In un lungo pezzo “la giungla federale”, pubblicato su la Stampa del 6.09.2008, Luca Ricolfi bolla la bozza2 del ddl di attuazione dell’art. 119 Costituzione del ministro della semplificazione Calderoli, incaricato di gestire questa fase negoziale del procedimento. Le critiche di Ricolfi si riassumono nell’affermazione principale senza speranza, secondo cui “il ddl immagina un meccanismo di controllo da parte dei cittadini che non ha nessuna chance di funzionare come ci si attende”. Sostiene questa tesi con più argomenti che sintetizzo drasticamente: troppi cinque livelli di governo, troppe imposte assegnate ad ognuno di esse; troppa fatica per il cittadino che volesse controllare le scelte fatte a livello locale e verificare la corrispondenza tra soggetti beneficiari e contribuenti in termini sostanziali di qualità di servizi e non solo di aliquote formali previste per ogni singolo servizio ed ogni singola imposta pagata a ciascun livello di governo; troppi calcoli complicati da fare. Da qui la proposta tanto sorprendente quanto ingenua di un’unica imposta per ciascun livello di governo al posto dei vari panieri di imposte previsti dalla bozza2 di Calderoli.
Dico subito che chiunque abbia approfondito minimamente lo studio dei sistemi federali, sa bene che il federalismo è complicazione rispetto ad assetti istituzionali centralizzati e, quindi, mal si coniuga con la semplificazione. Sa inoltre che la democrazia federale è una forma più avanzata di democrazia ma non dimentica che questa in generale non è un sistema semplice, perfetto o rapido.
Ciò posto, è vero che cinque livelli di governo – anzi sei con quello comunitario – sono troppi; che ricercare l’efficienza con amministratori, a volte, irresponsabili non è facile; che non basta unificare in testa alle stesse persone le decisioni di spesa e prelievo per avere la massima trasparenza del sistema; che sono previsti calcoli complicati e quant’altro.
Intanto se uno legge bene la bozza2 del ddl Calderoli – come del resto i precedenti ddl di attuazione dell’art. 119 – non è vero che si voglia dare piena autonomia tributaria ai livelli sub-centrali di governo ed incrementare al massimo la trasparenza. I tributi propri in senso stretto sono e rimarranno una quota bassa delle entrate rispetto a quanto si può riscontrare in altri paesi federali. Il grosso delle risorse dei governi sub-centrali verrà – secondo le intenzioni che si leggono tra le righe e non secondo dati numerici che ancora non ci sono – attraverso compartecipazioni che sono trasferimenti camuffati. La finanza degli enti locali continuerà a rimanere di carattere derivato seppure in grado minore rispetto al passato e al presente. Su questo purtroppo c’è convergenza di vedute tra maggioranza ed opposizione proprio perché il governo centrale da chiunque sia costituito tende a conservare il controllo della finanza dei governi sub-centrali.
La polemica sul numero dei tributi è ormai superata. Lo stesso Tremonti che insieme al prof. Vitaletti, negli anni ’90, l’aveva sostenuta con libri come le cento tasse e la fiera delle tasse l’ha ora abbandonata. Quando si devono raccogliere grossi gettiti magari rispettando il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione servono più imposte. Che nell’insieme debbano essere 30 o 40 si può discutere. Ma è chiaro che in un sistema federale, di governo suddiviso, in teoria e in pratica, ogni livello di governo deve avere il suo sistema tributario proprio per porre quei due presupposti che possono consentire il rispetto non solo del principio della capacità contributiva ma anche di quelli del beneficio, della responsabilizzazione e di trasparenza.
Non ultimo il federalismo, attraverso il decentramento del processo decisionale, vuole promuovere la partecipazione politica ed amministrativa dei cittadini. Per questi motivi, la democrazia federale si atteggia a modello più avanzato di democrazia – lo ripeto – perché vuole valorizzare il ruolo non solo di partecipazione passiva – alla stregua di spettatori di un programma TV – ma anche deliberativo dei cittadini anche attraverso referendum sulle spese pubbliche. In Italia i cittadini non contano nulla in primo luogo, perché il sistema politico è gestito e controllato da oligarchie centraliste rafforzate ulteriormente dalla legge elettorale del 2005. Sembra ora che i principali partiti non vogliano più riformare tale legge anzi ne vogliono adottare una simile per l’elezione del parlamento europeo. In secondo luogo, perché non c’è tra i cittadini una grande voglia di partecipazione dopo che, per un lungo periodo, sono stati tenuti alla finestra. In ogni caso, partecipare alle scelte pubbliche ha alti costi monetari e di tempo e gli italiani non sembrano disposti a pagarli. Preferiscono delegare e magari a un leader .
Per funzionare bene il federalismo presuppone che anche a livello locale ci sia una classe dirigente all’altezza del compito. In Italia non c’è classe dirigente seria e con una visione condivisa del futuro né al centro né in periferia. Le oligarchie centraliste hanno impedito e impediscono il ricambio sia di quella nazionale che di quella locale. Autonomia, responsabile e visione sono merci rare. I conflitti all’interno del PD torinese insegnano e fanno presagire che altri analoghi conflitti tra centro e periferia insorgeranno. La bozza2 del ddl Calderoli ha i suoi limiti ma se non funzionerà non è perché il meccanismo proposto non è perfetto ma perché mancano alcuni presupposti fondamentali di contesto. In questi termini, la critica principale di Ricolfi potrebbe non essere sbagliata.