono riproposto questo problema quando il governo Renzi lanciò negli anni scorsi il suo “programma della buona scuola” poi rivelatosi solo uno slogan accattivante.Da allora mi sono convinto che la buona scuola doveva essere una scuola europea. Negli ultimi anni ho partecipato a molte manifestazioni dei giovani federalisti europei e a quella del 25 aprile a Porta San Paolo (a Roma) dove ho notato una forte partecipazione di giovani – cosa del tutto eccezionale negli ultimi anni. Ho pensato all’effetto positivo dal nostro punto di vista della becera propaganda di Salvini con riguardo sia alla politica interna che a quella europea. Ho assistito a diverse manifestazioni elettorali e nessuno dei candidati ha prospettato programmi specifici per i giovani. Al riguardo viene subito in mente il programma Erasmus ed il processo di Bologna a suo tempo lanciato da Antonio Ruberti pro-tempore  Rettore della Sapienza. Ho navigato un paio di ore sul sito Europa e ho trovato che c’è Europa Youth Portal, Eures and Poles emploi, ed altre finestre interessanti; ho visto che ci sono diversi Rapporti della Commissione e tante belle idee, ma per ora scarsi risultati concreti e/o poco percepiti perché riguardano pochi soggetti.

Il programma Erasmus secondo me non va bene così come funziona adesso, è da riformare, da generalizzare e da imporre soprattutto ai docenti. Infatti ritengo che se i docenti a tutti i livelli non hanno loro stessi una solida formazione e identità europea non si capisce come possano contribuire alla formazione e sviluppo di una identità e cultura genuinamente europee dei giovani. A suo tempo, all’università insieme ad altri colleghi abbiamo lavorato alla attuazione della riforma Berlinguer e alla standardizzazione dei crediti formativi per renderli portabili e riconosciuti nelle altre università europee. Oggi tale operazione non basta più in una congiuntura storica in cui crescono le forze populiste e sovraniste che vorrebbero dividere e ridurre l’Unione ad una Confederazione con compiti molto limitati e poteri conferiti di volta in volta.

Oggi dobbiamo fronteggiare il rischio di una progressiva disgregazione dell’Unione e rafforzare le fondamenta del progetto europeo. Come? Costruendo scuole e università europee. Dobbiamo fare quello che i tedeschi hanno fatto dopo avere elaborato la dura sconfitta che Napoleone inflisse a tutti gli stati preunitari: creare una classe dirigente tedesca prima ancora dell’unità come racconta il grande pedagogista americano John Dewey.

Non rivendico nessuna primazia al riguardo. L’associazione TRELLE da circa 20 anni prospetta il problema ma il suo invito non è stato raccolto.

Personalmente come studente post-graduate ho avuto la fortuna di fare il primo anno al Bologna Center della John Hopkins University. Siamo nel 1964 il Bologna Center era organizzato in questo modo: metà studenti americani e metà europei; lo stesso modulo per i docenti; il lunedì mattina seminario sull’Europa obbligatorio per tutti gli studenti e docenti: relatore era una grande personalità europea e poi discussione aperta sino ad esaurimento delle domande. Per lo più si terminava a lunch time. Una esperienza veramente innovativa e interessante per i tempi. Poi alcuni di noi andarono a Washington per il secondo anno del Master in Studi internazionali avanzati. Secondo me, se l’UE vuole fare sul serio in questa materia dovrebbe imitare questo esempio sia a livello delle scuole secondarie che a livello universitario. Dovrebbe invitare studiosi e ricercatori a standardizzare gli insegnamenti in primo luogo di storia e cultura o civiltà – come dicono i francesi – europea anche contemporanea e prevedere cospicui finanziamenti per attuare il diritto allo studio di giovani meritevoli e bisognosi non solo europei ma anche dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. 

Da economista vengo alle risorse, l’UE attualmente spende 2,6 miliardi in sette anni. Sono i soliti spiccioli su programmi utopici! Bisogna gradualmente quintuplicare meglio decuplicare gli stanziamenti per incentivare la istituzione di scuole e università secondo il modulo di cui sopra. Ovviamente non si tratta di creare nuove strutture ma di incentivare quelle esistenti a ristrutturarsi secondo un modello europeo condiviso non dai politici governanti ma dal mondo della scuola e dell’Università che nella maggior parte dei paesi europei gode di autonomia, libertà e responsabilità. In Europa abbiamo un enorme problema di rafforzare il capitale sociale e quello umano anche per fronteggiare la grande trasformazione dell’economia e della società che ci impone la globalizzazione, la digitalizzazione, la robotizzazione, l’utilizzo della Intelligenza Artificiale. Su questo terreno l’Italia è molto indietro e servono misure urgenti e straordinarie di breve e medio termine. Quella sopra descritta ovviamente è proposta di medio-lungo termine pensata per altre finalità, per i giovani, per rafforzare l’identità europea ma che darebbe più ampio respiro alle altre. A mio avviso, costituisce lo strumento principale per farlo. Basta volerlo.  

@enzorus2020

Alcune indicazioni bibliografiche:

Dewey John, Democrazia e educazione, la nuova Italia editrice, Firenze, 1949 (edizione originale 1916);

http://www.fondazioneantonioruberti.it/Antonio-Ruberti/Archivio-documenti/Spazio-Europeo-della-Conoscenza/UNIVERSITA-E-RICERCA-APPUNTAMENTO-CON-L-EUROPA

Melchionni Maria G. a cura di, L’identità europea alla fine del XX secolo, presentazione di Giuseppe Vedovato, Biblioteca della Rivista di Studi politici internazionali, Firenze (2001);

Treelle, Università italiana, Università europea? Dati, proposte e questioni aperte, Quaderno n. 3/2003 settembre;

Treelle, Scuola italiana, scuola europea? Dati, confronti e questioni aperte, Quaderno n. 1, maggio 2002;

Anni difficili quelli passati o quelli davanti a noi?

“Gli anni difficili – precisa il Governatore della BdI Visco nel suo bel libro “Anni difficili. Dalla crisi finanziaria alle nuove sfide per l’economia” – sono quelli che sono stati certamente gli anni peggiori della storia economica d’Italia in tempi di pace”. Non solo per via delle conseguenze dannose delle due recessioni del 2009 e 2012 sull’economia, sui conti pubblici, sulle banche, sul risparmio, sulla politica monetaria, sul reddito potenziale, ma anche perché i problemi strutturali non sono stati affrontati tempestivamente. Sono stati rinviati, risolti in modo parziale e, in alcuni casi, affrontati in modo sbagliato.  

Nella prima parte il libro raccoglie le analisi di alcuni temi svolti in un’ottica di lungo periodo – scelta invero necessitata se i problemi di cui soffre il sistema Italia sono di carattere strutturale e alcuni di essi non discendono solo dall’accelerazione del processo di globalizzazione e, da ultimo, dalla crisi mondiale. Non a caso Visco riprende le tesi di Larry Summers e Bob Gordon sulla stagnazione secolare.

Il declino del paese trova anche cause lontane ma, negli ultimi 26-27 anni, vi hanno contribuito quattro grandi manovre di risanamento dei conti pubblici condotte dai governi: Amato (1992-93), Prodi1 (1997), Prodi2 (2007), Tremonti-Berlusconi-Monti (2011-12). Tutte attuate, in primo luogo, con il taglio degli investimenti pubblici anche nel settore dell’istruzione, della ricerca e della innovazione. Le parti sociali che nel 1993 hanno firmato un importante documento sulla politica dei redditi, hanno assicurato la pace sociale ma hanno subito passivamente l’idea che il problema della competitività del sistema potesse essere risolto solo con i bassi salari e non anche con una politica dell’offerta che puntasse alla innovazione di prodotto e processo delle aziende migliorando la produttività. Abbiamo avuto maggiore flessibilità ma – precisa Visco – di cattiva qualità, perché la disoccupazione è rimasta alta tranne che nel 2007 per effetto della legge Biagi. Nei primi anni novanta è stato abrogato l’intervento straordinario nel Mezzogiorno ma, tra una crisi di governo e l’altra, ci sono voluti circa cinque anni per ricollocare gli interventi a favore del Mezzogiorno nelle procedure ordinarie di bilancio. In pratica, il Sud è stato abbandonato a sé stesso e l’incapacità di programmare lo sviluppo da parte delle Regioni meridionali ha fatto il resto non riuscendo, in non pochi casi, neanche ad utilizzare in maniera appropriata neanche i fondi strutturali provenienti dall’UE. 

 Se a questo si aggiunge la sottoscrizione del Patto di stabilità come riformato nel 2011 e la sua successiva rigorosa implementazione si completa il quadro. Sul piano interno Visco richiama le colpe della politica, delle organizzazioni datoriali e dei sindacati dei lavoratori. Le colpe degli industriali: pensare che i problemi si risolvano riducendo i costi della produzione. Eppure l’Italia resta un paese ad alta propensione al risparmio anche se relativamente più bassa che nel passato. In altre parole in Italia non manca il capitale, ci sono pochi capitalisti che lo sappiano usare (B. Piccone, 2019).

Errore analogo è stato fatto dall’operatore pubblico che pensa di risolvere i problemi dell’efficienza della PA riducendone la spesa e il numero dei dipendenti pubblici, un’altra introducendo i tornelli per controllare la presenza degli addetti, un’altra ancora accelerando le procedure di licenziamento dei dirigenti e, da ultimo, memorizzando le impronte digitali e assumendo che di per sé il turn over possa migliorare la situazione. Non ci si rende conto che migliorare l’efficienza della PA implica maggiori spese per studiare una migliore organizzazione degli uffici, specializzando i dipendenti e adottando le migliori tecnologie della ICT.

Viene chiamato in causa anche il basso livello qualitativo di tutto il sistema educativo con le dovute eccezioni. Ne consegue che i lavoratori con basse qualificazioni guadagnano poco e molti entrano nelle schiere dei working poor, quelli con alte qualifiche guadagnano di più e questo contribuisce ad incrementare le diseguaglianze.  A questo riguardo (pag. 55) Visco ci ricorda che, secondo le definizioni dell’ILO, in Italia gli occupati ad alta qualifica nel 2012 raggiungevano il 30% contro il 43% in media UE e 49% nei paesi del Nord Europa. Per fare un esempio che riguarda anche l’istruzione universitaria ne viene fuori che, in un contesto di alta disoccupazione giovanile, è stata snaturata la sequenza temporale della laurea breve e di quella specialistica – quest’ultima più o meno equivalente ad un Master delle università anglosassoni. Si era accorciato il percorso di studio della vecchia laurea quadriennale per consentire ai giovani di entrare prima nel mercato del lavoro. E si era prevista la laurea specialistica soprattutto come corso di approfondimento e aggiornamento della formazione dopo qualche esperienza lavorativa. Perdurando la situazione di alta disoccupazione giovanile, la laurea c.d. specialistica viene conseguita subito dopo quella breve ma neanche essa trova sbocchi immediati nel mercato del lavoro per cui non pochi giovani che l’hanno conseguita sono costretti ad andare all’estero abbassando ancor più la percentuale citata dei giovani laureati. Risulta evidente che se l’economia non è spinta verso il pieno impiego anche giovani qualificati non trovano lavoro.

Il DEF 2019 non affronta quello che G. Pennisi (Avvenire del 13-04-2019) chiama il buco strutturale, ossia, il difficile tema delle riforme strutturali. Prevale la veduta corta. Di anno in anno i ministri si preoccupano di come fare la legge di bilancio e via. Sul resto dei problemi si affidano allo stellone.

Scrive Visco a questo riguardo: “Si è avviato un intenso programma di riforme strutturali per recuperare la fiducia dei mercati e rilanciare il potenziale di crescita dell’economia con uno spettro di interventi, che – a stadi diversi di definizione ed efficacia – spaziano dal sistema previdenziale al mercato del lavoro, dai servizi pubblici alla giustizia civile, dalla concorrenza nei servizi privati all’azione di contrasto alla corruzione e all’evasione fiscale, dal sostegno all’innovazione tecnologica a quello in favore dell’investimento in conoscenza e nuove competenze”.  Anche se nell’elenco mancano almeno un paio di riforme importanti come il recupero del gap infrastrutturale nel Mezzogiorno e la lotta alle organizzazioni criminali che prosperano nel Paese, è evidente che molte delle riforme enunciate sono state solo minimamente attuate e, spesso, con approcci contrastanti. La giustizia civile e penale resta lenta ed inefficiente perché una giustizia che arriva tardi crea incertezza e sfiducia nelle istituzioni. La lotta alla corruzione non si fa solo con la prevenzione affidata all’ANAC lasciando fuori l’Agenzia delle entrate e non ricostruendo efficienti servizi di controllo interno ed esterno nelle varie amministrazioni centrali e sub-centrali. Per non parlare dei miseri risultati della lotta all’evasione fiscale che secondo una serie storica dell’Istat resta sempre attorno al 7-8% del PIL.

L’Italia non è mai riuscita a conciliare le crisi congiunturali (di deficit nei conti pubblici e/o nella bilancia dei pagamenti) salvaguardando il processo di accumulazione che è condizione necessaria ed ineludibile per affrontare i problemi strutturali di lungo periodo (salvaguardia del processo di accumulazione, innovazione tecnologica, sistema educativo all’altezza delle trasformazioni economiche, ecc.). Dopo il miracolo economico, la prima crisi congiunturale fu soprattutto una crisi di bilancia commerciale (eccesso di importazioni). Dieci anni dopo nel 1974 si manifesta una seconda crisi ben più grave della prima. Il debito pubblico che nel 1971 era ancora attorno al 40% del Pil a fine anni 1970 balza al 55%. L’aumento degli anni ’70, a mio giudizio, è in gran parte giustificato dal crollo di Bretton Woods, dai due shocks petroliferi e dall’aumento di altre materie prime con la conseguente spirale prezzi salari messa in moto anche dalle svalutazioni competitive. Il peggio si consuma negli anni 80; alla fine del decennio, il debito è aumentato di oltre 40 punti di PIL nonostante che nel 1981 si sia deciso il c.d. divorzio tra Tesoro e Banca centrale. Un tale drammatico aumento non è dovuto solo al lassismo dei governi in materia di gestione dei conti pubblici ma anche all’avvitamento degli interessi per il servizio del debito pubblico e all’aumento dei trasferimenti alle imprese purtroppo sempre in deficit. Sino al 1981 il debito veniva finanziato con la stampa di carta moneta. Dopo, il debito veniva finanziato collocando i titoli sul mercato a tassi di interesse crescenti e per finanziare spese correnti. Anche allora c’era uno spread molto alto attorno ai 500 punti base tra fine anni 80 e inizi degli anni novanta e di cui erano al corrente solo gli addetti ai lavori. Gli anni 80 si chiudono con un tasso di crescita del 2,5% in media annua meno della metà di quello degli anni ’60.   Nonostante l’ottimismo e lo yuppismo Reaganiano, rallenta la crescita e l’accumulazione. Nella gestione dei conti pubblici non funziona la c.d. disciplina di mercato che avrebbe portato il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia per l’ovvio motivo che i mercati non sanzionano direttamente e immediatamente i comportamenti scorretti dei politici, non prescrivono regole macro-prudenziali ma reagiscono indirettamente e lentamente richiedendo tassi crescenti a fronte di rischi di solvibilità crescenti. Finché il debito appare sostenibile i mercati assorbono i titoli.   

Non solo in Italia ma anche nei principali paesi europei la sinistra accoglie i paradigmi del neoliberismo.  Si abbandona l’attività di programmazione perché si sposa la teoria dei mercati efficienti –specialmente dopo 1989-, si attua la riforma tributaria ma non si riesce a debellare l’evasione fiscale perché, a mio giudizio, non c’è la volontà di farlo sia da parte dei governi di centro-sinistra e meno ancora da parte dei governi di centro-destra che governano nella c.d. seconda Repubblica del maggioritario coatto. Io vedo una correlazione diretta tra evasione fiscale e aumento del debito pubblico. I governi italiani di centro-sinistra e centro-destra nel tempo hanno preferito chiedere ai ricchi soldi in prestito piuttosto che a titolo di imposta. E questo ha alimentato la rendita finanziaria e le diseguaglianze sociali.     

Oltre che del vincolo del debito pubblico Visco si occupa di molti altri problemi della politica e dell’economia italiana di banche, vigilanza sulle medesime, di tutela del risparmio, di educazione finanziaria, di problemi molto tecnici della politica monetaria e della sua gestione e, non ultimo, dell’investimento nel capitale umano su cui aveva già scritto un libro pubblicato nel 2014. Problemi tutti affrontati con grande competenza. Non è questa la sede per entrare nel merito di tutte le sue posizioni sui vari argomenti.

Voglio commentare velocemente due sue valutazioni su due questioni che ritengo particolarmente delicate. La prima è la questione delle regole di coordinamento delle politiche economiche dopo Maastricht e dopo l’entrata in vigore dell’euro. Visco ritiene che le regole europee sono adeguate anche dopo la riforma del Patto di stabilità e crescita del novembre 2011 accompagnato da una panoplia di regolamenti e, non ultimo, dal Trattato intergovernativo per il coordinamento delle politiche conosciuto come Fiscal Compact. La prova sta nei dati – precisa Visco – l’euro ha compiuto 20 anni ma per 15 anni dopo la sua entrata in vigore l’Italia ha gestito un deficit di bilancio = o > del 3%. Quindi il Patto, a suo giudizio, va bene con un importante caveat: in condizioni di ciclo economico più o meno regolari non a fronte di uno shock straordinario come quello determinato dalla crisi mondiale.  Ma secondo me, il punto è che il governo italiano si è avvalso della flessibilità delle regole del PSC e non della golden rule che pure c’è, sia pure in forma embrionale, ma che avrebbe impedito di utilizzare l’indebitamento per finanziare spesa corrente. Per politici dalla veduta corta questo è un comportamento prevedibile. L’eccezione ha riguardato il I governo di centro-sinistra della c.d. II Repubblica che nella seconda metà degli anni ‘90 ha gestito un avanzo primario attorno al 5% del PIL e ridotto il debito di 15 punti nel 2001 – 100%, nonostante una manovra espansiva in vista delle elezioni. Ora qui sta la difficoltà di trovare una soluzione al problema gravissimo del debito pubblico: o si torna alla crescita sostenuta (5% degli anni sessanta) cosa pressoché impossibile, oppure si dovrebbe gestire un avanzo primario pari al 4-5% per 10-15 anni – cosa altamente difficile secondo il FMI.     

La seconda valutazione riguarda le banche che in Italia costituiscono un sistema banco centrico per via dell’assenza di un solido mercato dei capitali. Negli anni più caldi della crisi le banche avevano nell’attivo oltre 400 miliardi di titoli del Tesoro e nel passivo oltre 350 miliardi di sofferenze bancarie – ora sotto i 100 miliardi. Secondo Eichengreen e Wyploz (2016) il legame tra Tesoro e banche determina un “diabolic loop” per cui un attacco speculativo contro il debito sovrano farebbe saltare le banche e, viceversa, una crisi delle banche che hanno al loro attivo molti titoli del proprio paese innescherebbe una crisi del debito sovrano. Visco scrive che il problema è il livello del debito pubblico e non quello del debito detenuto dalle banche. Secondo me, il governatore sottovaluta il problema perché come dice lui stesso è chiaro che con una riduzione del PIL del 10% e degli investimenti del 30% e la disoccupazione a due cifre, se i tassi di interesse tornano ad aumentare chi sottoscrive i titoli italiani è costretto ad assicurarsi e questo può porre al Tesoro problemi di collocamento dei titoli e anche alle banche in termini di svalutazione di quelli già in loro possesso. Collegando questo problema al completamento dell’Unione bancaria diamo un argomento in più alla Germania e ai sostenitori della sua linea di opposizione a qualsiasi mutualizzazione del debito dei paesi membri se prima non c’è una sostanziale riduzione del rischio connesso agli alti livelli del debito pubblico di alcuni Paesi Membri tra cui l’Italia. A parte il nonsense della contrapposizione tra risk reduction e risk sharing, perché non serve l’alternativa netta, ossia, una preliminare forte riduzione del rischio non richiederebbe alcuna suddivisione del rischio, è chiaro che il contrasto su questo terreno e sul bail-in blocca il processo di completamento dell’Unione economica e monetaria. È vero che dopo la crisi l’UEM si è dotata di strumenti più incisivi anche per prevenire le crisi finanziaria ma a fronte di una nuova probabile crisi dell’economia reale la governance economica della UE resta ancora in parte a corto di strumenti importanti per affrontarla specialmente nelle regioni periferiche. A fronte della necessità di una grande trasformazione dell’economia reale comunque in corso, è alto il rischio che nel futuro non lontano agli anni difficili di Visco succedano anche anni peggiori di quelli subiti dalla stragrande maggioranza dei cittadini europei. E di questi problemi come della riforma dei Trattati non si discute fin qui nella campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo.

Eichengreen, B. & Wyplosz, C. Intereconomics (2016) 51: 24. https://doi.org/10.1007/s10272-016-0569-z

Beniamino A. Piccone, L’Italia: Molti capitali, pochi capitalisti. Prefazione di Francesco Giavazzi, il Sole 24 Ore, marzo 2019;