Due considerazioni preliminari. Una di contesto generale europeo e globale e una seconda di contesto nazionale. La prima riguarda la concorrenza fiscale e il regime di piena libertà dei movimenti di capitale di cui pochi osservatori e studiosi tengono conto nelle loro analisi. Da più decenni ormai , nell’Unione europea prevalgono governi neo-liberisti di centro destra che ritengono la concorrenza fiscale idonea a comprimere la capacità fiscale di molti paesi membri e, quindi, la loro capacità di spesa. Pressati dalla concorrenza originata dai paesi emergenti con salari e standard sociali più bassi ritengono che il modello sociale europeo non sia più sostenibile e che esso vada drasticamente ridimensionato al costo anche di tagliare diritti civili e sociali. Alcuni sostengono esplicitamente detta tesi, altri invece la sottacciono ma la perseguono indirettamente e surrettiziamente valorizzando i meccanismi del libero mercato. In ossequio a questa impostazione, nel 1994 la Commissione Santer – con Mario Monti commissario per la fiscalità – pose fine alla politica di armonizzazione fiscale che fino ad allora aveva dato scarsi risultati proprio perché i governi avevano sempre respinto le varie proposte che la Commissione aveva avanzato. Vuoi per gli effetti generali della globalizzazione, vuoi per le regole europee in materia di concorrenza fiscale e i c.d. aiuti di Stato, vuoi per le restrittive regole di bilancio implementate non solo dal Trattato di Maastricht (1992) ma soprattutto dal trattato intergovernativo – meglio noto come Fiscal Compact – e dai relativi regolamenti, negoziati durante la grande crisi, si può dire che i governi dei paesi membri dell’Unione europea hanno perso non solo la sovranità monetaria ma anche quella fiscale. Ma molti di essi, in preda a rigurgiti nazionalistici, non vogliono ammetterlo anche se poi incolpano l’Europa delle misure più sgradevoli che essi stessi hanno sottoscritto.
La seconda considerazione generale è di carattere interno al nostro Paese. La grande riforma fiscale della Repubblica è quella varata e attuata negli ultimi anni del centro-sinistra (1973-74). Essa ha formalmente adeguato il nostro sistema tributario a quello degli altri paesi europei anche in attuazione delle direttive comunitarie che imponevano a tutti i paesi membri l’adozione dell’imposta sul valore aggiunto e la progressiva armonizzazione delle accise. Il sistema tributario è fatto di istituti sostanziali (Irpef, Irpeg ora Ires, Iva, ecc.) e di regole procedurali che è necessario rispettare per rendere operanti detti istituti. In altri parole, oltre a disegnare l’architettura del sistema, servono regole per renderlo effettivo. A tale scopo serve a monte delle norme la volontà politica e la capacità amministrativa di renderlo pienamente operativo . Anche un sistema tributario ben disegnato può produrre iniquità ed inefficienze se non viene correttamente applicato. Il problema fondamentale di tutto l’ordinamento giuridico italiano non solo di quello fiscale è sempre stato ed è quello della effettività. In alcuni casi, il legislatore produce anche delle buone norme in questo o in quel settore ma, spesso, molte delle norme restano inattuate come è successo del resto con la stessa Costituzione del 1948. Abbiamo la Costituzione più bella del mondo ma il Paese affonda nella ingiustizia sociale e tributaria e, in generale, vive in un clima di illegalità e corruzione diffusa 1). Basta sommare la base imponibile sottratta alle tasse e ai contributi sociali e tenere conto dell’economia sommersa, del fatturato della criminalità organizzata, della corruzione, dei proventi del traffico della droga e della prostituzione per arrivare ad un stima di circa un terzo del PIL prodotto e confezionato nella illegalità. Basta considerare i dati dell’evasione fiscale come stimati dall’Agenzia delle entrate (120 miliardi all’anno), dell’evasione contributiva (100 miliardi secondo recente stima del Presidente dell’INPS) ed aggiungervi i 60 miliardi della corruzione (secondo la Corte dei conti) per arrivare a 280 miliardi. E’ chiaro che questi dati vanno assunti ed interpretati con molta cautela perché ci può essere doppia contabilizzazione tra la base imponibile sottratta alle imposte dirette ed indirette e la stima delle imposte non prelevate sul valore aggiunto prodotto nell’economia sommersa. Ma se anche calcoli più attenti facessero scendere la stima di cui sopra ad un quarto o a un quinto del PIL (prodotto interno lordo) la situazione non cambierebbe qualitativamente.
Abbiamo avuto diversi e reiterati provvedimenti per fare emergere l’economia sommersa ma non hanno funzionato. Ne servono altri e meglio congegnati “per fare crescere l’economia onesta” – come ha detto recentemente Papa Francesco.
Anche perché in Italia dobbiamo tener conto del modello particolare di accertamento delle imposte dirette e indirette che riguarda le piccole e medie imprese e i lavoratori autonomi in generale.
Anche in questo caso per come attuato il modello produce non solo due modelli diversi di accertamento ma anche l’integrazione tra economia “legale” ed economia sommersa devastando il principio di eguaglianza, ossia, dell’uniformità e generalità di trattamento. Per spiegare questa affermazione sono costretto ad aprire una parentesi sugli studi di settore e/o sul concordato di massa e/o accertamenti automatici di massa. Gli studi di settore possono essere costruiti con due finalità diverse: la prima come ausili e/o supporto tecnico per i verificatori che accertano comunque il reddito effettivo; una seconda come strumento per stimare direttamente i redditi da dichiarare da parte delle piccole e medie imprese e dei lavoratori autonomi 2).
La legge sugli studi di settore fatta approvare da Franco Gallo, attuata nella gestione Vincenzo Visco 1996-2001 scelse una terza via: quella di stimare i ricavi e non i redditi da dichiarare perché si voleva evitare la catastizzazione dei redditi. Si fermava a metà strada perché ai ricavi stimati si applicano quindi le regole di determinazione del reddito netto imponibile. Governi di Centro-sinistra e Centro-destra non hanno più modificato questo meccanismo perverso ma tutti si sono generosamente esercitati a cambiare continuamente le regole di determinazione del reddito imponibile anche in prossimità della scadenza dell’anno finanziario nel tentativo maldestro di sorprendere i contribuenti con le mani nel sacco. Ma la sorpresa non poteva esserci perché gli studi di settore vengono studiati e omologati da una Commissione ministeriale di verifica in cui sono presenti i rappresentanti delle categorie all’interno delle quali si annidano gli evasori. In altre parole si è adottato un regime di piena trasparenza che non c’è né in Francia né negli Stati Uniti. L’ampia partecipazione delle categorie interessate identifica ed attua uno schema consociativo-collusivo che finisce per legalizzare l’evasione. Non è la leale collaborazione che richiederebbe un corretto rapporto tra Amministrazione finanziaria e contribuenti. Non solo, ma la possibilità di verificare nel corso dell’anno d’imposta la congruità e la coerenza dei dati del contribuente con il modello Gerico, messo a disposizione dall’Amministrazione finanziaria, induce “costringe o incentiva” i contribuenti con ricavi maggiori di quelli stimati dallo studi di settore a fare acquisti in nero e, quindi, all’integrazione tra economia “legale” e quella sommersa, semi-sommersa e, persino, criminale.
Se questi sono i problemi più gravi della riforma fiscale in Italia, occorre constatare che essi non vengono minimamente toccati da quella di Renzi che, più che riformare, deforma il sistema tributario perché: a) introduce nuovi condoni; b) depenalizza in parte le valutazioni di bilancio incentivandone la falsificazione già ampiamente praticata; c) riduce massicciamente il numero dei controlli 3).
Panebianco sul Corriere della Sera – per citarne uno tra i tanti che sproloquiano in materia di tasse e lo stesso Renzi che parla di rivoluzione copernicana – ragionano per partito preso, sugli degli assunti non dimostrati e fallaci. Assumono che in Italia la Sinistra si identifica con il “tassa e spendi” quando nell’ultimo quarto di secolo il Centro-sinistra è stato artefice di tre grandi manovre di risanamento dei conti pubblici (1992-93, 1997, 2007). Se fosse vera la tesi generica della destra neoliberista mondiale, anche Monti avrebbe in fatto seguito la linea “tassa e spendi”.
Assumono implicitamente che in Italia tutti i bisogni pubblici siano ampiamente soddisfatti e che sul lato della spesa pubblica ci sia da tagliare solo il “grasso” e l’inefficienza. La verità è che ci sono si sprechi ma ci sono anche bisogni pubblici insoddisfatti e servizi pubblici di qualità molto bassa.
Assumono che in Italia lavoratori dipendenti, pensionati e loro sindacati siano masochisti perché si opporrebbero al taglio delle tasse sul lavoro e sulle imprese che creano gran parte del lavoro. E quando propongono o difendono forme leggere di tassazione patrimoniale – vedi il caso dell’Imposta Municipale Unica – sarebbero presi dalla bramosia di redistribuire quel poco che c’è invece di lasciar crescere la torta – come se le diseguaglianze non stessero crescendo, come se non ci fossero più di sette milioni di senza lavoro, come se non ci fossero milioni e milioni di working poor e, in totale, un quarto e oltre della popolazione sotto forte stress economico; come se la stessa classe media non si fosse impoverita a tal punto che lo stesso Renzi le ha elargito prioritariamente gli 80 euro; come se il rapporto patrimonio/reddito in Italia non fosse uno dei più alti nel mondo .
Non ultimo, i signori che accusano la sinistra di adottare sempre il “tassa e spendi”, fanno finta di non sapere che in Italia non ci sia un gravissimo problema di rendita parassitaria e di privilegi anche sulle pensioni questi si storicamente alimentati anche il contributo della sinistra e – perché non dirlo – dalla stessa Corte costituzionale di oggi e di ieri. Già negli anni ‘70 fiorivano le prime analisi sulla giungla retributiva (vedi ad es. Ermanno Gorrieri, 1972) , pensionistica e sulle rendite di protezione e parassitarie. E lo stesso Gianni Agnelli nel 1974 prima di sottoscrivere il Patto Agnelli-Lama il 25 gennaio 1975, non avesse teorizzato e auspicato un patto tra i produttori proprio per cercare di ridurre gli alti livelli che avevano raggiunto le rendite nel nostro Paese. Nel lungo periodo di stabilizzazione dell’economia italiana che seguiva anche con i governi di solidarietà nazionale, detto Patto veniva trascurato e non veniva perseguita una equa ripartizione degli oneri perché si dovevano sempre proteggere gli evasori fiscali e i rentier. E’ qui il cuore del problema che negli ultimi 40 anni nessun governo di Centro-sinistra e di Centro-destra ha saputo affrontare alla radice: il problema della crescita costante del debito pubblico e del patto implicito sottostante per cui si preferisce chiedere ai ricchi soldi in prestito e non prenderli loro a titolo di imposta per finanziare parte del welfare e parte della spesa corrente. Si è preferito il finanziamento in deficit proprio per assicurare l’impunità agli evasori fiscali, ai rentier e a quanti, non credendo nel futuro di questo Paese, hanno sempre esportato all’estero i loro capitali.
Se questa interpretazione delle tendenze storiche della nostra finanza pubblica sono fondate – come io ritengo – allora è facile capire come alcune misure contenute nei recenti decreti legislativi di attuazione della delega fiscale mi sembrano confermare il patto implicito tra governo e capitale di cui sopra. Da un lato il modello di capitalismo assistenziale per cui si socializzano le perdite e si privatizzano i profitti, dall’altro si assicura la più ampia protezione agli evasori, ai rentier e all’esportazione illegale dei capitali – vedi il caso della ipocrita voluntary disclosure, alias, condono.
Né i decreti legislativi citati né tanto meno le promesse di sgravi fiscali alle imprese e alle famiglie affrontano minimamente i problemi di fondo della finanza pubblica anzi rischiano di aggravarli ulteriormente. Non a caso in Italia, Renzi ha ottenuto l’appoggio entusiasta di Confindustria e dei grandi giornali che fiancheggiano tutti la sua linea. Per le famiglie con redditi medio-bassi, il taglio delle tasse comporterà inevitabilmente la riduzione dei servizi pubblici nazionali e locali.
Se c’è evasione, se c’è esportazione clandestina di capitali, se alcuni possono fare lo splitting (suddivisione del reddito tra i familiari) e altri (i lavoratori dipendenti e pensionati) no, se non si considera il livello della domanda di servizi pubblici, la pressione tributaria è sempre altissima su chi paga le tasse. Ma il livello della pressione tributaria è e resta una questione empirica, di democrazia sostanziale. Se la maggioranza assoluta
(o meglio ancora quella qualificata) vuole soddisfare i bisogni pubblici con la produzione e/o la fornitura di beni e servizi pubblici hanno tutto il diritto di farlo. Ma la questione non è solo di democrazia, in alcuni casi – vedi il caso in cui la spesa pubblica in parte significativa è diretta a soddisfare i bisogni dei più deboli, il caso dell’emergenza profughi in Europa – viene giustamente presentate come una scelta di civiltà, allora raggiungere il consenso necessario con quanti ritengono tale quella dello Stato minimo diventa più difficile se non impossibile. In questo caso pagano inevitabilmente i più deboli. Al di là delle leggi esistenti, è anche una delicatissima questione di etica pubblica e/o della responsabilità sociale.

Note:
1) Per il modello dell’economia delle corruzione vedi Giorgio Galli, L’Italia sotterranea. Storia, politica e scandali, CDE, Milano, 1983 dove l’autore accanto al modello del capitalismo assistito aggiunge l’economia della corruzione a partire dal 1943. Galli poi estende l’analisi al 1990 elencando tutti gli scandali della I repubblica. La situazione non pare sia migliorata con l’avvento della seconda.
2) Questa seconda impostazione è stata presentata in particolare da Tremonti come un modo per fare controlli e/o concordati di massa e “sconfiggere” l’evasione.
3) Rispetto a qualche annuncio minaccioso della Direttrice Orlandi secondo cui l’Agenzia delle entrate sarebbe in grado di controllare addirittura i saldi giornalieri dei conti correnti dei contribuenti, i dati resi noti dalla Guardia di finanza e dal Ministero dell’economia e delle finanze denunciano un calo drastico dell’attività di controllo in parte dovuto alla situazione di sbandamento provocata dalla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima la nomina di 800 dirigenti dell’Agenzia. Il risultato più macroscopico è che per il 2015 nella Convenzione recentemente approvata sono previsti 400 mila verifiche in meno rispetto al 1.775.000 del 2014. A questo riguardo, va precisato che usare il termine verifica è improprio perché, in realtà, si tratta di controlli parziali automatizzati nella logica del “ti ho pizzicato”. Ma non basta, sono crollate anche le indagini finanziarie fatte dalla Guardia di finanza e dall’Agenzia e, nella linea buonista, recentemente la Orlandi ha annunciato che ai contribuenti che hanno aderito agli studi di settore e le cui dichiarazioni evidenziano anomalie non saranno notificati accertamenti bonari ma semplici lettere-invito a chiarire le loro posizioni. Se si mettono insieme una serie di misure contenuti nei decreti delegati di riduzione delle sanzioni, di moltiplicazione dei ravvedimenti, delle mediazioni, di rialzo delle soglie al di sopra delle quali scatterebbero sanzioni penali e il crollo dei controlli, il messaggio agli evasori e agli elusori è chiaro per chi vuole o sa leggerlo.