Curatore del libro Lettere dalla prigionia di Aldo Moro, Miguel Gotor – studioso delle connessioni tra santi ed eretici nella metà del primo millennio – non ha avuto difficoltà ad inoltrarsi, con mente lucida, nel ginepraio dei testi manoscritti e/o dattiloscritti di uno dei padri della prima Repubblica, la cui vita è stata sacrificata dalle male intenzioni e dai compromessi di quell’età di falsi salvatori e avversari dello Stato costituzionale inseriti negli stessi organismi pubblici.
L’analisi contenuta in “Il memoriale della Repubblica” (Einaudi, 2011) è molto dettagliata ed altrettanto ben spiegata dall’autore attraverso l’avventuroso percorso di quel drammatici scritti dalla prigione romana dei brigatisti a Firenze, Milano e ritorno, con particolari inediti (e sorprendenti) circa il doppio ritrovo delle misteriose carte a via Montenevoso nel ’78 e poi nel ’90. Ne esce una complessa vicenda che Gotor ricostruisce minutamente, seguendo indizi, tracce, suggestioni e rivelazioni, sino a delineare di fatto una storia “doppia” rispetto a quella ufficiale circa la cattura, il sequestro e l’uccisione dell’eminente politico democristiano. Le considerazioni consentono al lettore di rovesciare tante notizie, presunzioni e memorie tramandate dai responsabili del tragico calvario, a cui il protagonista insigne della storia nazionale venne sottoposto. Quel Moro tanto sensibile, sul piano personale, a noi sembra uscire dal libro, come un inflessibile ed intelligente tessitore.
Quali “nuove” certezze vengono acquisite grazie a questa faticosa ricostruzione? Innanzitutto il fatto che quelle lettere – stese da Moro nel chiuso di quel fondo nel quale è stato prigioniero per tanti giorni – dopo essere stato variamente trasferito da un luogo all’altro (e in qualche caso da un fronte all’altro in quelle realtà umane e politiche che allora sembravano scontrarsi mentre si sovrapponevano e combinavano) – una volta recuperate dai carabinieri di Dalla Chiesa (in effetti a servizio di quel che in quel momento il generale rappresentava rispetto all’ufficialità del potere e della stessa Arma) sono state trasportate in altre sedi per essere sottoposte ad autorità statali, abilitate – a titoli diversificati – a prenderne lettura.
Il groviglio complesso che viene fuori dal libro, grazie alle attente ricerche e agli approfondimenti compiuti dallo studioso, costituisce una serie di sorprendenti eventi, tanto più impensabili per chi sia stato estraneo a quelle particolari giornate di sofferenza e dolore. L’intricato nodo, il cui punto più incredibile (eppur vero) è il caso di un intellettuale (Senzani) che era contemporaneamente in grado di partecipare a ciò che facevano i brigatisti, e persino alla riunione fiorentina nella quale si decise l’uccisione, e di ciò che si “studiava” al Ministero dell’Interno presso l’apposita commissione costituita da Cossiga e composta da esperti americani e della P2. Ma quanti altri lacci e congiungimenti tra le due parti del fronte che si contendevano allora il destino di Moro e che poi in parte si contenderanno le sue lettere dalla prigione?
I due fronti contrapposti ufficialmente non corrispondono neppure alla leggenda del “doppio Stato” perché essi si intrecciavano misteriosamente in un susseguirsi di chiari e di scuri eventi: dalla rappresentazione estraibile da questo minuzioso studio risulta quindi che non pochi erano – come protagonisti – i personaggi presenti contemporaneamente in entrambi gli schieramenti. Basti pensare a tutti i nomi di noti esponenti politici di sinistra, tra le sinistre extraparlamentari, amici e confidenti dei brigatisti. Nessuno dei due poli del duplice schieramento – rispettivamente fautori della trattativa e difensori di una presunta “fermezza” – aveva un proprio definito confine, e lo stesso tipo irregolare di mescolamento si trova sul campo di quanti erano chiamati ad operare in nome dello Stato per salvare il martire, in effetti sacrificato sin dall’inizio, benché materialmente e deliberatamente “salvato” nella strage di via Fani, segno di una volontà, da parte degli organizzatori degli assassinî, mutata nel corso delle confuse trattative.
Tra l’altro va ricordato che non si è mai indagato a sufficienza sul percorso seguito dalla macchina nella quale salgono, subito dopo l’uccisione della scorta, sia Moro sia i rappresentanti degli assassini, primo tra essi, il Gallinari. Se ancora oggi provate a seguire lo stretto tracciato che da via Trionfale ad un certo punto sale per imboccare una stradina laterale, a destra, la trovate chiusa da un palo trasversale fisso. Superata con una sciabolata quell’ostacolo, i rapitori abbandonarono in una strada vicina la macchina, rintracciata solo 2 giorni dopo (!), ulteriore testimonianza dell’assoluta assenza di qualsiasi accertamento nelle 48 ore successive al rapimento. Di questi argomenti non parla il libro – che è dedicato alla storia delle lettere – ma noi li citiamo invece perché indicano come sin dal primo momento il rapimento lascia tracce concrete non seguite né approfondite, addirittura del tutto trascurate dall’attività di polizia, mentre l’autorità giudiziaria competente (il magistrato Imposimato) – come egli stesso ha scritto nel suo libro sull’argomento – è stato volutamente escluso per i 55 giorni da ogni concreta possibilità di indagare, in quanto formalmente non incaricato delle indagini.
Se questo è stato “il punto di partenza” è evidente che tutta la parte restante della vicenda non può essere ricostruita nel suo essenziale, vero andamento.
Veniamo adesso al nodo fondamentale dell’origine di tutta la storia raccontata nel libro. Come mai Moro divenne subito facile “parlatore” (e “scrittore” a domanda) tanto sciolto da ripercorrere ad es. le interne connessioni e controversie della D.C.? Erano i brigatisti interessati a “sapere”? Che cosa? Il “brigatista” tipo – come almeno lo descrive Gotor – e probabilmente ha ragione – era un individuo impegnato politicamente ma, soprattutto in quel momento, curioso di venire a conoscenza di quelli che egli riteneva importanti segreti di Stato, ma neppure sopra di lui appaiono strateghi più abili. Perché questa era la nuda verità. I nemici implacabili di quello Stato ritenevano che la D.C. coprisse una serie infinita di malefatte, e pensavano di venirne a conoscenza per poi denunciarle pubblicamente, al fine di scatenare una presunta rabbia popolare, tale da giustificare il loro operato violento e criminale. In verità l’ex presidente del Consiglio conosceva i rapporti che aveva intrattenuto con i responsabili del governo USA, le notizie concernenti la NATO, gli armamenti e servizi segreti italiani, ma invece i brigatisti – almeno seguendo il filo degli scritti del prigioniero – tendevano ad occuparsi prevalentemente di notizie che potevano gettare scandalo o discredito sui governi D.C., come se la loro acquisizione rivestisse una importanza straordinaria nell’intento di comprendere meglio sotterfugi della politica internazionale, al fine di poter denunciare pubblicamente il “male” arrecato al paese dal potere democristiano.
Diciamo la verità: Moro seguiva il ritmo delle domande a lui poste ma in effetti – a noi sembra – egli mirava a spostare l’attenzione sempre verso eventi di minor rilievo politico dal punto di vista internazionale. Egli era stato al centro della vita nazionale per tanti anni, aveva parlato con i presidenti USA, tra l’altro in particolare con Ford (succeduto a Nixon) a Helsinki nel ’75, come era accaduto anche con Kissinger (e da uno di quei colloqui vennero fuori interpretazioni mai dimostrate, circa l’irriducibilità di un contrasto personale), ma i brigatisti insistevano a voler sapere in sostanza fatti secondari (al limite del pettegolezzo) sui quadri della DC, lasciando da parte i grandi problemi di cui Moro si era occupato seriamente per tanti anni. Tutto ciò conferma l’ipotesi, l’impressione, che tutto l’ingranaggio del gruppo brigatista fosse di natura nettamente nostrana e del tutto impari allo stesso compito che si era prefisso.
Il giornalista Pecorelli, gli appartenenti al Sisde o all’Arma dei Carabinieri, i socialisti interlocutori dei brigatisti, i politicanti con i piedi in più staffe, sembrano pallide espressioni di un fatto tanto più grande di loro. Vittime innocenti gli uni, scrupolosi servitori dello Stato gli altri, perché in effetti, malgrado le letture fantasiose, malgrado Cossiga e la P2, uno Stato continuava a sussistere, e rivelerà la sua presenza – sia pure nei tempi lunghi – perché colpirà tardivamente, ma inesorabilmente, i suoi avversari, illusi di poter prevalere con le loro acrobazie e i terribili “giochi”, ai quali avevano dedicato la loro mente perversa, il loro cervello mediocre.
Merito indubbio di Gotor è di aver intravisto subito – e quindi di aver seguito con coerenza – la sequenza di relazioni intercorrenti tra i brigatisti, da un lato per il periodo della prigionia, e tra i rappresentanti del potere dall’altro, incaricati di venire a capo dell’intreccio, tra lettere autentiche e lettere trascritte in seguito, come l’autore dimostra con sapiente lavoro di ricostruzione.
“Anatomia del potere”, dice il sottotitolo del libro. Un potere per tanti aspetti “impotente” eppure poi capace di annientare il campo nemico. Proprio la leggerezza, la superficialità, l’ignoranza dei fatti realmente importanti che gravavano nell’Italia e l’Europa mediterranea, sono all’origine della inspirazione con la quale sono state condotte le trattative – messe in atto malgrado le smentite ufficiali – e proprio ciò spiega la conclusione “ingloriosa” per i brigatisti. Non rimane che il sacrificio di un uomo onesto, di un pensatore profondo, di una famiglia esemplare. Tutto il resto rappresenta un insieme di minuzie, che spiegano anche la successiva, quasi conseguente, triste fine di quella Repubblica che pure non era priva di qualche suo rappresentante di ben altra qualità e non privo di coraggio, capacità e lucidità. Il lettore non può non essere grato all’autore per essersi assunto un lavorio tanto ingrato e minuzioso, mostrando di aver scelto e seguito personalmente una chiave di lettura senza pregiudizi, alla ricerca di una possibile “verità” dei fatti. E tutto ciò aiuta a comprendere la sostanza materiale – negativa e positiva – di cui era composta allora la politica italiana, sia al governo che sul fronte degli implacabili accusatori ed assassini. Se “flessibile” può apparire la condotta del prigioniero, inflessibile a noi pare confermata la sua natura e qualità di “uomo” ancor prima che di politico.
E, sul piano personale, riscontriamo la certezza che quelle lettere esprimono l’essenza adamantina di chi non si piegava, contrariamente alla tesi fatta circolare allora da suoi presunti “amici” di partito che facevano a gara nel diffondere la leggenda di un Moro ormai in preda alla sindrome di Stoccolma, e quindi “debole”, ed utilizzato dai suoi carcerieri. Da quanto letto in questo libro, inoltre restiamo confortati nella nostra ostinata convinzione – e sostenuta in tutti i modi – circa la rispondenza delle lettere alla personalità limpida (tutt’altro che debole e cedevole) di Moro, come d’altronde avevamo avuto occasione di avvertire negli incontri personali avuti precedentemente con lui.