Note sulla proposta preliminare di contratto di governo del M5S ai partiti.
Oggetto delle note seguenti è il primo rapporto della Commissione di esperti indipendenti nominata da Di Maio per verificare convergenze e divergenze tra i programmi dei partiti come “aggiustati” dopo i risultati elettorali.
Si tratta di una procedura in parte analoga e in parte diversa da quella adottata nell’Aprile 2013 dal Presidente Napolitano quando nominò non uno ma due gruppi di lavoro dopo che era fallito il suo tentativo di mettere d’accordo i partiti. Il precedente del 2013 è diverso perché i due gruppi di lavoro: uno per le riforme istituzionali e l’altro per le questioni economiche furono nominati direttamente dal Presidente della Repubblica.
Nelle intenzioni dichiarate da Di Majo un eventuale accordo sul programma dovrebbe portare non ad una alleanza politica ma ad un Contratto di governo alla tedesca, alias, ad un impegno solenne sul programma da portare avanti da parte del governo. Secondo me, il metodo proposto dal leader del M5S è da apprezzare se esclude sul serio l’ipotesi “prendere o lasciare” ed è comunque pienamente compatibile con le norme e le prassi parlamentari di formazione del governo dopo le elezioni.
Quanto ai programmi dei partiti bisogna tener conto che essi non sono leggi dello Stato né tantomeno norme programmatiche di natura costituzionale anche se si pone comunque un problema di compatibilità tra le azioni governative e i principi generali consacrati nella Costituzione. Sono proposte agli elettori negli ultimi tempi elaborate da ristretti gruppi di partito, non di rado, senza passare neanche per una conferenza programmatica come si usava fare quando i partiti avevano strutture collegiali più solide e più partecipate.
Una prima osservazione su detti programmi riguarda le divergenze che riguardano non solo la formulazione degli obiettivi ma soprattutto l’indicazione degli strumenti scelti per perseguire gli obiettivi.
Al di là delle parole e delle enfasi nei comizi elettorali a me sembra di notare che c‘è una forte convergenza sugli obiettivi che dà ragione al teorema dell’elettore mediano secondo cui i programmi convergono al centro. In diversi casi dove si riscontrano quantificazioni dei benefici la differenza sta appunto nella quantificazione degli stessi.
Nel primo rapporto degli esperti, è buona la premessa sulla necessità di continuare a lavorare all’interno delle istituzioni europee ma come obiettivo non basta fermarsi a quello della riforma del Regolamento di Dublino sull’emigrazione perché, per molti aspetti, tutte le politiche economiche, finanziarie e legislative sono influenzate dai vincoli europei.
Ciò detto passiamo ad analizzare le priorità dell’Italia come rilevate dalla Commissione nominata da Di Maio.
Sulle prime tre priorità: un futuro per i giovani e le famiglie, lotta alla povertà e alla disoccupazione; riduzione degli squilibri territoriali non è detto chiaramente che il primo e fondamentale obiettivo-strumento deve essere quello della piena e/o massima occupazione di tutta la forza lavoro -giovani e meno giovani- e la piena utilizzazione di tutti gli impianti produttivi di cui dispone il Paese. Solo così si rendono maggiormente fattibili la lotta alla povertà e il sostegno degli occupati con redditi insufficienti.
Deve essere chiaro inoltre che al di là dei pii desideri circa un’Europa sicura e solidale è fondamentale capire che gli obiettivi della massima occupazione e del contrasto alla povertà assoluta e relativa difficilmente potranno essere perseguiti senza una riforma dell’eurozona, del vigente Patto di Stabilità e Crescita (riformato nel 2011) e soprattutto senza un ampio programma di investimenti pubblici e privati. Non bastano gli incentivi di industria 4.0.
In questi termini allo stato mi appare debole la parte economica delle priorità ma il giudizio va sospeso atteso che più avanti per scrivere il vero programma di governo si prevedono dieci gruppi di lavoro.
Ancora generica e vaga è la quarta priorità rubricata come sicurezza e giustizia per tutti. Detta così potrebbe intendersi giustizia per tutti i criminali e per tutte le persone oneste. Inopinatamente qui non si parla di giustizia sociale che viene appena evocata nel paragrafo dedicato alla nona priorità.
Di nuovo apprezzabile la quinta priorità: difendere e rafforzare il sistema sanitario nazionale.
Sesta priorità: proteggere le imprese e incoraggiare l’innovazione. Discorso incerto e confuso mi sembra anche quello sulla politica industriale soprattutto per le piccole e medie imprese. Si pensa di riesumare la legge 180 del 2011 pomposamente rubricata come Statuto delle imprese e che è rimasta sostanzialmente inapplicata anche se si è nominato un garante presso il ministero dello sviluppo economico, anche se nel frattempo si è svuotato lo Statuto dei lavoratori. Come previsto dall’art. 18 della legge citata il governo ogni anno dovrebbe presentare una legge che semplifichi gli adempimenti delle PMI, riducendone i costi. La finalità ultima mi sembra di capire è quella di sostenere il processo di internalizzazione di molte PMI che sono grandissima parte del nostro sistema produttivo ma poi sfugge ai tre partiti di mano il discorso affermando letteralmente che “si tratta in concreto di promuovere la digitalizzazione e di abolire le imposte sui negozi sfitti e sui fabbricati destinati alla produzione di beni e servizi di commercianti, artigiani e PMI”. Viene da chiedersi: se questi negozi sfitti non sono di proprietà diretta degli artigiani, commercianti e piccoli imprenditori non si favorisce in questo modo la rendita fondiaria piuttosto che l’attività di impresa?
Inoltre, poco a che fare con le PMI ha il proposto piano di formazione istruzione universitaria con la nascita di nuove figure professionali richieste dalla quarta rivoluzione industriale. Non servono tutti dottori e ingegneri. Semmai servono veri esperti diplomati da istituti tecnici superiori e, a livello universitario, la diffusione di nuovi politecnici al posto di laureati in scienze della comunicazione. Negli ultimi anni, infatti, si registra un calo degli iscritti negli istituti tecnici e professionali soprattutto perché anche i loro diplomati non trovano lavoro per via della stagnazione secolare e della pesante depressione che ha conosciuto l’economia italiana nell’ultimo decennio.
Vaghe ed incerte le osservazioni sul sistema bancario: si parla di trattamenti fiscali differenziati per le banche commerciali da un lato e quelle d’affari dall’altro quando qui si tratterebbe di mettere in discussione la riforma degli anni 90 – sostenuta dall’affermazione che le banche erano imprese come le altre e che dovevano fare profitti dimenticando la natura pubblicistica delle funzione svolta dalle stesse secondo le previsioni dell’art. 47 Cost. ; non si dice niente sulla netta contrarietà o resistenza dell’Associazione Bancaria Italiana al bail in e alle altre proposte della vigilanza comunitaria sulla riduzione delle sofferenze del nostro sistema bancario, dell’intreccio vizioso delle banche che detengono centinaia di miliardi di titoli del debito pubblico del loro paese per cui una crisi del debito sovrano provocherebbe veri e propri disastri per le banche e, a sua volta, una crisi di queste ultime metterebbe a rischio la sostenibilità del debito sovrano del governo che ha emesso i titoli.
Frasi altosonanti ma di dubbio significato sulla settima priorità ossia sul rapporto tra fisco e contribuenti sempre da rinnovare ricalibrando la pressione tributaria; trasformando radicalmente l’Agenzia delle Entrate; prevedendo l’immancabile semplificazione del sistema tributario; la digitalizzazione delle procedure con un parco di contribuenti con alto deficit digitale; prevedendo un giudice tributario autonomo e indipendente come qualsiasi altro ordine giudiziario. Non ultimo, scrivendo frasi sconclusionate sull’inversione dell’onere della prova come se non ci fosse una grave asimmetria informativa tra quello che fa e produce il contribuente e quello che sanno gli Uffici finanziari sulle attività di ogni singolo contribuente. Non ultimo, la frase secondo cui il ricorso ordinario al giudice continua ad assumere che ci sia in piedi un enorme contenzioso ed ignora che esistono già molte vie alternative al ricorso: ravvedimenti operosi incentivati; adesioni alle proposte degli uffici, conciliazioni giudiziali, rottamazioni, volontary disclosures e altri condoni.
Apprezzabile il discorso fatto circa la ottava priorità: ricostruire il Paese investendo nelle infrastrutture.
Ancora apprezzabile sono i discorsi sullo sviluppo sostenibile, l’economia circolare anche se non è chiaramente menzionato il rischio sismico e il problema della messa in sicurezza degli edifici pubblici nonché delle abitazioni e delle fabbriche, di cui alla nona priorità: proteggere dai rischi e salvaguardare l’ambiente.
La decima priorità riguarda lo storico problema dell’efficienza della pubblica amministrazione, della riduzione degli sprechi, della qualità della sua dirigenza – peggiorata dopo l’utilizzo disinvolto dello spoils system – della spending review che non può essere seriamente fatta senza una rigorosa e sistematica valutazione di tutte le politiche pubbliche. Un silenzio assordante sulla questione del federalismo benché la questione sia di fondamentale rilevanza. Infatti, secondo me, non si può fare una riforma seria della PA se non si decide se vogliamo portare avanti il processo di decentralizzazione oppure ritornare ad un sistema centralizzato peraltro incompatibile con l’impostazione dei Trattati europei che hanno inevitabilmente previsto una Europa delle regioni e poi una Europa delle macro-regioni.
Non si dice niente sulle c.d. riforme strutturali che riguardano l’ampio settore sei servizi privati come ci viene continuamente raccomandato dalle autorità europee.
Nella parte IV del documento 3 gli esperti chiariscono che per arrivare ad un documento di programma occorre un lavoro più approfondito di dieci diversi gruppi di lavoro ed un accordo di leale cooperazione ed uno stretto coordinamento in sede europea. Affermano che servono verifiche sull’attuazione del programma ottimisticamente collocate a metà legislatura e, in caso di dissenso su questioni fondamentali, si prevede addirittura un Comitato di conciliazione nominato dalle parti e, quindi, inopinatamente, fuori dalle aule parlamentari.
Resta fondamentale capire che senza leale cooperazione non si producono beni pubblici e non si fanno gli interessi della collettività e che al di là del merito comparato dei diversi programmi occorre operare degli opportuni bilanciamenti.
Non ultimo, a scanso di equivoci, ritengo opportuno precisare che le critiche e osservazioni da me prospettate non riguardano il lavoro svolto dalle persone che sotto la guida del Prof. G. Della Cananea hanno fatto questa prima analisi delle convergenze e divergenze nei programmi dei M5S, del PD e della Lega ma direttamente i detti programmi.
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