Mentre è in pieno svolgimento la corsa la ribasso, a chi riduce di più le tasse, a chi aumenta di più i benefici della spesa pubblica vaneggiando di tagli agli sprechi, agli enti inutili, di fantasmagorici effetti di efficienza conseguenti ai tagli delle tasse, può essere utile dar conto di un utile quanto controverso libro di Vincenzo Visco che oltre ad una brillante carriera accademica come docente di scienza delle finanze ha avuto modo di associare una luna esperienza di governo come ministro delle finanze nel I e II governo Prodi. Il libro è intitolato volutamente: Colpevoli evasioni. Le tasse come questione non solo tecnica. Egea, Università Bocconi Editore, Ottobre 2017, pp. 175. Titolo e sottotitolo sono doppiamente centrati. Le evasioni sono colpevoli perché ci sono quelli (i contribuenti e i loro consulenti) che le mettono in atto e ci sono quelli (i governanti-legislatori e le strutture tecniche) che le rendono possibili o che non le contrastano in maniera efficiente ed efficace. Il libro si compone di sei succosi capitoli e, in pratica, si suddivide in due parti di tre capitoli ciascuna: nella prima l’Autore fa la rassegna della teoria economica dell’evasione fiscale in un contesto in cui è presente un grande settore di economia sommersa. In questa prima parte Visco da conto delle diverse misurazioni del fenomeno distinguendo tra quelle con o senza una teoria che li quida. Sono riportate e valutate stime di diverse origine: della stessa amministrazione finanziaria ora previste nei documenti annuali di economia e finanza, stime di organismi e studiosi privati. Di dette stime mette in evidenza pregi e difetti. Alla fine l’Autore quantifica la sua stima in 8-9 punti di PIL, qualcosa come 140-50 miliardi di euro (p.88), più del doppio di quanto si attribuisce a paesi confrontabili con il nostro, all’incirca il 50% in più della stima dell’Agenzia delle entrate (AdE) . Non dà una spiegazione analitica della sua stima. Confrontando stime diverse di altri colleghi, del Centro Studi Confindustria, ecc., ritengo che una stima più realistica si aggiri attorno ai 7-8 punti di PIL. Ritengo inoltre che le stime sono certamente necessarie ed utili ma in un paese ad alta evasione fiscale fare a gara a chi la stima con maggiore precisione sia in parte tempo perso che potrebbe essere meglio impiegato in altre intraprese. Perché come ebbe a dire decenni fa Guido Rossi misurare bene l’evasione è come cercare il sole in un giorno di agosto, quando ne sono pieni i cieli. Al di là dell’enormità del fenomeno, quello che impressiona è la stabilità del fenomeno. Nonostante le continue innovazioni organizzative a cui venivano collegate aspettative crescenti. Secondo stime dell’Istat e di studiosi privati che hanno ricostruito le serie storiche, in pratica, dall’entrata in vigore della riforma tributaria degli anni 70 del secolo scorso, nulla o molto poco è cambiato in seguito alle riforme e controriforme successive a quella originaria appena menzionata che aveva reso il nostro sistema tributario negli istituti sostanziali comparabile con quelli degli altri Paesi europei.
Più interessanti i tre capitoli della “seconda parte” (70 pagine circa) che si occupano del cosa fare, dei possibili rimedi all’evasione. È la parte ovviamente più interessante e anche più controvertibile tenuto conto del fatto che l’Autore come detto sopra, ha avuto una lunga esperienza di governo proprio nel settore. Presiede da lungo tempo il Centro studi NENS che si occupa della materia e nei suoi rapporti avanza in via ordinaria proposte non solo relative alla riforma degli istituti sostanziali del sistema tributario ma anche quelle relative alle norme procedurali per rendere più efficace la lotta all’evasione fiscale.
Per cominciare vorrei partire dal giudizio estremamente negativo che l’Autore dà sugli studi settore pur avendo guidato le loro prime applicazioni, e pur avendone “festeggiato” il decennale nel 2006. In realtà Visco riporta il giudizio del prof. Guido Rey nel 2007 nominato presidente di una Commissione chiamata a valutare la bontà di tale strumento di ausilio all’accertamento: le conclusioni di Rey erano molto critiche in relazione alla qualità e tipologia dei dati utilizzati, alle procedure e agli assetti istituzionali preposti al funzionamento del programma, alla definizione del campione di riferimento delle imprese all’interno di ciascun cluster, alla formulazione del modello econometrico e alle modalità delle stime, ecc. In sostanza – conclude Visco – lo strumento per come si era evoluto nel tempo risultava inaffidabile, inattendibile e di scarsissima utilità”. Si tratta di giudizio non condivisibile neanche sulle conclusioni della Commissione Rey per le seguenti ragioni: 1) gli studi di settore non dovevano stimare con la massima precisione i ricavi e meno che mai il reddito imponibile. Dovevano servire come ausili all’accertamento per i verificatori della GDF e dell’AdE non potendosi che assumere che essi siano esperti in tutti i settori; in pratica né l’AdE né la Commissione ha sciolto l’ambiguità circa la vera funzione degli SD: “catastizzare” il reddito d’impresa e lavoro autonomo o aiutare i verificatori ad accertare ricavi e reddito; si è fatta la prima scelta applicando un rozzo mark up sui costi, senza tener conto che il reddito di impresa si calcola a costi, ricavi e rimanenze e, peggio ancora, intervenendo ex post sulla deducibilità dei costi; 2) Il modello era una regressione multipla che stima inevitabilmente un valore medio per cui anche i soggetti rientranti in un cluster (gruppo) di soggetti omogenei sulla base di una serie di parametri al di sotto dei valori medi sono penalizzati e quelli al di sopra avvantaggiati; operando sul singolo anno di imposta si accentua la varianza e si definiscono valori comunque revocabili in dubbio; 3) gli studi di settore annualmente sono coonestati da una Commissione in cui erano membri i rappresentanti delle varie categorie; 4) per gestire le ricerche e le procedure di elaborazione degli studi di settore fu creata un’apposita società pubblica la SOSE (Soluzioni per il sistema economico di cui fanno parte l’Anagrafe Tributaria – la più grande banca dati fiscali del mondo a detta dei suoi manager – e la Banca d’Italia) e presieduta per alcuni lustri da un ex dirigente dell’Ufficio studi di Confcommercio e nella propaganda ufficiale si diceva che dalla quella massa di dati si potevano estrarre dati utili anche alla definizione dell’efficienza economica dei vari settori e di valide politiche industriali; 5) gli SdS non sono stati ben accolti e, quindi, massacrati dalla stragrande maggioranza dei giudici di merito e di legittimità che per nessun motivo accettano l’accertamento per medie preferendogli quello effettivo su base contabile, analitica e documentale a cui si ispirava la riforma fiscale degli anni 70. Quindi, a mio parere, non si tratta di dati inaffidabili, inattendibili e di scarsa utilità ma di un presunto scontro di civiltà giuridica: l’AF deve provare con la massima precisione la sua pretesa erariale anche se neanche l’imprenditore, l’artigiano, i consulenti aziendali, le società di revisione sanno esattamente cos’è la base imponibile e, meno che mai, il reddito effettivo in un dato anno d’imposta. Giudici di merito e di legittimità non si rendono conto che c’è una asimmetria informativa fondamentale sui dati che conosce il contribuente e il suo consulente e l’AF i cui verificatori difficilmente riescono a superare. Lo dico con cognizione di causa avendo lavorato con loro spalla a spalla per oltre trenta anni prima come ispettore tributario e poi come giudice a tempo parziale per legge compatibile con la mia carriera universitaria.
Gli studi di settore sono costati ingenti fatiche intellettuali e consistenti risorse economiche ora, a 25 anni dalla legge che li ha previsti, sarebbero trasformati in pagelle di buona condotta per gli evasori. Gli SDS ben costruiti sono uno strumento tecnico ad alto potenziale ma è lo stesso Visco che sostiene che le tasse non sono una questione solo tecnica. Quando nel decennale del loro utilizzo (dicembre 2006) firmò il rinnovo dell’accordo con le categorie interessate al primo punto dello stesso si confermava : a) “la piena validità degli studi di settore quale strumento di valutazione dell’efficienza economica della gestione aziendale e di garanzia di equità, certezza e trasparenza nel rapporto nel rapporto tra fisco e contribuente; b) l’assoluta opportunità di confermare la metodologia seguita che vede la partecipazione degli esperti delle Organizzazioni di categoria nelle diverse fasi di costruzione ed evoluzione degli Studi; c) la prioritaria importanza di utilizzare lo strumento Studi di settore per attuare sia misure di contrasto all’evasione e al lavoro nero che di lotta alla concorrenza sleale; ecc. Ma poi è arrivata la Relazione della Commissione Rey che metteva in evidenza alcune lacune ma dava suggerimenti su come rimediarvi. Evidentemente lo ha indotto a cambiare opinione ma non politica. Ha ragione però quando afferma che le tasse sono una questione di consenso politico e aggiungo io di etica pubblica che in Italia manca. E l’ex ministro delle finanze non se la può cavare “ipotizzando un rapporto collusivo tra Agenzia delle entrate, associazioni di categoria e rappresentanti dei consulenti” (vedi nota 21 di p. 156) perché il vero rapporto collusivo con gli evasori è quello dei governi – tutti i governi di centro-sinistra e centro-destra della Repubblica. E’ ufficiale e passa attraverso la Commissione citata sopra che coonesta tutti i dati sui quali sono costruiti gli SDS. Lo si è fatto in nome della trasparenza ma negli Stati Uniti nessuno al di fuori dell’Internal Revenue conosce la c.d. discriminant function con la quale vengono selezionati i contribuenti da controllare. E tale rapporto collusivo in Italia è stato reso più agevole da quando esiste l’Agenzia il cui capo è di stretta nomina politica specie da quando in Italia è stato introdotto lo spoil system. Visco ha voluto fermamente l’Agenzia e vi ha lasciato diversi suoi uomini ai più alti livelli. Io ho sempre osteggiato la creazione dell’Agenzia definendola un ircocervo che non poteva stanare gli evasori dalle sue oscure tane ma ho perso la battaglia e il mio tempo. Visco dice ora che l’Agenzia è in una situazione disastrosa ma ne dà la colpa alla sentenza della Corte costituzionale n. 37/2015 che ha decimato il numero dei dirigenti nominati con procedure dichiarate illegittime. La verità è che rispetto alla enormità dei compiti che le vengono assegnati, l’AdE non ha il personale sufficiente per svolgere tutti i controlli formali e, meno che mai, i controlli sostanziali magari supportati da verifiche esterne necessarie per controllare a campione le dichiarazioni. Secondo la Corte dei Conti l’AdE ha perso circa il 7% negli ultimi sei anni. Non è casuale che, da quando il governo ha creato la banca dei conti correnti bancari allargandola a tutti i lavoratori dipendenti e pensionati, verifiche esterne e indagini bancarie sono diminuite come afferma l’ultimo Rendiconto generale della Corte dei Conti (luglio 2017).
Vengo quindi alla proposte palingenetiche di Visco: consapevole che l’evasione passa innanzitutto attraverso il mancato e corretto adempimento dell’IVA ed eccessivamente fiducioso nelle possibilità offerte dalle nuove tecnologie, Egli propone una modifica strutturale del sistema di accertamento dell’IVA in sette mosse: a) lo split payment previsto dalla legge 190/2014, impone alle PA che non sono soggetti IVA di versare direttamente all’Erario l’Iva evidenziata nelle fatture dei loro fornitori; b) l’adozione di un’aliquota IVA unica; c) l’applicazione dell’aliquota ordinaria agli scambi intermedi; d) l’adozione di un sistema di calcolo base da base per le vendite finali al dettaglio; e) l’introduzione dello scontrino telematico e dell’obbligo del pagamento con carta elettronica; f) il reverse charge, alias, inversione contabile per cui l’IVA è versata dal benefficiario dei servizi invece che dal prestatore come di norma. Se generalizzato, secondo Visco, sarebbe in grado di eliminare sia l’evasione che si verifica nelle transazioni intermedie che quella collegata all’utilizzo di fatture false e di frodi carosello con l’interposizione di soggetti fittizi a livello comunitario ed extracomunitario; g) la trasmissione telematica delle informazioni rilevanti contenute nelle fatture.
Si tratta per alcuni versi di proposte mirabolanti la cui fattibilità e opportunità è tutta da verificare. Il reverse charge generalizzato – come ricorda lo stesso Visco – è stato già ritenuto impraticabile dalla Commissione europea. Molto probabile che analoga decisione sia adottata circa la detrazione base da base che concentrerebbe il versamento dell’IVA dovuta nell’ultima fase della cessione al consumatore da tutti considerata la fase più pericolosa per le possibilità di evadere che essa offre. A questo riguardo, va tenuto presente che l’IVA è un’imposta disciplinata a livello europeo a partire dalla famosa VI Direttiva (77/388/CEE) e sue successive modifiche.
In questa fase alcuni propongono di costruire una capacità fiscale dell’Unione europea ma non mi sembra che negli altri PM ci siano proposte così radicali di riforma dell’assetto dell’IVA. Scarsamente fattibile in termini di politica tributaria mi sembra anche la proposta di un’aliquota unica; l’attuale struttura con quattro aliquote mira ad assicurare una certa progressività nella tassazione dei consumi. L’aliquota unica renderebbe l’IVA fortemente regressiva.
Ma perché tale sistema possa funzionare Visco prevede condizioni molto speciali: 1) la totale tracciabilità di tutte le transazioni (acquisti e cessioni di beni e servizi) che, a mio giudizio, risulta ipotesi utopica; 2) un sistema di accertamenti parziali automatici alla bisogna ma di dubbia tenuta in sede contenziosa; 3) accertamenti induttivi ex art. 56 comma 2 del DPR n. 633/1972 nel caso in cui a maggiori acquisti non corrispondano maggiori ricavi che potrebbero fare la stessa fine di quelli via SdS; non di rado con questi ultimi si è verificato esattamente il contrario: a ricavi crescenti si sono affiancati redditi imponibili decrescenti perché ai fini IVA rilevano acquisti e cessioni ma ai fini imposte sul reddito entrano in gioco le rimanenze, ossia, acquisti che non si traducono in maggiori ricavi ma vanno a gonfiare (anche artificiosamente) il magazzino che poi spariscono come d’incanto. Sia il sistema di accertamento fondato sugli SDS sia il sistema proposto da Visco, sempre che io lo abbia compreso correttamente, non prevedono alcun meccanismo di controllo sistematico del magazzino. Quindi non bastano i controlli parziali automatici che rettificano singole voci. Servono anche controlli analitici, approfonditi su diversi anni di imposta. Nel libro si sostiene la tesi che ovunque c’è ritenuta alla fonte operata da terzi l’evasione è minima o zero e, quindi, propone un analogo sistema per tutte le cessioni di beni e servizi allo stadio finale. A parte il fatto che qui, almeno in parte, i consumatori finali potrebbero trovare conveniente colludere, non si considera l’abnorme numero delle transazioni da registrare, il fatto che molti di essi non sono digitali, sono sforniti di carte di credito e non pochi sono turisti.
Non sono del tutto contrario al sistema proposto da V.V. applicato dove è possibile applicarlo non facendosi però illusioni e soprattutto non illudendo i cittadini onesti che abbiamo trovato la pietra filosofale. In Italia bisogna tener conto che resta un ampio settore sommerso, che la stragrande maggioranza dei contribuenti non è digitale, che le nuove tecnologie (blockchain e bitcoin) offrono anche modalità per nascondere le transazioni, e comunque restano le opportunità di scambi in nero e di rapporti collusivi tra operatori. Chi dice che l’AdE si adopera soprattutto per “prevenire l’evasione” e per incentivare l’adesione spontanea al sistema racconta favole come fa lo stesso governo, ad esempio, nel suo programma di riforma 2017 (p. 61). I fatti sono diversi: l’evasione continua a mantenersi a livelli doppi rispetto ad altri paesi ed inutili sono stati finora tutti i provvedimenti mirati ad incentivare l’emersione dell’economia sommersa. Evidentemente non mi riferisco a Visco che nel libro definisce la situazione dell’AdE disastrosa. PQM ritengo che puntare ora tutte le carte sulle nuove tecnologie, secondo me, potrebbe rilevarsi illusorio e comunque rientra nella logica dell’intervento puntuale. Visco correttamente definisce la lotta all’evasione una “guerra di trincea” interminabile. Se così non ci sono soluzioni tecnologiche salvifiche, ci sono anche soluzioni peggiori del male che devono combattere. Non possiamo usare il gas o il napalm che ucciderebbero i contribuenti. Allora serve un approccio globale di cui mi limito a descrivere la parte riguardante i soggetti principali che dovrebbero portare avanti la lotta all’evasione fiscale. Serve: a) innalzare consistentemente la qualità e la stabilità della legislazione; in Italia molte leggi rimangono senza copertura amministrativa; b) la non interferenza della politica nell’attività di accertamento; abbiamo una gestione politicizzata della funzione dell’accertamento che mina continuamente la credibilità e la reputazione dell’AF qualunque forma organizzativa essa assuma; c) la rinuncia ai condoni, sanatorie, voluntary disclosures, a certe forme spudorate di flessibilizzazione e/o conciliazioni giudiziali a tutti i livelli di contenzioso; ravvedimenti, condoni frequenti e rottamazioni di cartelle – l’ultima interessa gli ultimi 15 anni- non sono incentivi all’adempimento spontaneo ma all’evasione; d) la costruzione di un AF veramente all’altezza del compito, dotata di personale altamente qualificato in grado di utilizzare consapevolmente come ausili all’accertamento strumenti sofisticati come gli SDS, che abbia serie garanzie di carriera interna senza essere scavalcata continuamente da nomine estemporanee del ministro e/o dal governo di turno, che abbia uno statuto speciale come nel Regno Unito e negli USA, che sia in grado di conquistarsi credibilità e reputazione lavorando nella massima riservatezza al riparo dalle pressioni dei gruppi di interesse organizzati; c) che ci sia un sistema contenzioso formato da giudici altamente professionalizzati a tempo pieno come quelli della Corte dei Conti; ecc.. E’ possibile tutto questo in Italia? La risposta è no se, come scrive Visco a p. 159, “l’atteggiamento concreto dei governi italiani e dei partiti politici nei confronti del fenomeno evasione fiscale risulta sistematicamente reticente, oscillante, contraddittorio”. Se, come provano le proposte dei partiti politici in materia abrogazioni e riduzione generalizzate delle tasse, di flat rate tax in questa campagna elettorale, in Italia non c’è una teoria della giustizia sociale largamente condivisa di cui parte essenziale è quella tributaria, le speranze che la situazione possa migliorare sono molto ma molto basse.