La crisi da cui stentiamo ad uscire, in Italia e in altri Paesi dell’Unione, ha creato il rafforzamento di un intreccio già forte tra le banche e i debiti sovrani. Un rapporto biunivoco per cui la crisi delle banche può determinare difficoltà alla gestione del debito pubblico del paese emittente e, viceversa, la perdita dell’accesso ai mercati da parte del governo può creare un vero disastro per le banche nazionali ed estere che ne hanno sottoscritto i titoli.
Si parla di “doom loop e/o diabolic doom”. Da oltre 5 anni in Europa si propone di scioglierlo ma ancora non si è fatto niente; i banchieri italiani sono contrari; e il governo italiano si è accodato con il suo position paper del 22-12-2017. Si dicono contrari perché temono che la prospettata misura possa innescare ulteriore instabilità finanziaria; ma c’è da chiedersi: perché il governo italiano difende un sistema banco-centrico non solo per le imprese e le famiglie ma anche per lo Stato? Non posso approfondire qui il discorso e mi limito ad una risposta semplicistica ma non priva di fondamento: perché ci sono le c.d. porte girevoli. Nei governi di molti paesi occidentali si alternano al governo persone provenienti dalle banche e che dal governo poi ritornano alle banche per valorizzare le influenze acquisite.
Sul punto c’è una proposta netta di Barry Eichengreen e Charles Wyplosz (2016) che propongono un divieto netto per le banche di detenere nei loro portafogli titoli del debito pubblico dei paesi in cui operano.
Da ultimo è arrivata la proposta del gruppo di 14 economisti francesi e tedeschi (i 7+7) che avanzano una proposta meno radicale ma che si muove nella stessa direzione di un allentamento di tale rapporto.
Anche alcuni economisti italiani difendono esplicitamente gli interessi delle banche come definiti dai manager che li dirigono; anche loro non sembrano voler sciogliere il nodo debito sovrano-banche e accusano i 7+7 di volere introdurre un divieto strutturale per le banche di detenere titoli del debito pubblico del proprio paese come collaterale.
I 7+7 respingono l’accusa e sostengono di volere un sistema e un EDIS (un’assicurazione europea dei depositi) ben strutturato; un sistema che eviti la concentrazione e/o l’utilizzo di un debito pubblico di un solo paese (il proprio). In altri termini, propongono una diversificazione e, quindi, più risk sharing che, come noto, la maggioranza dei PM collegati alla Germania sarebbero disponibili a concedere solo previa riduzione drastica del rischio. Secondo me, sarebbe auspicale anche un divieto totale – ovviamente da introdurre gradualmente – secondo la proposta Eichengreen-Wyplosz che in Italia sarebbe quanto mai opportuna data la qualità dell’alta dirigenza delle nostre banche. A che è servito in Italia il divorzio Tesoro-Banca d’Italia del 1981 se al mercato si sono sostituite le banche e se queste hanno perso il senso della loro missione?
Si accusano i 7+7 di volere innescare prioritariamente una ristrutturazione del debito. Ad essere cattivi, si potrebbe dire che se i Trattati prevedono il no bail out (art. 125 del TFUE), i nostri proponendo il no bail in annullerebbero il primo principio – pure sottoscritto dall’Italia – e quindi riporterebbero le banche in una posizione di impunità che la politica italiana ha quasi sempre accordato ad esse in nome della stabilità del sistema. Ma questo non sarebbe coerente con la previsione dei Trattati. Allora delle due l’una: o si è coerenti e si accetta il bail in oppure non lo si accetta e si propone la modifica dei Trattati. Peraltro la proposta dei 7+7 prevede un bail in parziale come primo passo di un programma a più stadi sul principio: aiutati che l’eurozona ti aiuta. E’ un notevole passo in avanti rispetto alla situazione di stallo che si è determinata in questi cinque anni: elimina o riduci sostanzialmente il rischio e poi – quando non serve – parliamo di mutualizzazione. Il sistema proposto dai 7+7 è simile a quello delle polizze di assicurazione di grandi rischi con franchigia alta. Qui viene in gioco i junior bond che i governi potrebbero emettere nel caso che non rispettassero la regola della spesa che vedremo più avanti. Essi sostituirebbero le attuali sanzioni previste dal PSC e verrebbero a costituire una specie di cuscinetto a protezione dei creditori senior. Da un lato potrebbero essere sacrificati in caso di un attacco speculativo, d’altro potrebbero essere utilizzati come precondizione per accedere all’assistenza dello ESM. Il loro costo di emissione segnalerebbe da un lato la credibilità e reputazione dei governi che vi farebbero ricorso e, dall’altro, le condizioni e/o disponibilità dei mercati ad accoglierli. Questo fa dire ai critici della proposta che i 7+7 vogliono introdurre comunque il bail in e/o haircut preventivo trascurando però che secondo i proponenti la quantità di junior bond dovrebbe essere una percentuale bassa del debito pubblico totale del PM emittente.
Secondo i 7+7 l’ESM, alias, fondo salva-stati, dovrebbe sviluppare proprie regole non solo per prevenire il rischio ma anche per valutare se un programma di assistenza sia sufficiente o meno a ricostruire la solvibilità di un dato paese. Anche qui è evidente ed essenziale il ruolo attivo del paese interessato.
A me la proposta dei 7+7 sembra ragionevole, molto articolata, e fa parte di un programma complessivo che prevede: 1) una nuova missione dello ESM; 2) la riforma del Patto di stabilità e crescita versione 2011 che tanti danni ha prodotto nella gestione della seconda recessione 2011-13; 3) la riforma delle procedure di bilancio dei PM introducendo la possibilità di ricorrere alle Corti costituzionali e, eventualmente, alla Corte di giustizia europea; 4) una riforma – questa meno coraggiosa – del sistema della governance e/o assetto istituzionale.
L’ESM riformato dovrebbe allargare la sua missione anche alla prevenzione delle crisi il che evidentemente comporta un rafforzamento dei suoi poteri; l’ESM sarebbe ricondotto nell’ambito del diritto comunitario ma questo, secondo me, inevitabilmente ridurrebbe i poteri della Commissione la sola istituzione che può e deve avere una visione unitaria della gestione dei vari fondi. Infatti, secondo la proposta, l’ESM assumerebbe il compito di monitorare attentamente la gestione della politica economica e finanziaria dei PM dell’eurozona – attività che attualmente svolge la Commissione.
A tale scopo si rende necessaria la riforma del PSC novellato nel 2011 perché, secondo i 7+7, le regole fiscali sono inadeguate; a loro dire, non hanno i denti per intervenire nei tempi buoni in cui molti governi sono portati ad allentare i cordoni della borsa e non sono abbastanza flessibili in tempi di crisi in cui è difficile definire i margini di flessibilità da concedere ai governi per via della macchinosità dei calcoli relativi all’output gap, al reddito potenziale, al NAIRU (il tasso di disoccupazione che non accelera l’inflazione), all’effetto dell’invecchiamento demografico sulla produttività, ecc. – peraltro in un contesto deflattivo causato dalla svalutazione interna imposta ad alcuni paesi per cui la BCE non riesce a concretizzare il suo target dell’inflazione al 2%.
Aggiungo ancora che le regole sono inadeguate perché non distinguono tra stabilizzazione finanziaria e stabilizzazione del ciclo economico o fiscal stabilization (come la chiamano i 7+7) based on employment indicators, alias, su tassi di occupazione, disoccupazione e dinamica del monte salari, e fin qui le autorità europee di politica economica e finanziaria hanno privilegiato quella finanziaria per evitare i rischi di contagio.
Ora è bene precisare che se parliamo di stabilizzazione del ciclo economico bisogna tener conto che ci sono cicli di breve-medio periodo e cicli di lungo periodo. Le autorità di politica economica e fiscale di Bruxelles fin qui hanno mostrato di preoccuparsi solo di quelli di breve-medio periodo e molto meno di quelli di lungo periodo. Ora qui abbiamo un problema. I cicli di lungo termine dei PM non solo dovrebbero muoversi nella stessa direzione ma dovrebbero produrre una riduzione degli squilibri tra le diverse regioni tra Nord e Sud, tra Est e Ovest. Sappiamo che in fatto nulla garantisce che ciò avvenga nella realtà e da qui le difficoltà di rispettare le regole del PSC e di coordinamento delle politiche fiscali di molti PM dell’eurozona.
Per superarle, i 7+7 propongono la regola della spesa pubblica coniugata ad un obiettivo di debito pubblico, la più semplice e trasparente possibile, con variabili strumentali ed obiettivo maggiormente visibili e sotto il controllo diretto dei governi interessati. La regola ammette manovre congiunturali anticicliche, genera incentivi a ridurre i debito; prevede vie di fuga, alias, maggiore flessibilità in caso di shock asimmetrici molto gravi. Secondo questa regola la spesa pubblica nominale non dovrebbe crescere più velocemente del PIL nominale di lungo termine, ossia, della somma della crescita potenziale e dell’inflazione prevista. Dovrebbe crescere di meno del PIL nominale per i paesi ad alto debito. Per i dettagli vedi p. 10 del paper.
A mio giudizio, anche alla proposta dei 7+7, si possono fare alcune osservazioni: 1) non toccano l’obiettivo obsoleto del debito al 60%; 2) il calcolo del reddito potenziale di lungo termine si presterebbe a manipolazioni econometriche analoghe a quelle che si fanno con il PSC; 3) non è trattata la questione delle preferenze circa la composizione delle spesa pubblica la cui dinamica verrebbe strettamente collegata a quella del reddito di lungo termine. Infatti è alto il rischio di irrigidire una composizione della spesa pubblica che incorpora rendite parassitarie di ogni tipo, profitti speculativi e redditi presenti o differiti non guadagnati. In un paese in cui non c’è una teoria della giustizia sociale largamente condivisa, rispettare l’attuale composizione pone problemi molto difficili come quello che si pongono i 7+7 quando, considerando il problema della pressione tributaria, osservano che, non di rado, i governi mentono e, invece di abbassare le aliquote delle imposte annacquano per alcuni le procedure di accertamento e riscossione. E perciò loro propongono il rafforzamento di autorità fiscali esistenti e di quella centrale a Bruxelles. Ma mi si può prontamente osservare che il rimedio sulla carta c’è rendendo la spending review una cosa seria e strutturale nell’attività ordinaria di valutazione delle politiche pubbliche.
Le proposte dei 7+7 costituiscono quindi un notevole passo in avanti rispetto al “non paper” di Schaeuble il quale afferma che: “la convergenza decrescente è spesso causata da fattori strutturali nazionali e non si può correggerla con la capacità fiscale. E una nuova forma di stabilizzazione finanziata con l’emissione di debito denominato in euro servirebbe solo a guadagnare tempo e a ripetere i passati errori nazionali”. Troppo facile cavarsela con gli errori storici dei governi nazionali se poi i meccanismi del mercato unico rafforzano le forze centripete e gli attuali strumenti della politica regionale non sono sufficienti a compensarle.
In questi termini sono da accogliere le osservazione dei 7+7 (nota 27 di p. 15) che criticano un PSC tutto incentrato su regole fiscali tutte basate sul deficit corrente, under current deficit-based fiscal rules, quando notoriamente il debito pubblico è problema di lungo termine e, quindi, va affrontato in tale orizzonte temporale.
I 7+7 premettono che c’è una politica monetaria unitaria governata da un’unica Autorità a fronte di 16 differenti politiche economiche e fiscali. L’affermazione è esagerata ma in parte fondata. I 7+7 sottacciono due fatti: il primo che vede la BCE autorità egemone anche della politica economica e finanziaria dei PM per cui sono le politiche fiscali che si devono coordinare con la politica monetaria e non questa che deve accomodare la politica fiscale. In fatto, è successo che la politica monetaria espansiva è stata neutralizzata dalla prevalente politica dell’austerità imposta dal Patto di stabilità e crescita e dal Fiscal Compact. Il secondo luogo, i 7+7 trascurano che, in fatto, anche le politiche fiscali – seppure formalmente ancora intestate ai PM – sono state portate al centro in forza degli strumenti appena citati e del c.d. semestre europeo per cui dopo approfondite analisi della situazione economica e finanziaria la Commissione ai fini dell’adozione delle leggi di bilancio adotta specifiche raccomandazioni per ogni singolo paese dell’eurozona. È ovvio che a monte di queste raccomandazioni c’è un principio di coordinamento ma spesso si dimentica che il coordinamento funziona se sotto c’è un programma economico e finanziario largamente condiviso, se ci sono cicli economici omogenei e convergenti, ecc.. Sappiamo che non è questa la situazione tra i PM centrali e quelli periferici. Non c’è convergenza, ci sono squilibri che si allargano e anche valori diversi. In questi casi, serve una politica economica e finanziaria debitamente articolata e non è casuale che i 7+7 propongano il superamento degli astrusi meccanismi del PSC e passare alla più semplice regola della spesa pubblica. A tale scopo i servizi della Commissione svolgono una penetrante attività di monitoraggio e controllo della politica economica e finanziaria dei PM dell’eurozona.
Al riguardo, i 7+7 lamentano che non c’è una chiara separazione tra l’attività ispettiva e quella politica decisionale (no clear separation between the watchdog (prosecutor) and the political decision maker (judge)”. A mio parere qui c’è un po’ di confusione essendo che il policy maker is not a proper judge ma egli stesso fa parte dell’esecutivo dato la qualità ibrida del processo decisionale nell’attuale assetto istituzionale e la duplice natura dei membri del Consiglio dei Capi di Stato e di governo che sono a un tempo legislatori a Bruxelles e capi dell’esecutivo nei propri PM. Inoltre la governance europea, a ben riflettere, è un modello incerto e confuso essendo che il potere legislativo è condiviso tra il Parlamento europeo, i consigli di settore, il Consiglio e la Commissione. Il potere esecutivo per altro verso è suddiviso tra la Commissione ed una serie di organi, alias, autorità amministrative indipendenti creati con Trattati intergovernativi. Ora se il coordinamento di cui sopra non ha funzionato e i tentativi di centralizzare le politiche fiscali dei PM sono falliti anche perché al centro non c’è un vero e proprio governo dell’economia con poteri di spesa, di prelievo di imposte e di indebitamento, la domanda da porsi – e i 7+7 non se la pongono – è se il funzionamento dell’Unione economica e monetaria nell’attuale fase di transizione, la politica fiscale ha veramente bisogno di una gestione centralizzata oppure decentralizzata o, comunque, di una più attenta distribuzione delle competenze fiscali in un assetto di governo multilivello non ancora pienamente federale.
In un simile contesto proporre la separazione di cui sopra mi sembra ultroneo specialmente se considero che i 7+7 nella premessa – verosimilmente anche in considerazione del fatto che si tratta di un gruppo di economisti – hanno escluso a ragione di volersi occupare della riforma dei Trattati. Ma se si esclude questa diventa impresa ardua cercare sottili separazioni di ruoli (di monitoraggio, vigilanza e di deliberazione) all’interno di una funzione sostanzialmente esecutiva. Il fatto che questa parte sia un po’ debole, nulla toglie al valore delle proposte avanzate nelle parti precedenti.

https://cepr.org/active/publications/policy_insights/viewpi.php?pino=91

http://enzorusso2020.blog.tiscali.it/2017/10/13/il-lascito-di-wolfgang-schauble-all%E2%80%99europa/

https://www.ceps.eu/system/files/IEForum12016_6.pdf