Le aliquote vigenti attualmente sono cinque e si applicano ai seguenti scaglioni di reddito. Sino a 15 mila €: 23%; da 15 a 28 mila €: 27%; da 28 a 55 mila €: 38%; da 55 a 75 mila €: 41%; oltre 75 mila €: 43% . La scala delle aliquote dà un prima idea della progressività dell’Irpef e, tuttavia, anche da un primo sguardo, si evidenzia che la progressività crescente soprattutto per i redditi medio bassi. Infatti nel passaggio dal secondo al terzo scaglione, c’è un incremento dell’aliquota marginale di ben 11 punti. Poi per i redditi più alti, l’aumento delle aliquote è rispettivamente di 3 e 2 punti. Naturalmente tutto questo in termini di aliquote nominali, cioè, senza tener conto delle detrazioni e/o deduzioni che per i primi scaglioni,  abbattono le aliquote nominali aumentando la progressività sui redditi medio-bassi.

Ci sono tanti metodi statistici per misurare la progressività.  Alcuni sono molto complessi e  non posso spiegarli qui. Quello più semplice e immediato – che i volenterosi possono svolgere da soli –   è calcolare l’aliquota media effettiva, ossia, rapportare l’imposta effettivamente pagata alla base imponibile. Se l’aliquota media effettiva cresce al crescere del reddito imponibile si può affermare – senza tema di sbagliare – che l’imposta è progressiva. Il problema sta nella definizione di reddito imponibile. Negli anni sessanta si teorizzava correttamente una base imponibile onnicomprensiva di tutte le sei categorie di reddito che prevede il nostro testo unico sull’imposta personale sul reddito. Ma se il legislatore ne  lascia fuori alcune (rendite finanziarie, dividenti azionari, redditi di fabbricati, incrementi di valore patrimoniale, ecc.),  è chiaro che per i soggetti che introitano questi tipi di reddito non sta considerando la loro capacità contributiva effettiva come prescrive l’art. 53 Cost.. Così facendo favorisce alcuni e danneggia altri perché sta usando misurazioni diverse della loro capacità contributiva, violando non solo l’art. 53 ma anche il tre sull’uguaglianza. I due articoli vanno necessariamente coniugati.

Fin dalla riforma del 1971, le rendite finanziarie sono state lasciate fuori dalla progressività e,  come altre voci, sono state sottoposte a c.d. regimi sostitutivi più o meno favorevoli ma tutti agevolati rispetto a quello principale.  Così è stato per i capital gain, gli interessi sui titoli del debito pubblico e, negli ultimi venti anni, per la rendita della prima casa prima esonerata dall’Irpef e poi dall’ICI e, in prospettiva, dalla nuova imposta municipale unificata. In questo modo, il legislatore, scientemente ha determinato una situazione per cui la progressività – come ho già detto nel post del 7 giugno scorso – si applica quasi esclusivamente ai redditi di lavoro dipendente o autonomi sottoposti a ritenuta alla fonte. Se poi considero che i titolari di redditi di lavoro autonomo (per la parte non sottoposta a ritenuta alla fonte) e di impresa evadono alla grande, si capisce che è violato  gravemente il principio di uguaglianza perché alcuni sono tassati su basi imponibili effettive e altri su basi imponibili evase o sottostimate generosamente dagli studi di settore – comunque largamente inferiori a quanto effettivamente incassano.

La proposta di Tremonti di ridurre il numero delle aliquote senza precisare l’altezza comparata né l’ampiezza degli scaglioni è nella linea illusoria della semplificazione. Ci si aspetterebbe, infatti, che la rimodulazione delle aliquote e degli scaglioni fosse operata in relazione a studi approfonditi con riguardo alle modifiche che si sono determinate nella distribuzione personale  del reddito ma non mi risulta che i quattro tavoli abbiano fatto analisi di questo tipo. Anche per questi motivi confermo che la proposta è avventata e propagandista. Comunque pericolosa perché potrebbe preludere non solo a consistenti perdite di gettito ma anche all’ennesimo condono fiscale questa volta giustificato dalla riforma. Chiudiamo con il passato e apriamo a parole una nuova era. E sappiamo che con i condoni Tremonti è stato sempre di manica larga.