M. Molinari perchè è successo in Italia
Maurizio Molinari, Perché è successo qui. Viaggio all’origine del populismo italiano che scuote l’Europa, la nave di Teseo, i fari, 2018
Perché è successo in Italia? Una prima risposta ad effetto potrebbe essere: perché in Italia si vuole scimmiottare il modello presidenziale americano, le primarie e i partiti liquidi da organizzare semplicemente come macchine elettorali. Non è casuale che in un Paese che storicamente ha avuto non pochi leader populisti e anche un partito definito People’s Party, nel 2016 sia stato eletto Donald Trump che del populista di destra è un outstanding champion. Anche in Italia nel passato non sono mancati episodi di populismo finiti anche tragicamente ma non voglio diffondermi su questo. Mi basti dire che anche in paesi di lunga tradizione democratica si manifestano fenomeni populisti di destra e di sinistra e chiusure sovraniste che non di rado sfociano in regimi illiberali quando non direttamente dittatoriali.
Ma veniamo alla domanda principale che Molinari si è posto – perché da noi? – e alle risposte che si è dato: diseguaglianze, migranti, corruzione e illegalità diffuse, la miopia e/o l’eutanasia dei partiti tradizionali, le politiche economiche implementate dall’UE dopo lo scoppio della crisi mondiale che hanno provocato una doppia recessione e riprese asfittiche, i nuovi spazi di azione politica offerti dal WEB e dai telefoni connessi a internet come strumento di rivolta, il vulnus della memoria che consente una pseudo o apparente legittimazione dello xenofobismo e i regimi autoritari e/o decisionisti rispetto alle procedure lente e farraginose delle istituzioni europee comunque affette da originario deficit democratico. Tutti questi motivi concorrono a determinare una situazione di malessere diffuso che ha portato gli elettori a sentirsi poco protetti e, quindi, insicuri rispetto al terrorismo islamico – in Italia fin qui latente in confronto ad altri paesi membri della UE, rispetto ai timori che suscita più o meno il passaggio ad una società multietnica, rispetto alla concentrazione del reddito e dei patrimoni nelle famiglie più ricche a cui si contrappongono le difficoltà del settore pubblico e delle imprese; rispetto al timore di perdere i benefici del welfare che diventa insostenibile solo perché è anatema anche per la sinistra implementare politiche redistributive più efficaci; rispetto all’aumento della disoccupazione dei giovani e di anziani che perdono il lavoro da politici irresponsabili attribuito alla concorrenza dei migranti e alle politiche europee – prima sottoscritte e poi denegate – che hanno portato la riduzione dei salari e dei diritti per le masse lavoratrici. In un tale contesto regole e migrazioni vengono spacciate come attacchi di un “nemico esterno” a cui altri politici irresponsabili pensano di opporre il ritorno al buon governo sovrano che decide autonomamente cosa è bene a casa sua ignorando che nulla può fare da solo per governare le forze della globalizzazione in un contesto di alta interdipendenza economica non solo per le c.d. mesoeconomie ma anche per le economie più grandi e più forti.
Concentrati sui problemi interni gli Stati membri dell’UE assistono inerti alla crisi di fiducia nei confronti dell’Europa, alla divaricazione o mancata convergenza tra regioni centrali e quelle periferiche rinviando l’esame di proposte pure ragionevoli sulla riforma dell’eurozona e dell’attuale governance.
Secondo me, l’UE dovrebbe muoversi anche sul terreno della lotta alla povertà. Si tratta di problema molto complesso ma va affrontato con giudizio e gradualità in chiave integrativa di quello che fanno i governi dei PM. Ci sono differenze territoriali e diseguaglianze molto forti ma va combattuta la linea di Schauble e dei suoi alleati secondo cui trattandosi di problemi storici all’interno dei PM sono essi che devono affrontarli. Sappiamo che un area valutaria ottimale funziona senza trasferimenti se non ci sono squilibri territoriali e di reddito ma in un’area regionale di grande dimensione è impensabile che non esistano squilibri. Tanto è vero che già dal 1973 l’allora CE si è dotata dello strumento della politica regionale. Senonché questa e gli altri strumenti dei fondi strutturali sono rimasti sempre largamente sotto finanziati. Se si insiste sulla posizione originaria, non si capisce il segnale che arriva dalle regioni periferiche. Anche in Italia Renzi nel 2016 non ha capito il segnale che arriva dalle periferie (p. 58).
Ora a fronte dell’aumento delle diseguaglianze; b) delle migrazioni; c) del fallimento delle strategie pure adottate (Lisbona, Europa 2020) per la convergenza e, conseguentemente dell’aumento degli squilibri territoriali Nord-Sud, Est-Ovest nel bel mezzo di una crisi mondiale scatenata dalla finanza rapace, l’UE stenta – non accenna nemmeno – a dare una risposta a questi problemi. Presa com’è dalla necessità di tamponare la crisi del debito sovrano di alcuni PM e dal problema di salvare le banche, fa il contrario. Si rifiuta di modificare il Regolamento di Dublino; 2) fa poco o niente per iniziare l’attuazione del c.d. pilastro sociale; per essere più precisi costituisce il Fondo per gli aiuti europei agli indigenti (FEAD) vedi regolamento UE n. 233/2014 nell’ambito della cooperazione allo sviluppo ma in parte utilizzato anche all’interno dell’Unione; 3) al momento dell’approvazione delle prospettive finanziarie nel 2014 riduce di 80 miliardi la proposta della Commissione e, di conseguenza, anche i fondi per la coesione sociale e la politica regionale. Al Gruppo di Visegrad in netto e aperto dissenso sulla politica delle migrazioni non riesce a contrapporre alcunché.
La linea restrittiva della c.d. austerity pesa sul welfare e sulle migrazioni seppure con qualche rilevante eccezione messa in atto dalla Merkel sui profughi siriani e utilizza i seguenti dati: la UE assomma il 7% della popolazione mondiale, il 25% del PIL con una spesa sociale al 50% della spesa pubblica. Questa sottrae risorse alla competitività e produttività del sistema e, quindi, non è sostenibile secondo i conservatori. I quali non tengono conto della legge di Wagner secondo cui al crescere del PIL cresce la domanda di beni pubblici tra cui Sanità e istruzione. Una popolazione sana che pratica anche al formazione permanente (long life learning) rafforza la produttività della forza lavoro non senza trascurare che la popolazione europea si colloca tra le più vecchie del mondo e, quindi, richiede comunque più cure e più assistenza anche domiciliare, fa meno figli e quindi non solo per virtù ma anche per necessità può o deve avere una politica di accoglienza e inclusione dei migranti per mantenere il suo equilibrio demografico.
Ora basterebbe riflettere sul dato macro sulle migrazioni a livello mondiale (68 milioni di persone) per esaminare nella giusta prospettiva il problema dei flussi migratori in Europa dove i migranti che cercano di entrare nella UE si aggirano sui 2-3 milioni. Ma i politici populisti e sovranisti parlano di invasione, agitano la paura del diverso e su di essa prosperano. Sostengono che la disoccupazione dei lavoratori europei con qualifiche basse sia dovuta alla concorrenza dei migranti di norma con livelli di istruzione e formazione ancora più bassi di quelli dei cittadini europei. Certo non si può negare che ci sia una disponibilità dei lavoratori migranti ad accettare salari più bassi ma questo ci riporta alla teoria dell’esercito industriale di riserva che frena il potere contrattuale dei sindacati dei lavoratori e garantisce non solo la flessibilità nell’utilizzo della forza di lavoro ma aiuta anche a mantenere bassi i livelli salariali. Populisti e sovranisti sottacciono che i due problemi principali possono trovare adeguata soluzione solo con una politica di piena occupazione a livello europeo l’unica che può contribuire alla lotta della povertà di tutti e all’inclusione sociale dei migranti.
Questo sul terreno economico. Su quello politico la contorta e iniqua regolazione politica delle migrazioni all’interno dell’Europa aiuta i populisti e sovranisti di destra a diffondere la paura del diverso e su di essa costruire le loro fortune politiche.
Tornando alla politica, concordo con Molinari che è entrata in crisi la capacità dei partiti di relazionarsi con le masse; alcuni decenni di critiche per la verità in grossa parte fondate alla partitocrazia non sono passati inutilmente; siamo quindi passati al leadersimo e alla personalizzazione della politica che ha caratterizzato la seconda Repubblica. Anche questa non ci ha fatto mancare la corruzione e conflitti di interesse macroscopici dei suoi leader e di molti esponenti specie capi-corrente dei partiti che hanno portato i cittadini a identificare nei partiti la fonte della corruzione. Se i partiti e gli altri corpi intermedi sono strutture portanti della democrazia, il passaggio a quelli liquidi, leggeri e alle macchine elettorali indebolisce inevitabilmente la democrazia. Se a questo aggiungiamo la continua manipolazione del sistema elettorale che conserva le liste bloccate per cui il cittadino elettore non può scegliere il candidato da votare si capisce come sia potuto aumentare il rigetto della politica o la crescita dei movimenti anti-sistema. Se non ultimo considero i 30-35 anni di egemonia neoliberista a livello europeo che assume che i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato, che l’individuo è il miglior giudice di se stesso e non ha bisogno delle mediazioni di alcun corpo intermedio, che l’individuo razionale è quello che massimizza il proprio interesse individuale, ci rendiamo conto che il neoliberismo non è una dottrina economica semplificata ma è anch’esso – come il populismo e il sovranismo – un nemico della democrazia le cui sorti si giocano non in un singolo paese ma anche nelle grandi aggregazioni sovranazionali e nel mondo intero.
Allora se dovessi identificare due altre ragioni specifiche della crisi del nostro Paese li indicherei nel frazionismo, nella scissione tra morale e politica, nel basso livello di coesione sociale che caratterizzano non pochi italiani.
Non c’è rigore morale negli italiani che per secoli hanno accettato un sistema di doppi valori e non c’è nei partiti e, meno che mai, nei populisti che si identificano con il popolo che pretendono di rappresentare come un soggetto coeso, razionale e che sa esattamente quello che vuole perché caratterizzato da preferenze omogenee. Forse la responsabilità maggiore dei partiti prima della loro liquefazione è quella di non avere promosso una rigenerazione morale degli italiani, premessa fondamentale per sviluppare il senso civico e la coesione sociale e non ultimo una più alta accountability di tutta la classe dirigente (pubblica e privata) del Paese. Queste ultime sono le considerazioni che mi sento di aggiungere a quelle assunte nel libro di Molinari scritto brillantemente, facilmente leggibile e ricco di spunti su cui riflettere attentamente se si è d’accordo con Platone che definiva la crisi della democrazia come anticamera della tirannide o – come si dice ora – del mostro mite.
Enzorus2020@gmail.com
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