Secondo Reich, Supercapitalismo. Come cambia l’economia globale e i rischi per la democrazia, Fazi Editore, 2008, tra il 1945 e il 1975 l’Occidente ed in particolare gli Stati Uniti sono vissuti nell’età non proprio dell’oro. In essa si affermava lo stato sociale. C’era un sistema di limitata concorrenza monopolistica. I manager delle grandi imprese e delle public company svolgevano un ruolo di c. d. statisti aziendali secondo la definizione di Walter Lippmann. I sindacati erano forti e riconosciuti dalle aziende. Si praticava una ragionevole politica dei redditi e dei prezzi. Secondo Reich il capitalismo made in USA era democratico.

La svolta avviene negli anni ‘70: più concorrenza e più innovazione abbattono le barriere di ingresso alla produzione di massa. Le nuove tecnologie consentono la nascita e la crescita di nuove imprese che fanno aumentare la concorrenza a prescindere dalle loro dimensioni. Reich fa datare l’arrivo del supercapitalismo dagli anni ‘70.
Reich individua le cause del cambiamento nelle turbolenze dei cambi di quegli anni, in seguito al crollo del sistema monetario di Bretton Woods (1971), nella successiva deregolamentazione, nella globalizzazione e quindi nell’accelerazione della concorrenza. In termini di regolazione e intervento dello Stato, assistiamo all’abbattimento della regolazione a livello nazionale in linea con l’assenza di regolazione a livello internazionale. In altri termini, si sono allineati i sistemi a livello interno ed internazionale proponendo il nulla. In teoria, la globalizzazione è governabile ma, in assenza di un governo mondiale, occorre un forte coordinamento tra le politiche economiche dei diversi governi. La risposta concreta del governo USA e delle istituzioni sopranazionali è semplice: ognuno faccia quello che può. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi. Declinano e quindi scompaiono i grandi imprenditori c .d. “statisti aziendali”. Il capitalismo democratico è stato sostituito dal Supercapitalismo di Reich. La regolazione è stata ridotta al minimo. I manager sono diventati rapaci – aggettivazione che si attribuisce al Presidente Theodore Roosvelt.
Il rischio è alto che il trionfo del capitalismo rapace possa portare prima o poi al declino e alla rovina della democrazia. Per questi motivi le analisi che Reich ci propone devono interessare non solo gli economisti ma anche i sociologi, i politologi, la gente comune e quanti altri hanno a cuore le sorti della democrazia.
Dopo il crollo di Bretton Woods (1971) gli Stati Uniti impongono un sistema di cambi flessibili ed affidano ai mercati la determinazione dei livelli del cambio della moneta egemone del sistema. Corrispondentemente all’interno della loro economia comincia una fase di instabilità. Questa è dovuta al fenomeno economico sottostante: nella produzione di massa, nell’economia dei servizi, non c’è più un problema di ingresso. Intervengono quindi nuovi attori. Il coordinamento oligopolistico non c’è più. Dopo trent’anni di sbornia neoliberista, c’è l’assenza dello Stato che resta l’”unico” soggetto legittimato a affrontare il difficile e delicato compito di coordinamento. È vero ci sono le istituzioni sovranazionali: l’ONU, il FMI, la Banca Mondiale, il WTO,ecc.. Sappiamo delle difficoltà che esse incontrano.
Negli Stati Uniti il governatore della FED Greenspan non si preoccupava dell’inflazione perché capì che le grandi imprese non controllavano più i prezzi come prima. Emerge il fenomeno emblematico di Wal-Mart. Definito come una specie di rullo compressore dei prezzi a danno dei propri dipendenti che devono rinunciare anche alle forme minime dì protezione sociale e alla protezione sindacale se vogliono lavorare.
La maggiore concorrenza spinge a tagliare i costi e (tra questi) quelli del lavoro. E così la classe media si impoverisce viepiù. Aumenta in essa la paura di perdere i livelli di benessere conquistati.
Diversa la situazione in Europa dove il grado di concorrenza è senz’altro più basso. Le imprese tendono a colludere, a fare cartello. I sindacati restano relativamente più forti e proteggono maggiormente gli occupati.
In America i lavoratori soffrono per l’eccesso di concorrenza e di liberalizzazione, in Italia e in Europa per mancanza di concorrenza e liberalizzazione.
I manager dell’industria devono produrre risultati. L’industria e più in generale l’economia si mette al servizio di Wall Street. Sappiamo che in borsa prevale l’ottica di breve e brevissimo termine. Cresce enormemente l’influenza delle banche d’affari. Tende a prevalere la logica della finanza su quella dell’economia reale (della produzione) e, nei casi peggiori, della finanza creativa per usare un eufemismo. I manager senza scrupoli “possono far dire ai numeri quello che vogliono” e così falsificano i bilanci regolarmente certificati da società di revisione e di rating in sistematico conflitto dì interessi con la loro missione[1]. Quando il livello dei salari dei top manager raggiunge 4-500 volte in media – in Wal-Mart l’AD guadagna 900 volte di più – addirittura quello del salario medio dei propri dipendenti. Tutti capiscono che si è perso ogni senso della misura. E questa è una questione di etica di giustizia sociale.
Ora vediamo come entra nel gioco la politica e la democrazia. Si dice che, a partire dagli anni ’70 inizia un lungo processo di deregolamentazione. È vero e negli anni ’80 abbiamo i fallimenti di diverse centinaia di Saving and Loans Associations. Ma ci sono altre regolamentazioni che vengono chieste dalle imprese per procurarsi vantaggi competitivi. Le imprese le chiedono ai politici legislatori e questi non si muovono per nulla.
In un contesto di forte concorrenza questa viene combattuta senza esclusione di colpi. Si combatte cercando di mantenere posizioni di vantaggio o di acquisirle attraverso una legislazione accomodante vuoi in termini di aiuti alle imprese e/o di regolazioni di favore.
Reich spiega in questo modo la forte crescita del lobbismo con l’acuirsi della concorrenza.
Cita la lobbista Lauren Maddox che vede “il processo politico come una estensione del campo di battaglia del mercato” dove – aggiungo io – si trattano affari sporchi.
Si tratta di una vera e propria ipertrofia se si considera che solo a Washington D.C. sono registrati 77 mila avvocati di cui moltissimi fanno i lobbisti (ufficialmente 61.000), ossia, il Rent-seeking e/o la ricerca di un vantaggio competitivo a tutti i costi.
Reich racconta l’interessante vicenda del tentativo (bocciato dalle autorità) di Wal-Mart di entrare nel settore bancario. Era un altro tentativo di assicurarsi un altro vantaggio competitivo. Un ennesimo caso di rent-seeking. Molte imprese sono alla ricerca di rendite competitive dinamiche che consentono l’espansione del business. Certo le rendite competitive sono qualitativamente diverse dalle rendite di protezione e dalle rendite monopolistiche che l’intervento regolatore dell’operatore pubblico dovrebbe abbattere o cercare di contenere.
A volte però, è difficile distinguere le prime dalle seconde e sull’onda lunga del neoliberismo negli anni ’90, salta la distinzione tra banche ordinarie e banche d’affari e/o di investimento. Queste ultime entrano nel gioco e probabilmente lo controllano.
Se questo è il contesto, è chiaro che il discorso di facciata sulla corporate social responsibility è solo buona pubblicità per le corporation. In realtà, nel supercapitalismo si registra l’impossibilità di essere socialmente responsabili. Anzi prevale il paradigma secondo cui tutte le aziende che producono buoni profitti sono socialmente responsabili. Passa il punto di vista il punto di vista secondo cui “il malcostume sociale non è necessariamente dannoso per gli affari” e che ” forse esiste un premio per il vizio così come esiste un premio per il rischio”. In fatto si deve poi constatare che i consumatori non sono disposti a pagare di più per i beni prodotti da imprese che prendono sul serio la social responsibility.
Emerge una verità scomoda secondo Reich: “come consumatori e investitori puntiamo a fare grandi affari. Come cittadini disapproviamo le molte conseguenze sociali che ne derivano”. Nel privato, questa è la “mente divisa”, ossia, il comportamento schizofrenico delle persone. Nel pubblico, “il capitalismo ha invaso la sfera della politica”. La democrazia è assediata.
Negli Stati Uniti politici non rieletti diventano lobbisti per sfruttare le loro conoscenze nel Congresso e del processo legislativo. Uomini della finanza diventano politici e uomini di governo, alla scadenza del mandato vanno a lavorare nelle grandi banche d’affari. E poi vengono magari richiamati a ricoprire di nuovo alte cariche pubbliche. C’è una osmosi tra mondo della finanza e della politica che non è affatto neutrale. Ci sono conflitti di interessi diffusi di cui nessuno parla. O almeno ne parlano alcuni ma non vengono presi sul serio.
“Il potere è passato nelle mani dei consumatori e degli investitori – dei manager e della plutocrazia aggiungo io. Poteri forti senza legittimazione democratica dominano la scena politica e controllano il processo democratico. Per questi motivi, occorrono misure per rivitalizzare la democrazia e sottrarla alla tutela dell’economia e della finanza. Negli USA è impossibile approvarle e attuarle finché i politici continueranno a dipendere finanziariamente dalle corporation di cui vorrebbero limitare il potere.
Ma c’è una interpretazione diversa e in parte alternativa. Il processo legislativo non di rado è fortemente influenzato dall’estorsione dei fondi che i politici e i lobbisti (non di rado, politici non eletti) operano dal settore privato. Rent-seeking delle imprese e/o estorsione dei politici? Una interpretazione politologica è quella classica del log-rolling, lo scambio di favori,che spesso e volentieri sfocia nel clientelismo e/o nella corruzione vera e propria? Il famoso politologo Charles Lindblom afferma al riguardo: “non è né etico né logico concedere alle corporation una voce in capitolo nel processo democratico”.
Qui Reich fa una lunga digressione sulle corporation e/o persone giuridiche come entità distinte dai manager. Escluso che le corporation in quanto tali debbano essere ammesse a partecipare al gioco democratico, rimane il problema di come impedire ai manager di partecipare al processo politico a titolo personale ed evitare che essi portino avanti gli interessi delle loro aziende. Reich auspica di nuovo la separazione tra politica ed economia.
Negli Stati Uniti, i Bush (famiglia di petrolieri) hanno dimostrato che possono fare eleggere presidente un modesto governatore del Texas e prendere la presidenza due volte nel giro di dieci anni.
Anche in Italia non c’è separazione tra politica e finanza. Basta chiedersi dove si annidano i poteri forti e come sono nominati i manager delle Fondazioni bancarie e delle banche stesse. In Italia l’imprenditore Berlusconi ha vinto le elezioni tre volte di seguito ed è diventato primo ministro. Ha espropriato il parlamento dei suoi poteri legislativi. Continua nei suoi tentativi di delegittimare la magistratura e ora di screditare tutta la PA, la scuola e l’Università. Berlusconi è un uomo di finanza non certo etica al di là di quello che pensa la sua figlia Barbara. In Italia siamo di fronte ad un groviglio di conflitti di interesse unico nel mondo. Un solo uomo controlla non solo enormi risorse finanziarie, molti mezzi privati e pubblici della comunicazione ma anche e totalmente il processo legislativo se è vero come ritengo che il governo ha espropriato il Parlamento di qualsiasi significativa influenza su detto processo. Il fatto è denunciato dai parlamentari più avveduti della maggioranza. Questa non sostiene più il governo come avveniva una volta ma dipende da esso. Si è rovesciato il rapporto di fiducia perché, in fatto il premier è eletto direttamente e per via del sistema elettorale, in realtà sono le oligarchie centraliste dei partiti che nominano i parlamentari.
Molti sanno che per entrare nella UE i Paesi aspiranti devono superare un test di democrazia e di legalità. I punti essenziali di tale test riguardano la separazione dei poteri, la legalità e la corruzione nella vita pubblica. Colleghi di diritto costituzionale ed altri esperti della materia ritengono che se si dovesse applicare lo stesso test al nostro Paese, l’Italia difficilmente lo supererebbe.
Chiusa questa parentesi sull’Italia, sottolineo come le questioni della separazione dei poteri, non solo quella tradizionale tra legislativo, esecutivo e giudiziario ma ora anche la separazione tra politica ed economia, tra politica e finanza, tra industria e finanza da un lato e proprietà e controllo dei mezzi di comunicazione, dall’altro, stanno diventando problemi cruciali per la democrazia.
Come se ne può uscire? Reich a p. O cita Galbraith e Friedman. Nella citazione da “Capitalismo e libertà” di Milton Friedman è detto: “il tipo di organizzazione economica che offre direttamente la libertà economica, sarebbe a dire il capitalismo competitivo, promuove anche la libertà politica perché separa i poteri economici dai poteri politici e permette così all’uno di controbilanciare l’altro”.
Tutta l’analisi di Reich dimostra gli intrecci e i rapporti incestuosi tra politica ed economia, tra politica e finanza. Ritengo tuttavia che nella citazione di Friedman c’è la risposta ai problemi del Supercapitalismo che Reich descrive efficacemente: separazione dei diversi poteri senza però sottovalutare la grande difficoltà di attuazione di un simile obiettivo. Bisogna costruire un sistema che approfondisca la separazione dei diversi poteri.
Questo naturalmente non significa che essi non si debbano coordinare o che non debbano cooperare. Anzi secondo Tsebelis, un docente di scienza politica all’UCLA che ha scritto un libro intitolato “Poteri di veto” (una moderna interpretazione del funzionamento delle istituzioni politiche): gli organi dello Stato dovrebbero essere dotati di veri e propri poteri di veto degli uni nei confronti degli altri. Il modello formale è quello della Costituzione USA ma abbiamo visto come in pratica esso funziona grazie alle analisi di Reich.
Questi non cita Tsebelis che ha insegnato a Los Angeles sino al 2007. Mi pare che ci sia un certo grado di ingenuità nelle sue affermazioni in particolare al riguardo della separazione tra politica ed economia. È ingenuo che si possa pensare ad una separazione netta. A me sembra impossibile se penso che come cittadini e come
consumatori operiamo in un’economia mista con un ampio settore pubblico, che c’è una forte interdipendenza tra settore pubblico e privato. Che la produzione di beni pubblici implica la rinuncia ad una certa quantità di beni privati; che per finanziare la spesa per i beni pubblici occorre prelevare delle imposte e che queste producono distorsioni anche nelle decisioni circa la produzione dei beni privati e l’uso dei fattori produttivi; che il mercato non funziona al meglio delle proprie possibilità e perciò si rendono necessari continui interventi regolatori da parte dell’operatore pubblico.
Abbiamo un grande e complesso problema di regolazione, di quantità e qualità della medesima non solo negli USA ma anche in Italia. Qui da noi, al proliferare delle AAI, secondo me, non corrisponde un miglioramento della qualità degli interventi dì regolazione. Non vorrei che la risposta di questo governo continuasse ad essere quella fatta sempre nel D.L. n. 112 di abrogare l’autorità anti-corruzione e quella anti contraffazione delle merci.
Il libro di Reich è uscito prima che scoppiasse fragorosamente la crisi finanziaria, come noto, innescata dai default dei c.d. mutui sub-prime. L’Autore non tocca affatto l’argomento probabilmente per sua scelta consapevole. Alcuni osservatori pensano che la crisi sia originata dalle distorsioni nel funzionamento delle istituzioni finanziarie e da inadeguata regolamentazione.
Leggendo Reich si capisce come essa origini anche dal funzionamento “dell’economia reale” del c.d. Supercapitalismo e dal suo assoggettamento a Wall Street. Per questi motivi il libro è di grande interesse per tutti.
[1] Spesso e volentieri, le società di certificazione dei bilanci e quelle di rating sono in conflitto di interessi perché vendono ai loro clienti altri servizi redditizi.