Nel suo libro “Guasto è il mondo” (Editori Laterza, 2010), Tony Judt analizza tre modelli di welfare: il I modello è quello anglo-americano di tipo universalistico: che trova la prima sistematizzazione nel rooseveltiano Social Security Act del 1935 con cui si introduce a livello federale la pensione sociale di invalidità e vecchiaia, trasferimenti per i non vedenti, per i bambini non autonomi e portatori di handicap, assegni familiari per le mamme single e loro figli, e che attribuisce agli Stati sanità pubblica, indennità di disoccupazione, assicurazioni per gli incidenti sul lavoro, ecc. In Inghilterra basti ricordare il Piano Beveridge lanciato nel 1942 e rilanciato nel 1944 con l’obiettivo della piena occupazione e di un vasto programma di servizi sociali, ossia, la c.d. assistenza dalla “culla alla tomba”.
Il II modello è quello dei paesi scandinavi: alta protezione sociale attraverso servizi pubblici universali e, quindi, alta tassazione secondo la capacità contributiva; l’economia tutta in mano ai privati come il sistema pensionistico. Secondo Gunnar Myrdal lo Stato doveva proteggere i cittadini da se stessi. L’opposto dell’individualismo metodologico, ossia, sull’individuo miglior giudice di se stesso.
Il III modello è quello continentale seguito da Francia, Germania e Italia (quest’ultima in coda). Secondo Judt, questo ha assicurato la massima protezione del lavoro “buono” e del reddito ma a causa dei problemi di sostenibilità finanziaria della spesa sociale, più recentemente, ha cercato e cerca di ridurre la spesa per le pensioni, per la sanità e per gli ammortizzatori sociali.
La decadenza del modello del lavoro protetto origina ed in parte è accentuata dalle conseguenze della globalizzazione e dagli effetti del progresso tecnologico che per l’appunto mettono in discussione il lavoro tradizionale. La globalizzazione aumenta l’incertezza; mina la fiducia e la cooperazione tra le parti sociali.
Accolgo questa sommaria schematizzazione che si riferisce alla c.d. età dell’oro o ai gloriosi 30 anni (1945-1975) che trascura qui tutto quello che è successo in giro per il mondo nel successivo trentennio di neoliberismo perché ci aiuta a capire e inquadrare in prospettiva storica le raccomandazioni della BCE all’Italia e ai paesi mediterranei e che i governi di Berlusconi e di Monti cercano di attuare come scolaretti diligenti. Judt ricorda come già negli anni ’70, la stagnazione e il forte aumento della disoccupazione avevano provocato quella che allora venne chiamata la crisi fiscale dello Stato. E da allora in tutti i Paesi avanzati sono stati fatti tentativi diversi e di varia intensità per ridimensionare i sistemi di sicurezza sociale e/o renderli finanziariamente sostenibili.
Hanno resistito e resistono bene i paesi scandinavi che hanno saputo assicurare un alto tasso di crescita economica e di occupazione. Al di là del caso inglese degli anni ’50 e ’60, i paesi scandinavi sono quelli che hanno meglio di altri coniugato la piena – o almeno – la massima occupazione con il welfare. È ovvio infatti che senza crescita e senza piena occupazione qualsiasi sistema di sicurezza sociale prima o poi diventa insostenibile. Tenere a mente questi modelli e questo vincolo può essere utile per capire meglio la c.d. riforma del mercato del lavoro di Monti.
La crisi dei debiti pubblici in Irlanda e nei paesi euromed, non a caso, rilancia i tentativi di ridimensionare lo Stato sociale in tutte le sue espressioni peraltro più arretrate rispetto a quelle del Centro e Nord Europa.
In Italia, Monti ha portato un pesante attacco alle pensioni e , siccome l’appetito viene mangiando, ora si scaglia sugli ammortizzatori sociali per la parte di lavoro protetto. Per chiarezza dico che il sistema è iniquo, insostenibile ed inefficiente soprattutto per la parte del c.d. workfare, formazione permanente e delle politiche attive di competenza delle regioni.
L’Italia ha poi le sue specificità mediterranee: più alta disoccupazione strutturale (di lungo termine); pensione sociale di Brodolini arrivata solo nel 1969; sistema sanitario universale arrivato nel 1978 anche esso tardi e gestito male. Le riforme di Monti mettono in discussione tutto questo in un contesto di servizi pubblici di insufficiente quantità e qualità. La riforma degli ammortizzatori sociali fatta in fase recessiva sotto un forte vincolo di bilancio porta ad una perequazione tutta interna alla classe lavoratrice. Infatti l’aumento dell’indennità di disoccupazione deve essere pagata con la riduzione dei trasferimenti a volte generosi della Cassa integrazione guadagni. È chiaro che i beneficiari di quest’ultima non sono contenti. Si riduce la protezione del lavoro “buono” per mettere tutti o quasi su livelli bassi di assistenza.
E come per la sostenibilità del debito pubblico, anche per la riforma del welfare, il problema vero è quello della crescita del PIL e dell’occupazione. Ma banchieri ed economisti, monetaristi e neoliberisti, ignorano o fanno finta di ignorare la stretta connessione bene individuata nel Piano Beveridge. È ovvio che se hai crescita, massima occupazione e un lavoro anche per gli anziani, spendi poco o molto meno per gli ammortizzatori sociali e per le pensioni.
Come si spiega il consenso di parte della sinistra alla riforma? Con motivi oggettivi e soggettivi. Il sistema esistente è sotto stress o insostenibile in un sistema economico stagnante e con alta disoccupazione. Ci sono molte cose che non funzionano e va riformato ma anche la sinistra e i sindacati, alla fin fine, sono storicamente abituati a convivere con alta disoccupazione e con forti squilibri territoriali come le sinistre di tutti i Paesi mediterranei o periferici come ci chiamano adesso.
La riforma spinge per la crescita del PIL e dell’occupazione? Non c’è una singola misura nella riforma che possa creare nuovi posti di lavoro a breve termine. Qualche effetto positivo potrebbe arrivare solo nel medio-lungo termine. La riprova si può trovare anche nel Rapporto del Centro studi Confindustria presentato a Milano alla Convention di addio alla Marcegaglia. Nello scenario al 2030 ad andamenti spontanei il PIL crescerebbe solo dello 0,7 all’anno. Saremmo condannati alla stagnazione o, peggio ancora, alla stagflation. Per questi motivi occorre agire ora e subito sulla crescita e non limitarsi ad evocazioni.
Il programma di Monti è in forte continuità con quello di Berlusconi e Tremonti. La sinistra e i sindacati vogliono la perequazione dei benefici della spesa pubblica. Va bene ma la redistribuzione deve essere interna alla classe lavoratrice. La sinistra e i sindacati vogliono la progressività del prelievo tributario. Va bene, anzi, non va bene. Intanto bisogna ridurre la progressività del sistema tributario facendo aumentare le imposte indirette rispetto a quelle dirette; riducendo subito le imposte dirette sulle imprese e sui redditi più alti, ovviamente, in nome della crescita attraverso incentivi ai privati. Se un residuo di progressività deve rimanere, essa deve esplicare i suoi effetti all’interno della categoria del lavoro dipendente.
Le proposte di riforma fiscale – più correttamente potrei parlare di tax deform – che vedono al centro l’IRI (imposta sul reddito imprenditoriale) nelle intenzioni vorrebbe sciogliere o quanto meno allentare fortemente il coordinamento tra imposte personale e imposta sulle imprese e ora sugli studi professionali. Abbiamo visto l’anno scorso uscire i fitti dei fabbricati dalla tassazione progressiva. Ci si avvia verso le ultime tappe di un processo di cedolarizzazione dell’imposta personale che lascia la progressività solo all’interno del lavoro dipendente.
Il sistema è iniquo. La destra ne è consapevole ma non vuole strumenti con cui procedere a redistribuzioni dai ricchi ai poveri. Vedi il caso delle imposte di successione. Anche su questo punto Monti rivendica la continuità con il governo precedente. E perché la sinistra dovrebbe appoggiare riforme che non creano nuovi posti di lavoro?
Mi sono lasciato prendere dalla passione. Ho parlato della riforma Monti e ho trascurato il libro di Judt. È un’appassionata difesa della socialdemocrazia, del welfare State e del ruolo economico dello Stato. Ad un certo afferma: “c’è solo una cosa peggiore dell’avere troppo Stato. Averne troppo poco”.