A giustificazione del recente declassamento del rating dell’Italia Fitch adduce due motivi: l’alto debito pubblico e l’aumentata incertezza politica. Vediamo innanzitutto il primo problema. Nel suo recente rapporto sull’Italia la Commissione europea afferma che nel 2015 il rapporto debito pubblico/PIL era salito al 132,3% rispetto al livello pre-crisi del 2007 pari all’incirca al 100%. La Commissione ritiene tale alto livello del debito un fattore importante di vulnerabilità non solo per l’economia italiana ma anche per tutta l’eurozona. E non manca di ripetere questa preoccupazione nei suoi documenti. La crescita negativa del PIL e la bassa inflazione – in alcuni anni si è invero trattato di deflazione – spiegano, secondo la Commissione, il forte aumento del debito. Riconosce quindi che, da un lato, le passate riforme pensionistiche hanno migliorato la sostenibilità a lungo termine del debito ma che dal versante opposto la flessione dell’avanzo primario a partire dal 2013 e alcune misure contenute nella legge di stabilità 2017 operano in senso opposto. Non è escluso che gli analisti di Fitch abbiano fatte proprie le valutazioni della Commissione europea – poco o punto tenute presenti nel dibattito pubblico in Italia.
Il Governo italiano risponde con ciò che scrive nel DEF: il rapporto fra debito e PIL ha toccato il 132,6 per cento nel 2016, in lieve aumento sul 2015 (132,1 per cento). L’aumento è stato pressoché nullo se si considera che il Tesoro – come di consueto a fine anno – ha fatto scorte precauzionali di liquidità in misura superiore allo 0,4 per cento del PIL. Il rapporto debito/PIL tende oramai verso la stabilizzazione per poi ridursi progressivamente… Il governo afferma che si tratta di “un risultato non scontato alla luce della bassa crescita nominale degli ultimi anni”. Appare scarsamente credibile la previsione di una progressiva riduzione dello stock se si considera che i tassi di crescita economica si manterranno bassi anche negli anni avvenire e che per altro verso si deve scontare un probabile aumento dei tassi di interesse. Va ricordato che un aumento dell’inflazione comporta un aumento dei tassi e se, da un lato, l’inflazione riduce il peso degli interessi sullo stock di debito pregresso, dall’altro, le nuove emissioni di debito implicano una maggiore spesa.
Del resto è lo stesso governo che nella sua previsione programmatica per il rapporto debito/PIL nel 2017, comprensiva di possibili interventi a sostegno della ricapitalizzazione “precauzionale” delle banche, prevede un rapporto pari al 132,5 per cento. È singolare che parli di possibili interventi quando questi, a giudizio di molti commentatori e della stessa Commissione, appaiono necessari e urgenti. Se così non fosse non si capirebbe perché il governo abbia proceduto con decretazione d’urgenza – tramite il D.L. n. 237 del 23 dicembre 2016 – a mettere a disposizione delle banche in crisi risorse pari a 20 miliardi per la ricapitalizzazione precauzionale delle stesse. Quindi scrivere di interventi di salvataggio solo possibili e di utilizzo di metà dei venti miliardi a me sembra solo ipocrisia. È vero che nell’ultimo anno è stato possibile allungare la vita media del debito pubblico – ora pari a 7,28 anni a fine dicembre 2016 rispetto al 6,8 anni del 2014 – ma restano le incognite non tanto sull’an ma sul quantum dell’aumento dell’inflazione, dei tassi e dello spread direttamente correlato alle incertezze politiche. Dulcis in fundo, il governo prevede che il debito pubblico possa scendere al 125,7% del PIL e per giustificare tale risultato ipotizza consistenti aumenti del saldo primario pari all’1,7; 2,5; 3,5; e 3,8%, rispettivamente per gli anni 2.017, 2018, 2019 e 2020. Francamente mi sembrano ipotesi scarsamente credibili dopo 9 anni di vacche magre.
Articoli recenti
Categorie
- Democrazia (40)
- Economia (22)
- Europa (143)
- Europa (32)
- Federalismo (7)
- Finanza pubblica (20)
- Fisco (10)
- Politica (19)
- Primo Piano (19)
- Società (5)
- Storia (7)