L’art. 117 della costituzione, come riformato nel 2001, prende 17 lettere dell’alfabeto (sino alla s) per elencare le competenze esclusive dello Stato. Poi elenca 19 materie di competenza concorrente di cui 15 trasferite alla competenza esclusiva dello Stato. L’elencazione di queste ultime nell’articolo modificato occupa tutte le lettere dell’alfabeto, ma questo tipo di conteggio è ingannevole perché se sommiamo le nuove alle vecchie competenze arriviamo a 32 commi. Neanche questo conteggio racconta la verità perché, come abbiamo visto anche esaminando l’art. 55 sulle nuove competenze del Senato, all’interno di un solo comma si ammucchiano diverse materie che, nel rispetto della tecnica della scrittura legislativa, dovrebbero essere assegnate a commi diversi. In diritto la forma è sostanza. In diritto si distingue anche tra competenze e funzioni. Queste ultime possono anche comprendere più competenze.
Quando si procede ad una diversa suddivisione delle competenze, quello che conta è capire quale criterio logico, giuridico, economico, storico-normativo si è seguito e se i criteri scelti sono coerenti con l’obiettivo della forma di governo che si vuole attuare. Come ho già osservato in un mio scritto del 2003, le materie erano state suddivise in tre commi: nel comma 2 le competenze esclusive dello Stato; nel comma 3 le competenze concorrenti; nel comma 4 quelle esclusive delle regioni. Al riguardo i giuristi che scrivono le norme. in generale, adottano il c.d. criterio storico-normativo: una certa funzione, nel passato, è stata svolta da un ente e la si mantiene a quel livello di governo; gli economisti adottano le loro categorie: guardano all’ambito in cui si estendono i benefici di un certo bene o servizio pubblico e indicano i beneficiari come soggetti che devono contribuire al finanziamento delle spese necessarie a produrre detti servizi e/o collegamento più stretto tra decisioni di spesa e di prelievo; in questo modo cercano di individuare l’ottima dimensione della giurisdizione; gli economisti adottano anche un altro criterio quello sotteso alla logica degli aiuti allo sviluppo; specialmente in contesti caratterizzati da forti squilibri economici, infrastrutturali, lontananza dai mercati, ecc., devono prevedersi trasferimenti del tipo di quello previsto nel comma 6 dell’art. 119 non per rispettare lo sbandierato – quanto inattuato – principio di solidarietà ma quello dell’efficienza: le aree deboli e/o periferiche devono essere messe in grado di competere con quelle più forti, e così facendo, si promuove la convergenza, si migliora l’efficienza del sistema e si riduce nel tempo la necessità di trasferimenti compensativi. Sul piano pratico, però, non basta scrivere nella costituzione la nuova distribuzione delle competenze. Devono seguire quindi coerenti leggi attuative che assicurino la copertura finanziaria delle funzioni nonché la copertura amministrativa, ossia, la presenza di uffici amministrativi capaci di attuare le norme secondo la volontà del legislatore.
Anche la riforma Berlusconi del 2005 aveva proceduto ad una redistribuzione delle competenze dalle regioni al governo centrale ma l’accentramento riguardava: a) le reti di trasporto e di navigazione; b) la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; c) la tutela della salute; d) l’ordinamento generale della comunicazione; e pochi altri aggiustamenti marginali circa la definizione e l’attribuzione delle competenze.
Con la riforma Renzi si cancella in toto l’attuale comma 3 facendo finta di semplificare e/o rimediare a un problema in realtà inesistente, quanto meno, non nelle dimensioni propalate. Perché lo hanno fatto? Per rispondere nel merito dobbiamo esaminare partitamente quattro motivi ossessivamente ripetuti:
1) perché le competenze concorrenti avrebbero generato continui conflitti di attribuzione tra lo Stato e le regioni e, di conseguenza, congestionato il lavoro della Corte costituzionale. Si tratta di affermazione vaga e tendenziosa senza idoneo supporto di dati statistici i quali dovrebbero contare non solo il maggior numero di ricorsi, ma anche chi li ha proposti, quali esiti hanno dato, chi ha invaso le competenze dell’altro, ecc.. Il Presidente emerito della Corte costituzionale De Siervo e con lui altri ex Presidenti e giudici della Corte negano che la maggior parte dei ricorsi sia dipesa da conflitti generati dalle competenze concorrenti; una gran parte di ricorsi è stata generata dal fatto che il governo centrale, nelle more dell’attuazione del Titolo V (2001) e della legge Calderoli (2009), ha continuato a legiferare come se la riforma del 2001 non ci fosse stata. Inoltre, bisogna sapere che, in pratica, non esistono materie nettamente separate. È una truffa ideologica assumere che esse lo siano. Nella Costituzione, non casualmente, c’è scritto il principio di leale collaborazione a cui devono ispirarsi non solo i poteri dello Stato ma anche le varie amministrazioni di pari e diverso livello. Non è una invenzione dei costituenti, è una necessità. Di conseguenza, anche le competenze concorrenti sono una necessità ineludibile (G. Zagrebelsky). Un esempio può essere utile per dimostrare quanto qui si sostiene. La proposta riforma trasferisce alla competenza esclusiva dello Stato (lett. u) dell’art. 117) il governo del territorio per le disposizioni generali e comuni ma lascia alla competenza esclusiva delle regioni la pianificazione del territorio regionale. Le due materie ovviamente sono strettamente connesse. Ma se aggiungiamo la tutela dell’ambiente ed ecosistema (lett. s) del proposto art. 117), si può ragionevolmente pensare che essa possa essere attuata solo perché si approva una legge dello Stato e senza la fattiva collaborazione delle regioni e degli enti locali? L’esperienza dei 25 anni antecedenti la riforma del 2001 ci dice che spesso le norme dello Stato non si limitavano ai principi generali ma entravano nel dettaglio erodendo la parte di sovranità legislativa spettante alle regioni. Se questa prassi continuerà, come è probabile, l’abrogazione delle competenze concorrenti non risolverebbe il problema. È solo fumo negli occhi.
2) perché “vogliamo ridurre i poteri delle regioni per semplificare la vita dei cittadini” (così la Boschi al TG”” del 5-09-2016, ore 20:30); argomento risibile che la dice lunga sulla cultura costituzionale della Ministra che ha portato avanti la riforma; basti pensare che, a prescindere dalla riforma del 2001, la Costituzione del 1948 prevede lo Stato regionale. Allora che si sta cercando di fare centralizzando le competenze concorrenti? Si stanno effettivamente riducendo i poteri delle regioni non per semplificare la vita dei cittadini ma per rendere gradualmente inutile la presenza delle regioni ed, eventualmente, procedere alla loro abrogazione. Tutto questo nel silenzio per me incomprensibile delle regioni stesse. Un’altra interpretazione è che le classi dirigenti regionali tacciono perché ritengono che si tratta di un’operazione tipicamente gattopardesca: cambiamo tutto per lasciare le cose come stanno.
3) perché per via delle competenze concorrenti gli imprenditori non sanno se investire in questa o in quella regione (sempre la Boschi a 8 e mezzo del 7-10-2016); altro argomento falso; è compito del governo coordinare la finanza pubblica e la legislazione degli incentivi fiscali e non delle regioni peraltro sottoposta alla rigorosa gestione dei c.d. aiuti di Stato da parte della Commissione europea; ma i ministri preferiscono parlare dei permessi, delle licenze che richiedono procedure amministrative complicate e tempi diversi. Ma non era stato istituito lo sportello unico nelle varie regioni proprio per superare questi problemi? Da quando c’è Renzi al governo, non ne parla più nessuno. Il governo ha una strategia ben definita per il Mezzogiorno che affronti decisamente anche i problemi burocratici in quella parte del Paese nel suo insieme? No. Il presidente del governo gira l’Italia come una trottola firmando non meglio identificati Patti con le regioni e con i Sindaci dei Comuni più importanti. Ma questi patti come entrano nella legge di bilancio? Nessuno ne parla. Prima la prassi era che presidenti delle regioni e sindaci importanti venivano a Roma a perorare le loro cause: i primi presso la Presidenza del Consiglio i secondi presso il ministero degli interni; ora la prassi è stata rovesciata: è l’instancabile Renzi che va in periferia portando presunti “pacchi dono”, ma il risultato non cambia: l’autonomia tributaria e i trasferimenti alle regioni e agli enti locali restano ridotti ai minimi termini.
4) perché – sempre secondo la Boschi 5-10-2016 – “la gente vuole meno burocrazia”. Affermazione apodittica su cui si esercita giornalmente anche Renzi anche lui senza portare uno straccio di evidenza empirica. Se le competenze restano seppure diversamente distribuite e accentrate ci devono essere dei funzionari pubblici che le attuano e, quindi, la burocrazia resta e come. Se tra una riforma e l’altra le Regioni hanno assunto personale per svolgere le competenze concorrenti che faremo nel caso in cui la riforma fosse approvata, li trasferiamo tutti a Roma o li lasciamo in periferia senza lavoro? Premesso che un assetto istituzionale decentrato presuppone una pubblica amministrazione decentrata e viceversa, come si coordina la riforma Madia con la riduzione delle competenze delle regioni? Il governo non lo dice ma se la riforma dovesse essere malauguratamente approvata i governi che verranno avranno problemi ben complessi da risolvere. La riforma Madia non affronta i complessi temi della organizzazione degli uffici periferici statali. Va a incidere sui c.d. modelli direzionali. Traspone anche dentro i ministeri e gli enti autonomi il modello di un uomo solo al comando. Si ridimensiona il ruolo dei consigli di amministrazione e degli organi collegiali, si dà tutto il potere ai direttori generali e/o all’amministratore delegato sui quali applicare lo spoil system o procedure di licenziamento semplici e veloci. Nella scuola secondaria si arriva addirittura a ridurre il numero dei presidi per “abolire le poltrone” e così leggiamo sui giornali che in una regione del Nord ad una Preside è stata affidata la direzione di ben cinque istituti scolastici dispersi nel territorio.
Dopo quindici anni dalla riforma del 2001 – peraltro solo parzialmente attuata – si propone una riforma che inverte la rotta di 180 gradi ma senza ridefinire la missione delle regioni, senza toccare l’art. 118 comma 1 che assegna la generalità delle funzioni amministrative ai comuni – nella stragrande maggioranza dei casi non propriamente attrezzati per svolgerle. Non è strano che mentre si centralizzano molti poteri legislativi si lasci in generale l’attuazione amministrativa ai Comuni? Come già detto, non sarebbe necessario rimodulare tutta l’organizzazione amministrativa? Oppure non è vero che anche Renzi pensi che tutti i problemi si risolvono con la riforma costituzionale e con l’approvazione più spedita di nuove leggi? Ieri, in toni affatto conciliativi, il Premier ha detto alla Leopolda che il 4 dicembre p.v. c’è una sorta di sfida all’O.K. Corral tra chi vuole garantire un futuro al Paese e chi guarda al passato. Sarà una sfida o un derby ma senza un’appropriata ed efficiente copertura amministrativa, temo che le nuove leggi siano destinate a rimanere in parte o in toto inattuate.
Non ultimo, le stravolgenti modifiche dell’art. 117 operate dalla riforma Renzi sono in contrasto con la costituzione europea che in armonia con quella italiana valorizzano l’autonomia non solo delle regioni ma anche degli enti locali. Secondo A. Manzella (1994), il principio di autonomia trova più di una dimensione in quelli accolti dal Trattato di Maastricht: a) sussidiarietà; b) compartecipazione e partenariato; c) l’addizionalità dell’intervento comunitario, alias, cofinanziamento. Questi principi non solo approfondiscono e rendono maggiormente operativo il concetto di autonomia ma danno sostanza alla norma sulla cittadinanza europea.
Nell’Unione europea non ci sono paesi membri con un assetto genuinamente federale ad eccezione della Germania, non casualmente, chiamata Repubblica federale tedesca. Ci sono altri Paesi più o meno decentrati. Ma il Trattato costituzionale prima e poi il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea prefigurano un assetto federale che concili meglio l’unità con le diversità del vari Paesi membri. In questi termini già il Trattato di Maastricht del 1992 incorporava i principi federalistici citati sopra da Manzella.
Se, come abbiamo visto sopra la modifica dell’art. 117 riduce il potere legislativo e nulla cambia circa la indebolita autonomia tributaria delle regioni e dei comuni, si va contro i principi della costituzione europea.
Note: Vincenzo Russo (2003), Il riparto delle competenze nel nuovo art. 117 della Costituzione e le proposte di modifica, Rivista dei Tributi Locali, anno XXIII, n.4/2003: pp. 351-390;
V. Russo, Il riparto delle competenze tra Stato e Regioni in materia di governo del territorio, in Rivista dei Tributi Locali, anno XXIV, n. 4/2004: pp. 353-58.