Chi parla di rivoluzione copernicana in materia fiscale o non sa di che cosa parla oppure mente spudoratamente. Ovviamente il riferimento va all’annuncio del Presidente del Consiglio della settimana scorsa. Dopo l’annuncio del premier, i commentatori dei principali giornali – alcuni anche increduli e scettici – si sono buttati a capofitto sul nuovo e più avanzato programma del PD. Non sono mancati i commenti di quanti si ricordavano delle analoghe proposte di Berlusconi del febbraio 2013.
In quella occasione Berlusconi, oltre all’abolizione dell’IMU sulla prima casa e dell’IRAP, propose la restituzione dell’IMU 2012 e un condono fiscale tombale, a suo dire, motivato da una profonda riforma fiscale. Sull’ultimo punto l’ex Premier mentì spudoratamente perché dopo il condono del 2002 e quelli del 2010 e 2011 – prorogati da Monti sino al 2012 – c’era ben poco da condonare. Bisogna ricordare che allora l’utilizzo dell’arma anti-tasse non funzionò e che Berlusconi non vinse le elezioni come gli era riuscito di fare nel 2001 e nel 2008.
Bisogna dare atto che Renzi non ha proposto un nuovo condono anche perché ormai da decenni siamo in regime di condono permanente e c’è una nuova linea di dialogo dell’Agenzia delle entrate con i contribuenti-evasori che naturalmente va a beneficio soprattutto di quanti sono soggetti agli studi di settore che ormai da sette anni sono stati continuamente revisionati al ribasso per tener conto “opportunamente” degli effetti della stagnazione economica in cui è caduta l’economia italiana dopo le pesanti recessioni del 2009 e del 2012.
A quanto pare all’insaputa del ministro competente, Renzi ha annunciato un piano riduzione delle tasse per 45 miliardi di euro in tre anni. Non ha previsto alcun condono. Non ha spiegato come intende finanziare un simile rilevante sgravio. Lo hanno fatto nei giorni scorsi i suoi esperti di economia e finanza e, più tecnicamente il nuovo commissario alla revisione della spesa Gutgeld. Gli sgravi saranno finanziati in parte con i tagli della spesa e in parte con i margini di flessibilità che il governo pensa di ottenere dalla Troika. Vedremo all’opera le straordinarie capacità di Gutgeld dopo il fallimento di tutti i precedenti commissari alla spending review. E vedremo se davanti a tanta irresponsabilità, la Troika sarà disponibile ad aumentare i margini di flessibilità finanziaria se le riforme di cui mena grande vanto il premier sono quelle costituzionali e quelle della scuola e della PA. Le prime non hanno alcuna rilevanza economica e finanziaria e le seconde, semmai saranno applicate correttamente, potrebbero avere qualche effetto positivo nel medio-lungo e non nel breve termine. In un post precedente ho cercato di spiegare come ai complessi meccanismi dell’output gap e del deficit strutturale e non mi pare che l’Italia si troverà nelle condizioni migliori per potere invocare maggiore flessibilità per il fondamentale motivo che negli ultimi anni ha tagliato gli investimenti che avrebbero potuto accrescere il gap tra la crescita effettiva e quella potenziale e, di conseguenza, la flessibilità. A mio giudizio, si tratta di conti fatti senza l’oste e di annunci programmatici campati in aria per recuperare consenso a fronte del calo di popolarità di cui soffre il grande rottamatore.
Alcuni hanno scritto anche che l’annuncio possa essere stato un diversivo per distrarre le masse dal caso Roma e da quello di Palermo dove il partito democratico si trova in grosse difficoltà perché se manda a casa Marino e Crocetta rischia di favorire l’ulteriore successo del Movimento 5 stelle e se li mantiene al potere rischia comunque di perdere ulteriori consensi. Si tratta di situazioni veramente difficili e complesse. Personalmente non ritengo che questa argomentazione sia fondamentale per spiegare l’uscita disinvolta di Renzi. Dico che tale discorso mi ricorda le discussioni ferragostane, le grandi riflessioni sotto l’ombrellone, che politici e commentatori facevano dopo che il governo, in fretta e in furia, aveva pubblicato il Documento di programmazione economica e finanziaria. Sarebbe quindi stato molto più serio da parte di Renzi aspettare la Nota di aggiornamento al Documento economia e finanza atteso per settembre per avere un quadro della situazione economica e finanziaria più aggiornato e prendere decisioni più meditate. E non al ritorno di un viaggio in Africa dove si è meritoriamente occupato di altri problemi.
Trovo a dir poco disinvolta l’idea dei suoi esperti che uno sgravio fiscale strutturale si possa finanziare con i margini di flessibilità eventualmente strappati alla Troika. In altre parole, si finanzierebbero gli sgravi con un maggiore indebitamento. Una tale misura sarebbe una plateale violazione del principio del pareggio di bilancio e, in teoria, della golden rule che prescrive l’indebitamento solo per finanziare investimenti direttamente produttivi. Se questo è vero – come è vero – allora Renzi e il suo ministro dell’economia e delle finanze dovrebbe battersi non per avere qualche miliardo in più da una gestione più flessibile delle regole di bilancio ma per la golden rule. Ma sottili lingue biforcute difendono la proposta di Renzi di abrogare l’imposta sulla prima casa dicendo che questa rappresenta il risparmio degli italiani e che esso va protetto perché è condizione necessaria per potere rilanciare gli investimenti. Si tratta di un’argomentazione fasulla intanto perché detto risparmio non è liquido e solo se si verifica un effetto ricchezza che dipende dal mercato immobiliare, può spingere gli italiani a spendere di più. Se la ripresa è stentata e debole sono più efficaci gli investimenti diretti da parte dell’operatore pubblico anche a livello locale. Ma se si taglia la maggiore fonte di entrata dei comuni questi investiranno sempre meno per la manutenzione delle strade, l’edilizia popolare e l’arredo urbano. Ma la Confcommercio è corsa subito in soccorso del governo sostenendo che a livello di finanza locale ci sarebbero 73 miliardi di sprechi e che 23 di questi sono eliminabili senza nessuno effetto depressivo sulla domanda. A me i numeri di Confcommercio non sembrano credibili.
Altri esegeti ed apologeti della rivoluzione fiscale di Renzi giustificano la proposta come strumento per rompere la maledizione delle socialdemocrazie del XXI secolo secondo cui la sinistra europea non può vincere senza fare i conti con la questione fiscale e con il modello sociale europeo. Dopo otto anni, i socialdemocratici sono tornati al governo della Svezia e i loro predecessori si sono ben guardati dallo smantellare il welfare state. E la Svezia insieme all’Austria, la Francia, il Belgio, la Danimarca hanno una pressione tributaria ben più alta di quella italiana. Non ci si rende conto che la pressione fiscale – a parte gli sprechi o l’uso improprio che i politici corrotti fanno della spesa pubblica – è una questione fondamentale di democrazia che trova il suo fondamento economico nella tendenza storica all’aumento della spesa pubblica. In altre parole, al crescere del reddito medio pro-capite i cittadini elettori vogliono consumare non solo più beni privati ma anche più beni pubblici. Sostenere che essi vogliano consumare solo più beni privati è falso – senza trascurare che il soddisfacimento di certi bisogni pubblici con beni pubblici quasi sempre è più economico ed efficiente che farlo con finanziamenti privati attraverso le assicurazioni. Sul caso sanità, le statistiche dell’OCSE dimostrano che la sanità Usa costa il doppio della media dei paesi OCSE in cui prevalgono i sistemi pubblici di finanziamento.
In conclusione se Renzi vuole affrontare direttamente e più efficacemente il rilancio della crescita e dell’occupazione dovrebbe intervenire con un massiccio programma pluriennale di investimenti pubblici e non con la agevolazioni e i sussidi alle imprese e alle famiglie i cui risparmi eventualmente e dopo l’intermediazione bancaria si tradurrebbero in maggiori investimenti privati.
Sulla questione fiscale ieri è intervenuto saggiamente il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco cercando di scoraggiare la proposta. Il problema è la produttività che non cresce da un quarto di secolo. L’Italia in pratica è nella c.d. stagnazione secolare. Se vuole sostenere la crescita l’Italia deve investire massicciamente nel capitale umano, nel capitale fisico e nell’organizzazione del lavoro; deve investire in ricerca e sviluppo e deve promuovere una grande ristrutturazione del suo sistema produttivo non esposto alla concorrenza internazionale. Inganna se stesso e la gente se pensa che l’efficienza della pubblica amministrazione possa migliorare semplicemente con i tagli o reintroducendo obsoleti criteri di gerarchia. Si tratta di compito estremamente complicato e difficile che implica una programmazione a medio e lungo termine. Abbassare le tasse è ricetta semplicistica. Quando lo fece Reagan negli USA degli anni ’80, lasciò un debito pubblico più grande di quello che aveva trovato. Speriamo che Renzi voglia ascoltare sagge raccomandazioni di Visco e non quelle dei suoi cortigiani e adulatori.