Il Fiscal Compact è praticamente scaduto e non succede niente non solo perché, al momento, in assenza di un governo con pieni poteri in Germania e in Italia, non ci sono le condizioni per prendere decisioni importanti, ma soprattutto perché il Fiscal Compact ha raggiunto tempestivamente la sua missione fondamentale che era quella di “costringere” tutti i PM dell’eurozona – e possibilmente anche gli altri – ad adottare e scrivere nelle loro Costituzioni il principio del pareggio di bilancio strutturale (ossia depurato dai fattori congiunturali) di medio termine che era contenuta nella riforma del PSC del 2011. Quindi in diritto e in fatto non cambia niente. Le regole sostanziali c’erano e restano lì nel diritto comunitario, nelle nuove norme costituzionali e nelle relative leggi di attuazione.
Non è stata fatta alcuna valutazione approfondita dei cinque anni di sperimentazione nel Consiglio del 14-15 dicembre scorso e, quindi, si deve intendere che la questione non è risolta ma rinviata alle calende greche. La Commissione ha presentato una proposta secondo cui le residue e secondarie norme del Fiscal Compact non vengano immesse direttamente nel corpo del Trattato sul funzionamento dell’Unione ma nel diritto comunitario (derivato dai Trattati). Come noto, la Direttiva si rivolge solo agli Stati membri.
Una sommaria valutazione indiretta da ultimo è arrivata dall’ultimo Bollettino della BCE. Qui vengono citati sei PM (fra cui l’Italia) i cui documenti programmatici configurano un rischio di non conformità con il PSC; quattro di questi (Italia inclusa) nel 2018 manterranno alti livelli di debito pubblico.
Il Bollettino cita il comunicato stampa dell’Eurogruppo del 4 dicembre secondo cui “il ritmo contenuto di riduzione del debito da livelli elevati continua a essere motivo di preoccupazione”. Nascondendo la mano, il redattore del Bollettino cita anche la lettera della Commissione del 22 novembre 2017 dove si qualificano come insufficienti i “progressi verso il rispetto della regola del debito e osservando anche il debito pubblico dell’Italia rimane una vulnerabilità chiave”.
Il Bollettino continua con l’analisi delle deroghe (maggiori dello 0, 5% del PIL) concesse in via discrezionale dalla Commissione all’Italia e alla Slovenia rispetto agli obiettivi di aggiustamento previsti dal PSC del 2018. Quindi riporta la valutazione della stessa Commissione secondo cui, nonostante l’abbassamento dei requisiti nessuno dei due paesi membri rispetterà le regole del PSC e meno che mai la regola del debito in esso contenuta (1).
Il Bollettino continua osservando che “l’esercizio di valutazione dei documenti programmatici sembra aver perso efficacia nel corso del tempo………e da quando il primo esercizio di valutazione è stato condotto, nell’autunno 2013, la Commissione non ha mai richiesto una manovra aggiuntiva ritenendo che non si fossero mai verificati casi di inadempimento particolarmente grave”. In questi cinque anni, la Commissione si è limitata a scrivere lettere – attirandosi le critiche dell’ex ministro delle finanze tedesco Schauble – e i paesi membri richiamati hanno assunto impegni ad aggiustare le manovre di bilancio – spesso non rispettati.
In conclusione, il Bollettino afferma che dall’autunno 2013 a oggi “malgrado le condizioni economiche in via di miglioramento, la quota dei Paesi che hanno presentato documenti conformi al PSC è rimasta invariata, ovvero circa un terzo del totale”.
Mi scuso per queste lunghe citazioni e mi chiedo: cosa significa questo? Non è che le regole del PSC e in particolare quelle sulla riduzione del debito pubblico almeno in alcuni casi siano impossibili da applicare? Impossibilia nemo tenetur! E se due terzi dei PM non le applicano per un motivo o un altro, probabilmente ritengono che la ricetta unica – configurata come un algoritmo – non funziona ed è controproducente avendo in fatto provocato una seconda recessione 2012-13 dopo quella del 2009.
La BCE che ha avuto un ruolo non secondario nel varo di dette regole e che non ha fatto alcun ravvedimento sulla bontà della scelta delle politica economica dell’austerità incorporata nelle regole del PSC per gli anni avvenire avverte i governi e l’opinione pubblica dei PM sui rischi e i pericoli di vulnerabilità dei paesi ad alto debito pubblico sposando la tesi moralista cara alla Germania del debito come colpa. Non solo ma non ha proposto alcuna riforma dell’architettura del sistema bancario e finanziario europeo dell’Unione in parallelo con la riforma Dodd-Frank approvata negli USA nel luglio 2010 che ora Trump vuole smantellare.
Che le regole del PSC non fossero rispettate lo aveva detto tempo fa la Direttrice Lagarde del FMI. Organizzazione che precedentemente aveva ammesso anche gli errori di calcolo degli effetti moltiplicativi dei tagli della spesa pubblica voluti anche dal Fondo ma la BCE non ha fatto o detto alcunché di tutto questo e continua ad avallare il limite del 60%, individuato un quarto di secolo fa che non sta in cielo né in terra. La BCE, invece di proporre un utilizzo più flessibile delle regole del PSC compresa quella relativa allo scorporo degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit corrente che avrebbe consentito il rilancio della crescita economica e dell’occupazione, continua a denunciare i rischi di vulnerabilità connessi all’alto debito pubblico. Non voglio negare che tali rischi esistano ma se le superiori Autorità, negli ultimi cinque anni, attraverso la rigida applicazione della politica di austerità hanno impedito ai Paesi membri di affrontarli sostenendo gli investimenti pubblici, non possono poi lasciare questi ultimi come unici responsabili della inerzia sul terreno della riduzione del debito.
Va riconosciuto che Mario Draghi con il suo impegno forte del luglio 2012 ha salvato l’euro nel breve e medio periodo e che non è la moneta unica la fonte di tutti i mali dell’UE come sostengono alcuni sovranisti ma se vuole salvarlo per il lungo periodo dovrebbe proporre misure più adeguate a tal fine e non limitarsi a censurare il mancato coordinamento delle politiche economiche dei PM. Il coordinamento nasce e si alimenta da un programma comune e largamente condiviso. Non nasce e fiorisce per effetto di un algoritmo. Lo stesso commento vale per la recente presa di posizione della Lagarde che parafrasando il famoso detto sul contadino del Wisconsin (che di inverno non riparava il tetto dello chalet perché coperto da un alto strato di neve gelata e non lo riparava neanche d’Estate perché non pioveva dentro e non nevicava) dice che bisogna farlo ora perché c’è il sole della ripresa. Sembra un suggerimento ragionevole senonché il sole c’è se si ragiona sul tasso di crescita medio dell’eurozona ma se ci si riferisce ad alcuni paesi ad alto debito pubblico e in particolare all’Italia, al di là dell’ottimismo di maniera dei governanti, si vede solo una ripresina che ha ancora bisogno di interventi pubblici di un certo peso per trasformarsi in crescita sostenuta e sostenibile ed eventualmente in un boom. Transizione alla crescita più elevata che sarebbe più probabile se i paesi in forte surplus commerciale facessero una politica economica più espansiva. Draghi e Lagarde tacciono sull’argomento eppure anche la mancata riduzione del surplus costituisce violazione del PSC. Per contro partire con l’applicazione più rigorosa della regola del debito attraverso l’accumulo di avanzi primari per periodi di medio lungo termine – in assenza di grandi cespiti patrimoniali da vendere – rischia di compromettere la stessa crescita che Draghi stesso sino a qualche mese fa giudicava fragile.
(1) Come noto, questa regola prevede che il debito debba essere ridotto di un ventesimo all’anno della eccedenza del debito rispetto al tetto del 60% o, più precisamente, nella media dei tre anni rispetto al rapporto (previsionale) debito/PIL in eccesso rispetto alla variabile obiettivo del 60%. Non è questa la sede per entrare nel merito della bontà della scelta dei dati previsionali rispetto a quelli di consuntivo ma le diverse simulazioni fatte della formula ci dicono che la sua effettiva applicazione richiederebbe surplus primari relativamente elevati (3-4% del PIL) non sostenibili per periodi medio-lunghi.