La politica commerciale comune e la Cina

Secondo l’art. 3 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE):  “1. L’Unione ha competenza esclusiva nei seguenti settori: a) unione doganale; b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; c) politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro; d) conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; e) politica commerciale comune. 2. L’Unione ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata”.

Come si evince chiaramente dal combinato disposto del comma 1 lett. e) e del comma 2 dell’art. 3 del TFUE non è revocabile in dubbio che la competenza nello stipulare un accordo commerciale rientra nelle competenze esclusive dell’Unione europea come, in primo luogo, l’Unione doganale. È chiaro che la prima implica l’esistenza e il coordinamento della seconda con la prima. E allora come si giustifica, almeno fin qui, l’acquiescenza della Commissione e del Consiglio all’iniziativa italiana sul Memorandum di intenti.  In parte, si giustifica con la natura stessa del documento che enuncia propositi; in parte con la debolezza dell’Unione in questa fase politica e, non ultimo, con la prassi discutibile per cui quando si registra un dissenso dei Paesi membri (d’ora in poi PM) su come gestire alcune politiche comuni si rinvia la soluzione del problema. Nel frattempo, i PM più forti agiscono autonomamente come hanno fatto in questa materia Francia e Germania. L’esempio emblematico è quello della politica estera. Nonostante che la presenza dell’alto rappresentante, i PM più importanti conducono una politica estera autonoma. Analogamente nella politica commerciale. Francia, Germania, la Grecia, l’Ungheria hanno sottoscritto accordi con la Cina. Quindi niente di nuovo sotto il sole.

In teoria gli accordi commerciali possono essere esaminati da due punti di vista contrastanti: il primo è quello classico dei vantaggi comparati per cui il libero scambio di merci e servizi avvantaggia tutti quando i paesi che vi partecipano sono specializzati in diversi settori di beni scambiabili. L’altro punto di vista è quello mercantilista per cui le esportazioni vanno bene perché conservano posti di lavoro, consentono di accumulare risorse valutarie per pagare le importazioni. Ma se l’accumulazione supera certi limiti come in Germania e in Cina si determinano c.d. squilibri globali per cui la domanda effettiva dei diversi paesi che si scambiano beni e servizi risulta inferiore a quella che consentirebbe un maggiore sviluppo dell’economia internazionale.

Anche il primo schema non funziona bene nel contesto della globalizzazione dove la situazione dei paesi è molto diversificata e, come nella realtà, alcuni di essi non sono particolarmente specializzati in prodotti scambiabili. E non basta, la competitività dei diversi paesi dipende anche dai sistemi sociali (diverso sviluppo dei diritti civili e sociali), dalle caratteristiche dei mercati e dalla gestione libera o guidata della loro politica commerciale. Nel criticare a caldo il memorandum firmato da Di Maio, non casualmente, Salvini ha ricordato che in Cina non c’è un libero mercato. 

Come ci ricorda D. Rodrik nel suo ultimo libro: “Dirla tutta sul mercato globale”, Einaudi, 2019 quando nel 2001 la Cina firmò l’accordo per entrare nella Organizzazione mondiale del Commercio assunse l’impegno di trasformare la sua economia in una di mercato nel giro di 15 anni. Tale promessa non è stata mantenuta. Argentina, Brasile, Cile e Corea del Sud le hanno riconosciuto comunque tale status. Ora segue l’Italia l’ultimo (o primo) paese del G7 in forte declino. Nel memorandum il tema è preso di striscio quando si afferma che: “Le Parti seguiranno principi di mercato, promuoveranno la collaborazione tra capitale pubblico e privato, incoraggeranno gli investimenti e il sostegno finanziario attraverso modelli diversificati”.  Nessuna menzione invece del delicatissimo problema del dumping sociale, alias, del rispetto dei diritti civili e sociali in Cina. Lo ha fatto il Presidente Mattarella nel suo discorso al Quirinale alla presenza di Xi Jinping.

Apparentemente con la firma del Memorandum l’Italia rientra nel grande e criticabile gioco degli accordi commerciali dopo che gli Stati Uniti di Trump hanno scelto la via difficile degli accordi bilaterali. Ma il fatto che, dopo Roma, il Presidente cinese vada a Parigi a parlare con Macron, la Merkel e il Presidente della Commissione Juncker ridimensiona la portata propagandistica dell’accordo firmato a Roma. Credo che Francia e Germania faranno capire meglio a Xi Jinping chi comanda in Europa. L’Italia è del tutto isolata e il governo giallo-verde lo ha fatto di sua iniziativa; Francia e Germania sono i PM che, a torto o a ragione, guidano il carro europeo. Tutti e tre i Paesi gestiscono un deficit commerciale con la Cina ma nel Memorandum non trovo indicazioni su come la situazione potrebbe essere riequilibrata.

Le trattative sul Memorandum sono state condotte in regime di segretezza e, quindi, era difficile fare delle valutazioni circostanziate senza il testo dell’accordo. Nei contenuti il documento non è altro che un documento di buone intenzioni, “salvo intese”, come ormai ci ha abituati il governo giallo-verde. Prima o poi verranno fuori i contenuti e, allora, vedremo cosa succederà.

@enzorus2020

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