Una manovra da 26,5 miliardi che potrebbero diventare 29,5 se la Commissione europea accogliesse la proposta del governo di aumentare il deficit di altri 2 decimi di punto portandolo al 2,4% del PIL. La richiesta è motivata dalla spesa programmata per i migranti ma il governo non chiede maggiore flessibilità per il fatto che abbiamo avuto due terremoti, diversi dissesti idrogeologici, scuole da mettere in sicurezza, strade statali e locali ridotte a colabrodo. Eppure nei primi due casi si tratta di eventi imprevisti – si fa per dire – ai quali non si può provvedere solo con gli stanziamenti normali della protezione civile. Anche negli altri casi, si tratta di spese straordinarie di notevole spessore che si rendono necessari quando, per anni e anni, non si provvede all’ordinaria manutenzione. Lo sappiamo i politici italiani amano l’inaugurazione ma non l’ordinaria manutenzione che non costituisce un evento che richiede la presenza del ministro, del governatore regionale o del sindaco e, così, all’occorrenza si tagliano i fondi per la manutenzione. Ma se lo fai per più anni, poi hai bisogno di fondi straordinari che possono essere mobilitati solo con il ricorso all’indebitamento perché non si può fare manutenzione straordinaria con aumenti straordinari delle imposte o con fondi messi da parte in via precauzionale. Ma qui scattano i vincoli europei che non sono stabiliti dai burocrati di Bruxelles ma dai governi che hanno sottoscritto, il SixPack, il Twopack (i tre regolamenti che modificano il Patto di stabilità e crescita del 1997, il Fiscal Compact, e , nel nostro caso, dal governo Monti che ha prontamente accolto anche la modifica dell’art. 81 della Costituzione ed emanato la legge rafforzata n. 243/2012.
Coerentemente appena nominato Renzi è corso a Bruxelles a rassicurare tutti dicendo che avrebbe rispettato le regole approvate dai suoi predecessori e che avrebbe agito nei margini della flessibilità prevista dalle medesime regole. E così ha fatto e sta facendo salvo a lasciarsi andare a qualche affermazione da gradasso quando la Commissione non apprezza qualche decisione di merito. Il saldo e i dati sulle entrate, sulle spese sono tutti provvisori e non vale la pena soffermarsi a lungo su di essi. Quello che conta secondo me, è se il disegno della legge di stabilità affronta i veri problemi dell’economia italiana e della finanza pubblica italiana.
A me pare che essa non lo faccia quanto meno nella misura che sarebbe necessaria.
Siamo in stagnazione storica. La produttività non cresce ormai da un quarto di secolo e che cosa fa il governo? Poco o niente. Ma se la produttività non cresce più o meno in tutti i settori economici, è chiaro che questo incide sulla competitività del sistema-paese. Certo ci sono le imprese manifatturiere che hanno saputo ricollocarsi sui mercati ma si tratta del 20-22% e, da sole, esse non bastano a spingere tutta l’economia su un sentiero di crescita sostenuta e sostenibile.
Al riguardo bisogna citare la misura degli ammortamenti deducibili al 140% per gli acquisti di beni strumentali e la proroga della detassazione del salario di produttività. La prima misura è potenzialmente positiva ma rischia di non essere operativa nel breve termine perché le imprese rinnovano gli impianti e allargano la propria capacità produttiva dopo che utilizzano in percentuale molto elevata gli impianti e quando si aspettano che la ripresa si consolidi e arrivano ordinativi crescenti. Non mi sembra che questa sia il caso dell’Italia, dell’Ue e del resto del mondo. Tutti dicono che la ripresa è debole e andrebbe meglio consolidata.
Quanto alla tassazione agevolata del c.d. salario di produttività – ormai in essere da 7 anni, è noto che spesso e volentieri esso ha poco a che fare con effettivi aumenti della produttività, che ha dato luogo anche ad accordi di tipo collusivo per pagare meno tasse, che comporta una notevole complicazione nella gestione delle ritenute alla fonte e che, non di rado, sta creando differenziali salariali motivati solo dall’agevolazione fiscale.
La LdS è costruita in un’ottica di breve termine per due motivi. Il primo è quello elettorale. La Primavera prossima si vota in 1287 comuni tra cui Napoli , Milano e Roma. È un testo elettorale molto delicato a fronte del calo di popolarità del governo e dello stesso premier. Questi non sembra avere la veduta lunga e se ce l’ha la nasconde bene ed è noto che è sempre più difficile affrontare e risolvere i problemi strutturali. È tale il problema del Mezzogiorno che pesa come un macigno sulle prospettive a medio-ungo termine dell’economa italiana. Ma per Renzi il problema non esiste e lo dimostra l’impegno che pone su di esso: 150 milioni. Ad agosto – quando si discutevano i dati agghiaccianti pubblicati dalla Svimez sul disastro meridionale – per effetto di un colpo di sole il premier aveva promesso un master plan ma di esso non c’è più traccia come lamenta il presidente dei giovani industriali Marco Gay.
Il disegno di legge di stabilità mantiene le agevolazioni fiscali per le ristrutturazioni, gli acquisti di elettrodomestici e le opere di efficientamento energetico. Certo sostenere l’edilizia che nella crisi ha perso oltre 700 mila posti di lavoro è importante ma questo è un settore che non contribuisce molto alla competitività del sistema economico. Aiuta le famiglie negli acquisti di beni durevoli e nel miglioramenti delle abitazioni, ma vista la scarsità delle risorse, sarebbe stato meglio investire direttamente in altri comparti produttivi che devono migliorare la loro efficienza.
Ma i governi populisti sanno che gli italiani amano le loro case e tengono ad esse molto di più di quanto tengono al decoro delle stesse strade e dei quartieri su cui insistono. Da qui anche la scelta sciagurata di abolire l’IMU sulla prima casa.
Non ha fondamento secondo me la tesi propalata dal governo secondo cui con detto risparmio d’imposta si sostiene la domanda interna di consumi. Questo può valere per le famiglie con i redditi più bassi ma è improbabile per le famiglie con i redditi più alti. Ma se quello proposto fosse veramente il vero obiettivo, il governo avrebbe potuto abbassare di un punto o due l’aliquota dell’IVA. Tutto fa pensare che il governo riducendo l’IMU, l’Irap e altre imposte dirette quest’anno o quello prossimo, in realtà, punti a ridimensionare ulteriormente quel poco di progressività che residua nel sistema tributario.
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