Rivitalizzare l’Unione europea e l’Italia

Luigi Paganetto, Rivitalizzare un’Europa (e un’Italia) anemica, Eurilink University Press, novembre 2020. Seguendo l’impostazione dell’Autore elenchiamo alcuni problemi globali: 1) competizione con la Cina ormai definita come la “fabbrica del Mondo”; 2) debolezza dell’UE su crescita economica, demografia, produttività e ruolo marginale nello scacchiere mondiale; 3) rischi di guerre commerciali; 4) rischi di guerre commerciali e focolai di terrorismo, insurrezioni e guerre vere e proprie in alcuni continenti; 5) diseguaglianze crescenti    all’interno dei paesi ricchi e di quelli in via di sviluppo; 6) ambiente e climate change; 7) governance  politica ed economica mondiale del tutto inadeguata ad affrontare i vari problemi, ecc.

 In qualche modo e per alcuni aspetti, detti problemi si ritrovano nella UE: ambiente, bassa produttività e bassa crescita, conversione verde, clima, demografia, digitalizzazione, disuguaglianze, innovazione, squilibri territoriali, necessità di riformare il welfare, ecc. Ovviamente l’UE si ritrova anche in una fase di incertezza da almeno 20 anni perché non si decide se restare ancora in mezzo al guado oppure andare avanti ed approfondire il processo di integrazione spingendo la governance verso un vero e proprio assetto federale. La Pandemia sta mettendo in evidenza i limiti dell’attuale assetto e giustamente Paganetto evidenzia che oltre il virus l’altro nemico da battere è l’incertezza.  

Citando il Rapporto della Commissione europea Ageing Report (2018) Paganetto (18) mette in evidenza i dati impressionanti del declino demografico dell’UE e dell’Italia: riduzione della fertilità, aumento degli anziani e, quindi, aumento della spesa previdenziale – spesa per le pensioni in Italia al 15,6% del PIL rispetto all’11,3% media UE –  e di quella sanitaria ridotta negli anni antecedenti la Pandemia e ora in forte aumento senza fare ricorso alla facility stabilita all’interno del Fondo Salva Stati (ESM). E tutto questo mentre aumenta il tasso di dipendenza, ossia, il numero degli anziani inattivi oltre 65 anni e gli occupati nella fascia di età tra i 15-64 anni.

Fin qui si è privilegiata la spesa pensionistica a scapito di quella per la istruzione e la sanità ma ora quest’ultima deve aumentare non poco e questo pone un problema serio per la spesa da destinare all’istruzione e alla formazione permanente in un paese che ha una disoccupazione giovanile pari al 29,6% a livello nazionale e al 36% nel Mezzogiorno. L’evidenza statistica a livello globale dimostra che i Paesi con popolazione più giovane riescono ad aumentare la produttività totale dei fattori più velocemente di quelli con popolazione vecchia. È quello che capita all’Italia che si colloca all’ultimo posto tra i paesi europei per aumento della produttività negli ultimi 15 anni (19).   

Il cap. 2 ripercorre le problematiche che si sono determinate nei primi 20 anni dell’euro con osservazioni e commenti sempre statistical evidence based. L’era dell’euro si inserisce nel più ampio periodo di 35-40 anni del neoliberismo imperante a Bruxelles dove prevale molta ideologia, sfiducia reciproca tra i Paesi membri (d’ora in poi PM) e da qui il ricorso a regole fiscali automatiche ed eccesso di fiducia nell’efficienza del mercato unico nonostante che Tommaso Padoa Schioppa, Ivo Maes e lo stesso  Robert Mundell, teorico dell’ottima area valutaria, ci avessero avvertito che l’eurozona non era e non è tuttora un’area ottimale e che mercato unico, moneta unica e piena libertà dei movimenti di capitale non potevano funzionare senza robusti meccanismi allocativi e di stabilizzazione rispetto a shock simmetrici e asimmetrici e, a maggior ragione, se si vuole promuovere sul serio la convergenza  delle regioni periferiche dell’Est e del Sud con quelle del Centro-Nord.  Non solo ma dopo Maastricht si abbandona la politica di armonizzazione fiscale e si dà il via libera alla concorrenza fiscale con l’obiettivo dichiarato di contenere il continuo aumento della spesa per il welfare – a giudizio dei neoliberisti non sostenibile.

Quanto alle politiche industriali abbiamo visto che i timidi tentativi di rilanciarle da parte della Commissione europea degli ultimi 30 anni sono caduti tutti nel vuoto. Ma la politica della concorrenza, con connessa rigida disciplina degli aiuti di Stato, assegnava alle imprese più forti responsabilità   di definire e gestire le appropriate politiche industriali che, in particolare, non erano alla portata delle piccole e medie imprese come quelle italiane. Paganetto (81) accenna ad un trade-off tra concorrenza e politica industriale che, in realtà, non è un bilanciamento ma dà una priorità alla concorrenza.   Un’ autorevole conferma politica di questa mancato bilanciamento viene da un recente Rapporto dell’Assemblea nazionale francese che conferma l’assenza di una politica industriale erroneamente sostituita con la politica della concorrenza: “uno squilibrio normativo codificato nei Trattati”. E sappiamo che quando imprese forti e quelle deboli concorrono su un mercato di dimensioni continentali con diversi squilibri territoriali, deficit infrastrutturali, distanze dai mercati centrali, disuguaglianze di produttività, di investimenti pubblici e privati è chiaro che sono le prime che vincono la gara. Non senza trascurare i livelli di istruzione terziaria e nella spesa per la formazione permanente. Rispetto ad una media UE del 40% l’Italia registra un 27,8% davanti alla Romania con il 24,6%.   

Le crisi economiche e finanziarie richiedevano un maggiore ruolo espansivo dell’operatore pubblico che non c’è stato perché non solo si sono ridotti gli investimenti pubblici ma le politiche di austerità che, nei paesi ad alto debito hanno tagliato la domanda aggregata, hanno impedito a molte imprese di avvalersi dei bassi tassi di interesse che pure l’euro aveva prodotto, per fare nuovi investimenti in nuova capacità produttiva essendo che non utilizzavano a pieno quella esistente.  Si spiega così anche la mancata convergenza tra le regioni centrali e quelle periferiche.

Con il suo bel libro ricco di grafici colorati e tabelle, Paganetto dà un quadro complessivo dei problemi, delle possibili soluzioni e degli strumenti – attualmente del tutto inadeguati – per perseguire i complessi obiettivi di sviluppo sostenibile, di conversione verde, di digitalizzazione dell’economia e della società, di maggiore benessere non solo per i cittadini europei ma anche per quelli del resto del mondo consapevole che la globalizzazione c’è e resterà a lungo specialmente se si riuscirà a governarla meglio di quanto si è fatto finora.    

C’è un grosso problema di dimensione del bilancio e di governo dell’economia a livello europeo. Non si può avere sovranità assoluta o autonomia strategica a livello UE e dei suoi PM. Si può condividere la sovranità sapendo che il ruolo dell’UE non può essere solo di supporto (per lo più morale), integrazione e coordinamento. Il supporto e il coordinamento non funzionano più. Il primo perché il supporto presuppone che i governi siano veramente sovrani in materia di politica economica e finanziaria e ciò non è più vero da quando con la moneta unica e il Patto di stabilità e crescita – reso progressivamente sempre più rigido – si è rovesciato il ruolo della politica monetaria rispetto a quello della politica fiscale. Prima in uno Stato unitario aveva l’iniziativa la politica fiscale e la politica monetaria doveva essere accomodante. Oggi nell’assetto incongruo dell’UE la fa da padrona la politica monetaria.   Le politiche fiscali dovrebbero essere coordinate con la politica monetaria ma sappiamo che il coordinamento delle politiche fiscali non funziona e abbiamo visto che, negli anni delle politiche dell’austerità, nei paesi mediterranei gli effetti espansivi della politica monetaria venivano neutralizzati dagli effetti restrittivi delle politiche fiscali imposte dalla Troika – BCE, Commissione UE e FMI – ai paesi che dovevano consolidare i conti pubblici e difendere la sostenibilità del loro debito pubblico magari sotto attacco dalla speculazione internazionale. Per altro verso, paesi come la Germania con i conti pubblici in ordine ma con grossi surplus commerciali nella bilancia dei pagamenti non li correggevano violando anche essi le regole del PSC.   Da qui le Proposte prima dei quattro e poi dei cinque Presidenti (PE, BCE, CE, Commissione, Eurogruppo) e più recentemente del Fiscal Board di andare avanti non solo con il completamento dell’Unione economica e monetaria ma con l’Union fiscale e, soprattutto, con quella politica.

Paganetto ripercorre tutte queste tappe (stazioni della via crucis) dell’UE e del loro fallimento. Gli incontri franco-tedeschi di Meseberg, di Aquisgrana, l’idea di un bilancio separato dell’Eurozona, il lancio del Pilastro sociale. Quest’ultimo è, allo stato, un progetto utopico, un Manifesto di buone intenzioni in una UE che in alcuni PM vede sistemi avanzati di welfare e in altri poco sviluppati per via delle condizioni generali delle loro economie in transizione. Implementare il Pilastro sociale in questi PM implicherebbe massicci trasferimenti di aiuti che i PM ricchi non intendono mettere in atto.

Un bilancio separato dell’eurozona potrebbe aiutare ad attuare a livello centrale due significative funzioni del bilancio comune: quella di stabilizzazione del ciclo economico e l’altra allocativa di sostegno alla crescita economica delle regioni meno sviluppate. Il che richiede ovviamente un bilancio comune molto più consistente di quello attuale – per cominciare almeno nell’ordine del 5% del PIL. Al riguardo Paganetto (95) cita il dato dei fondi di coesione – 351,8 miliardi pari a 1/3 del bilancio UE, pari allo 0,3% del PIL UE a 28. Anche considerando il Recovery Fund l’attuale bilancio non supera il 2% del PIL che si confronta con bilanci pubblici nei paesi federali veri e propri nell’ordine del 20-25% del PIL. Consapevole della gravità di questi problemi la Commissione aveva risposto – rispondendo anche al FMI 2014 – con un piano che prende il nome del suo presidente pro-tempore Juncker. Veniva creato un Fondo europeo di investimenti strategici (122), rectius, un fondo di garanzia di 21 miliardi – di cui sei provenienti dalla BEI e 15 miliardi che la Commissione stornava da altri programmi a cui si collegava un effetto leva (pari a 15) molto elevato secondo il parere di esperti. Peraltro questo Fondo – precisa Paganetto- non aveva basi legali ben definite come quelle di un vero e proprio Trattato intergovernativo alla base del Fondo Salva Stati. Come si legge in un recente documento della Commissione, Il Piano Juncker ha mobilitato 500 miliardi nel periodo 2015-20 e ne potrebbe mobilitare altri 376 nel periodo 2021-27 se collegato con un preciso indirizzo di politica industriale (223). Non è un fallimento ma un successo limitato del tutto insufficiente per rilanciare una crescita sostenuta e sostenibile in grado di rilanciare la convergenza. 

Con questi dati e queste decisioni, non si può dire che la Commissione che non ha fatto niente ma le decisioni assunte non cambiano significativamente il quadro di insieme.  E’ chiaro che non si può parlare di vera coesione sociale a livello europeo e, per questi motivi – checché se ne dica- senza un consistente bilancio comune l’UE resta un’anatra zoppa perché tuttora non c’è un vero governo democratico dell’economia che risponda al PE e non al Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo dei PM. Si va avanti, non di rado, con accordi intergovernativi e approccio puntuale, ossia, si isola un problema, si costituisce un fondo con limitate risorse e si stabilisce un’autorità che lo amministra autonomamente o in collaborazione con la Commissione ma con regole molto restrittive come nel caso del Fondo Salva Stati.        

 Paganetto conferma l’inadeguatezza della governance economica mondiale (G-7, G-8, G-20) e di quella europea. Con riguardo a quest’ultima osserva che nonostante la moltiplicazione degli strumenti successivamente alla crisi 2008-09 (Nuovo PSC, Fiscal Compact, Six Pack, Two pack, Europlus, MES,) il governo dell’economia europea nel suo insieme resta lontano dalla sufficienza perché fondata sull’idea del pilota automatico, sulla eccessiva fiducia nel mercato e il frequente ricorso ai Trattati intergovernativi.

Ciò posto, Paganetto (149) ci ricorda ancora che i paesi emergenti sono cresciuti più velocemente dei Paesi ricchi. Cresce l’interdipendenza economica tra i diversi continenti come dimostrano le c.d. catene internazionali del valore. 2/3 del commercio mondiale passa attraverso dette catene. Aumenta anche l’integrazione finanziaria. C’è una competizione molto forte tra Cina e Stati Uniti per la leadership nel campo tecnologico. Se questo, da un lato, evita una guerra armata, dall’altro, alimenta quella commerciale per cui non si può parlare solo di guerra dei dazi. 

Rispetto a questi fenomeni l’UE non sembra giocare un ruolo di rilievo per via della bassa produttività e dei bassi investimenti che rendono difficile una sua iniziativa nella competizione globale. Si è creato una certa tripartizione nella UE -27. C’è la Germania e altri paesi che gestiscono un enorme surplus commerciale in violazione delle regole comunitarie; ci sono i Paesi dell’Est europeo che crescono in parallelo con quelli emergenti grazie anche ai sussidi dell’UE oltre che ai cospicui investimenti diretti della Germania mentre i paesi del Mediterraneo con produttività più bassa della media europea vedono crescere i divari con le regioni centrali. Da qui non solo l’opzione ma anche la necessità per l’Italia di promuovere ed attivare la strategia mediterranea.  

Nella premessa al cap. 5 (183) Paganetto ricorda di nuovo i problemi della UE: ambiente, clima, crisi demografica, welfare, cambiamento tecnologico e digitalizzazione, bassa produttività e conseguente basso tasso di crescita, ecc. e dedica l’ultimo paragrafo del libro (231-32)   a quello che dovrebbe fare l’Italia. Dovrebbe programmare lo sviluppo sostenibile, verde e digitale della propria economia. Paganetto cita il fatto che dopo aver speso i fondi del Piano Marshall l’Italia elaborò il Piano Vanoni (1955). Come noto, questo non era un vero e proprio Piano ma uno Schema, le linee guida di un progetto di sviluppo decennale dell’occupazione e del reddito che, formalmente introduceva il metodo della programmazione nel governo dell’economia. Oggi servirebbe almeno uno Schema trentennale di sviluppo in parallelo all’arco temporale di rimborso dei prestiti comuni che la Commissione emetterà per finanziare NGEU.

Il libro di Paganetto esamina molti altri problemi di quanti ne ho affrontato io sommariamente in questa recensione. Il libro costituisce un vero vademecum per esaminare i principali problemi dell’economia globale e di quella europea. Chiunque si interessa dell’UE e del suo futuro farebbe bene a leggerlo e tenerlo a portata di mano.

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l testo del Rapport d’information della Commission des affaires européennes dell’Assemblea nazionale francese – Rapport d’information sur l’avenir de la politique industrielle européenne, 25 marzo 2021 (alla pagina: http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/assn/assnat_rapport-information_politique-industrielle-europeenne.pdf)

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