Riforma del capitalismo e democrazia economica. Per un nuovo modello di sviluppo, a cura di Laura Pennacchi e Riccardo Sanna con il coordinamento dell’Area delle politiche di sviluppo della CGIL, Ediesse, Roma, 2015.
Non è facile presentare un libro come quello curato da Laura Pennacchi e Riccardo Sanna perché si tratta di una ricca raccolta di ben 32 saggi interessanti che si occupano della crisi del capitalismo, del modello di crescita economica, dei fenomeni di distribuzione e redistribuzione perversi prodotti dalla crisi 2007 -2014, del sistema monetario internazionale, della globalizzazione, del ruolo delle banche centrali, delle banche universali, della finanza rapace, dello sviluppo sostenibile, insomma, dei massimi sistemi di cui si occupano – continuamente quanto superficialmente – i mass-media ma di cui il cittadino comune stenta a farsi un’idea perché , non di rado, se ne parla a vanvera senza approfondire le cause profonde della crisi, senza riuscire ad elaborare ipotesi credibili di fuoriuscita dalla crisi che attanaglia in particolare l’Unione europea ormai da oltre otto anni.
Impossibile dar conto in maniera analitica di tutti i 32 saggi. PQM mi propongo di seguire la seguente scaletta: crisi del capitalismo e stagnazione secolare; riforma della finanza; salvaguardia della democrazia; nuovo modello di sviluppo e di finanza.
Crisi e/o riformabilità del capitalismo. C’è una crisi del capitalismo – in realtà bisognerebbe specificare di quale capitalismo – dopo la sua vittoria storica sui sistemi di socialismo reale. Sul punto vedi Laura Pennacchi p. 24 che riprende l’elenco di Buzan e Lawson (2014): il capitalismo liberal democratico; quello socialdemocratico; il capitalismo autoritario competitivo; il capitalismo burocratico di Stato. Che ci sia una crisi è indubbio. Diversi saggi riprendono la tesi della stagnazione secolare di Larry Summers e altri economisti. Essa interessa i principali paesi occidentali: USA, UE e Giappone. Con riguardo all’UE, ovviamente, essa assume contorni più gravi nei paesi euromed. In Italia, il fenomeno ci interessa da vicino da circa un quarto di secolo e, quindi, non stiamo parlando di ipotesi ma di un fatto concreto. Ed essa non si cura né con la ottusa politica della austerity né con l’allettamento monetario ( Quantitative Easing) nell’eurozona in ritardo ed inefficace e che fin qui in America e in Europa ha avvantaggiato prevalentemente i ricchi (Giacché: 127).
Che il sistema capitalistico sia riformabile o irriformabile è un altro problema. Personalmente ritengo se il capitalismo è una istituzione creata dall’uomo, esso è riformabile come tutte le istituzioni create dall’uomo. Il problema analizzato nella logica dell’azione collettiva è quello di verificare se c’è una vera volontà maggioritaria per fare la riforma e quale tipo di riforma. Oggi tutte le forze politiche e quelle sociali si dicono riformiste. Il problema è di capire quali sono le riforme che fanno avanzare le sorti dei lavoratori e dei più deboli e quelle che consolidano il potere dei più forti ; quelle che danno ai cittadini nuovi strumenti di partecipazione e deliberazione oppure quelle che fanno degenerare la democrazia verso l’oligarchia o la dittatura.
Come reagire ? spingendo il governo italiano ad agire coerentemente e a porre con forza la revisione delle regole assurde del Trattato di Maastricht, del Fiscal Compact , del Two Pact , del Six Pact e annessi regolamenti e protocolli che hanno focalizzato la loro attenzione sulla funzione di stabilizzazione, sul risanamento dei conti pubblici, sul problema del debito pubblico trascurando del tutto o mettendo in linea subordinata il problema della crescita e dell’occupazione. Il governo Renzi forse comincia a capirlo dopo che, per due anni, si è trastullato con la favola della flessibilità (Militello: 454) e dopo aver lasciato sola la Grecia (Baranes: 216-217) che aveva posto la questione all’ordine del giorno ma che è stata lasciata sola paradossalmente anche dai Paesi euromed che avevano ed hanno un diretto interesse a modificare le suddette regole. In primo luogo, queste non distinguono appropriatamente il debito emesso per finanziare spese correnti e quello necessario per finanziare gli investimenti nel capitale materiale ed immateriale. Senza di questi l’economia reale non tornerà a crescere a tassi sostenuti e sostenibili, il capitalismo italiano languirà, il capitale finanziario approderà su altri lidi e nel paese ci sarà ben poco da riformare. Si confermerebbe la tesi della stagnazione secolare. Nei paesi euromed c’è un problema grave di domanda interna per consumi e investimenti e, invece, i governi dei PM sono costretti a perseguire una svalutazione interna dei salari e dei prezzi per guadagnare margini di competitività. In altre parole sono costretti a inseguire un modello di crescita export-led che da ultimo non tiene conto neanche del rallentamento della crescita a livello mondiale e dei problemi che l’accumulazione di riserve valutarie da parte di alcuni Paesi (vedi il caso della Germania che produce la maggior parte del surplus commerciale dell’eurozona) crea gravi squilibri strutturali all’economia dell’eurozona e a quella del resto del mondo.
Infatti, la crisi dei paesi più ricchi influenza e permea anche il processo di globalizzazione e, quindi, anche le economie di interi continenti (Africa, Cina, India ) e dei paesi emergenti c.d. Brics e, in diverso modo, i vari settori produttivi all’interno di essi. Di conseguenza tutta l’economia mondiale è in grande difficoltà. C’è un rallentamento sensibile della crescita a livello mondiale.
Questo non ha necessariamente molto a che fare con il modo di produzione capitalistico ma piuttosto con la scarsa qualità delle istituzioni sovranazionali che , dopo il crollo del sistema di Bretton Woods nell’agosto 1971, non hanno saputo approntare una efficiente ed efficace governance economica a livello planetario. Poco o nulla concludono in termini di coordinamento effettivo le ricorrenti riunioni dei vari Vertici mondiali quali i G-7, i G-8 e i G-20. I potenti del mondo si sono affidati ai mercati, lasciando in fatto mano libera alla finanza rapace. Anche a questo riguardo, c’è una precisa responsabilità europea. Gli europei hanno avuto per diversi decenni la responsabilità della direzione del FMI ma non hanno saputo utilizzarla per proporre nulla di diverso di quanto, in questi 45 anni, ha proposto la potenza egemone, ossia, gli USA. E del resto, come avrebbero potuto farlo se gli stessi europei non hanno saputo mettere a punto un sistema monetario europeo equilibrato ed in grado di promuovere una crescita sostenuta e sostenibile nell’ambito della loro stessa Unione.
Forse è più urgente riformare la finanza se le distorsioni e i mali peggiori che avrebbe prodotto il capitalismo sono in realtà mali prodotti dalla finanziarizzazione dell’economia. Giacchè (113) ci ricorda che nel 2007 la finanza valeva il 356% del PIL rispetto al 100% del 1980. Inoltre, c’è un’abbondanza di risparmio a livello mondiale – di cui aveva parlato Ben S. Bernanke già nel 2005 – eppure questo non si traduce in investimenti nell’economia reale. Perché? Perché con la liberalizzazione dei mercati finanziari a partire dai primi anni ’80 le banche non producono più un servizio pubblico” (Leon :224) ma seguendo le discutibili direttive della BCE puntano solo al rafforzamento del capitale. Il mantra è che le banche sono imprese come le altre, devono fare profitti e non importa se lo fanno anche a danno degli stessi azionisti e dei detentori di obbligazioni subordinate – come abbiamo visto recentemente in Italia. Se non ce la fanno in questo modo, possono sempre – governi prontamente consenzienti – socializzare le perdite perché nessun sistema economico moderno può funzionare senza le banche. Le banche e gli altri intermediari finanziari, spesso controllati dalle prime, cercano di fare profitti speculando sui mercati finanziari utilizzando prodotti finanziari c.d. derivati e cartolarizzazioni “nude”, ossia, senza un diretto legame con transazioni di carattere reale. Anche grazie allo high frequency trading , si crea una volatilità sui mercati finanziari che non ha una razionalità economica. Una volta si diceva che la speculazione anticipava gli andamenti dell’economia reale e serviva a scegliere le imprese maggiormente efficienti e in grado di produrre valore per gli azionisti (un mito secondo Sacconi: 419). Oggi questo avviene prevalentemente se non esclusivamente per le banche d’affari e gli hedge fund. La speculazione oggi avvantaggia solo gli speculatori più abili e gli squali della finanza rapace (Baranes: 212). Negli anni ’70 del secolo scorso si diceva che gli investimenti pubblici spiazzavano quelli privati. Adesso che gli investimenti finanziari spiazzano entrambi va tutto bene, nessuno se ne preoccupa.
Il nesso tra capitalismo e democrazia. Una volta si riteneva che il sistema capitalistico fosse incompatibile con la democrazia. Poi è arrivato il c.d. compromesso socialdemocratico , ossia, la conciliazione tra il capitalismo e la democrazia , il riconoscimento dei diritti di proprietà dei pochi – a difesa dei quali si è esercitato tutto il costituzionalismo moderno a partire dalla Rivoluzione francese e quello contemporaneo – in cambio dei diritti civili e sociali per le masse. Si è passati gradualmente dal voto in base al censo al riconoscimento del diritto di voto a tutti ricchi e poveri, uomini e donne. Ma questo non ha annullato le diseguaglianze né quelle formali né quelle sostanziali. Da ultimo anche nei paesi ricchi per fronteggiare la concorrenza dei paesi emergenti si sono adottate politiche di compressione dei salari e dei diritti civili e sociali che hanno portato ad una polarizzazione della distribuzione dei redditi senza toccare minimamente rendite e profitti (vedi Franzini e Raitano). Tutto questo ha prodotto un impoverimento anche delle classi medie di molti paesi occidentali e la richiesta sempre più insistente delle autorità monetarie internazionali e, soprattutto europee (FMI, BCE e Commissione europea) a tagliare il welfare state assumendo la sua insostenibilità. Ora se si riflette bene alla questione del welfare, anche questa è problema fondamentale di democrazia. Il welfare c’è nei paesi più ricchi e già ne 1890 l’economista tedesco Wagner aveva identificato una tendenza della spesa pubblica ad aumentare al crescere del reddito nazionale. Al di là delle verifiche empiriche che non sempre verificano detto trend, più recentemente è stata formulata un’altra legge secondo cui ci sarebbe una correlazione tra livello del reddito e richiesta di maggiore democrazia da parte dei cittadini con redditi superiori ai 20.000 dollari. Sembra perciò ragionevole assumere che siano i cittadini elettori che devono decidere qual è la combinazione di beni pubblici e beni privati che essi intendono produrre e consumare e non le tecnocrazie del FMI e della BCE. A questo riguardo, Petrucciani (83) cita opportunamente Habermas che distingue tra europeismo democratico e quello tecnocratico a fronte della verticalizzazione del processo decisionale in materia economico-finanziaria con le più rilevanti decisioni affidate alla BCE e agli uomini della finanza rapace che attraverso le manovre sui mercati finanziari impongono ai governi sub-centrali solo le decisioni gradite dai “mercati”. PQM ribadisco che la riforma della finanza è prioritaria per due motivi fondamentali: a) perché mina il corretto funzionamento dell’economia reale; b) perché accentuando le diseguaglianze economiche aumenta le diseguaglianze nella distribuzione delle “risorse politiche” e, quindi, il funzionamento stesso della democrazia. Per un piccolo approfondimento sui problemi della democrazia in Italia e in Europa mi sia consentito di rinviare a http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/2013/07/24/il-problema-della-democrazia-in-italia-e-in-europa/
Come se ne esce? È la risposta più difficile da dare perché le vie di uscita possono essere diverse e non c’è consenso su quale strada incamminarsi. Si possono fare delle ipotesi proiettando alcune tendenze in atto in alcuni paesi ma non è detto che dette tendenze si consolidino o che vengano perseguite con determinazione.
Intanto, bisogna distinguere tra soluzioni di breve-medio termine e quelle di medio-lungo termine. Con riguardo alle prime, come sostiene Laura Pennacchi, si può uscire dalla crisi promuovendo politiche per la piena e buona occupazione riassegnando allo Stato un ruolo fondamentale nell’accumulazione del capitale materiale ed immateriale. In sintesi, si può creare moneta con solo per salvare le banche ma anche e, soprattutto, per salvare il processo di accumulazione , ossia , il livello di investimenti privati e pubblici – nelle circostanze soprattutto questi ultimi – per garantire crescita economica sostenibile, piena e buona occupazione, protezione dell’ambiente. Un discorso diverso e più difficile è quello che riguarda il lungo termine. Qui si richiede la previsione circa il destino finale dei vari tipi di capitalismo e/o il cambiamento del modello di crescita e sviluppo nel senso delle forme della produzione reale sulla quale può incidere molto lo sviluppo della tecnologia e delle macchine (robot). Fukuyama ha parlato di fine della storia, Rifkin di fine del lavoro ma , secondo me, si sbagliano entrambi. È cambiata la storia come è cambiato il lavoro. Se il discorso va correttamente riferito al lungo termine, nessuno è in grado di fare previsioni precise. A suo tempo, anche Marx si sbagliò sulla fine del capitalismo. È un fatto che questo nel tempo ha mostrato una resilience ed una capacità di adattamento che altri sistemi più recenti non hanno mostrato. Certo se uno pensa al global warming causato dall’enorme consumo di energia da parte dei paesi più ricchi e alle conseguenze dirette che esso comporta sui luoghi più poveri della terra, al problema dell’acqua, e dell’aria inquinata, è d’obbligo che le cose non possono continuare così all’infinito. Bisogna prendere atto – come fa Papa Francesco nella sua Enciclica “Laudato Si” – che c’è una interdipendenza tra la natura, l’ambiente e l’uomo, tra l’economia e l’ambiente, tra il modello di sviluppo economico e la natura ; che non c’è parallelismo tra crescita economica e crescita civile della società; che l’interdipendenza tra destino della natura e dell’uomo diviene totale via via che ci avviciniamo pericolosamente all’esaurimento di certe risorse come l’acqua e l’aria pulita”. Sono troppi i fattori che entrano in gioco per fare previsioni affidabili circa il modello di sviluppo. E’ vero che , in fatto, sono riscontrabili tendenze che se confermate nel tempo potrebbero portare ad una sua profonda trasformazione.
Due ultimi brevi note. Ruolo dei partiti, della sinistra e dei sindacati. Sui primi c’è poco da dire se prevalgono i c.d. partiti liquidi con leader dalla veduta corta, che non hanno una visione del futuro, che non dialogano con i corpi intermedi e, quindi, non elaborano scenari programmatici all’interno dei quali trovano soluzione i problemi di breve e medio-lungo termine. Per questi motivi mi concentro sul discorso dei sindacati , ben sviluppato da Barbi, Beschi e Sanna che provano a tirare delle conclusioni dopo 480 pagine di analisi. Seppure divisi a livello europeo, i sindacati hanno dato prova di sapere elaborare proposte interessanti e probabilmente risolutive come il c.d. Piano Marshall proposto dai sindacati europei e il Piano del lavoro proposto in Italia dalla CGIL nel 2013 – purtroppo cadute nel vuoto. Ricordo che il volume che qui presento è l’approfondimento di quest’ultimo Piano. Questo conferma che il sindacato deve spingere su due fronti : quello centrale a livello europeo non solo attraverso il Comitato economico e sociale ed il Comitato delle Regioni e quello decentrato a livello regionale dei singoli paesi membri. Dato l’attuale assetto istituzionale europeo egemonizzato dal Consiglio europeo, o si riesce a cambiare la politica economica e finanziaria decisa a livello centrale oppure si è condannati al fallimento finche il Consiglio europeo è dominato da governi di centro-destra. Né possiamo aspettarci gran che dal Piano Juncker che nella ipotesi più ottimistica avrebbe un effetto leva di circa 300 miliardi in quattro anni mentre il fabbisogno stimato dalla Confederazione Europea dei sindacati è di 2.600 miliardi per dieci anni (Barbi: 203). Per questi motivi, ritengo fondamentale che l’azione del sindacato si eserciti a livello decentrato per spingere le regioni periferiche (tipo quelle del Sud Italia) a elaborare piani di sviluppo in grado di mobilitare risorse pubbliche e private, di utilizzare a pieno e nei tempi previsti i fondi strutturali. Occorre inoltre andare oltre il meccanismo del cofinanziamento paritario. Bisogna riformare coerentemente il meccanismo degli aiuti di Stato e tornare a definire un’appropriata fiscalità di vantaggio per tutti quelli che vanno a investire nelle regioni periferiche. Un sistema che preveda anche adeguati meccanismi di compensazione per shock interni ed esterni. Una vera Clearing Union come proposta da Keynes che compensi gli squilibri quanto meno europei (Fantacci: 236). Quindi non più concorrenza ma armonizzazione fiscale per creare un sistema di convenienze che favorisca gli investimenti nelle aree meno sviluppate , ossia, un sistema che in fatto c’è già ma che dispone di risorse insufficienti e viene sostanzialmente neutralizzato dalla concorrenza fiscale senza regole. A questo punto sono costretto a sorvolare sulle analisi sulla politica industriale, sulla democrazia economica e sulle nuove relazioni industriali che servono in Italia e in Europa . Dico solo che una volta si diceva che una democrazia politica compiuta doveva portare anche la democrazia economica e alla giustizia sociale come prevedono diversi articoli della prima parte della nostra Costituzione del 1948. Oggi siamo ridotti ad una situazione in cui invochiamo un po’ di democrazia economica e di partecipazione come strumenti per arrestare la deriva tecnocratica ed autoritaria in corso in Italia e nell’Unione.