Un’idea per fare arrivare presto gli aiuti alle famiglie e alle imprese.

Il compito di distribuire i bonus dei 600 euro alle partite IVA è stato affidato all’INPS. Quello di assicurare liquidità alle imprese in difficoltà è stato affidato alle banche com’era inevitabile atteso che in questo caso il governo si limita a garantire in diversa misura e a mezzo di enti diversi i crediti concessi dalle banche. l’Agenzia delle entrate (AdE) non c’entra niente né con i Bonus né con la distribuzione della liquidità. Specialmente con riguardo a questa seconda attività si prevedono fenomeni di corruzione e/o di distorsione anche di stampo mafioso, ma qual è il problema se ci sono le garanzie dello Stato? possono manifestarsi non pochi comportamenti di azzardo morale. Da ultimo con riguardo ai ritardi che si stanno verificando sia per istruire le pratiche da parte delle banche sia per chiedere la garanzia al Fondo Garanzia e alla SACE, guadagna terreno l’ipotesi che il governo debba assicurare  trasferimenti alle imprese anche a fondo perduto. Ma anche per questo strumento le velocità di attuazione dei provvedimenti è fondamentale allora non basta dire bisogna semplificare le procedure o prendersela genericamente con la burocrazia. Semplificare le procedure è necessario ma non sufficiente. Bisogna rivolgersi anche direttamente agli enti che più degli altri hanno i dati a loro diretta disposizione, cioè, all’AdE. Un esempio banale è che se la condizione per chiedere certi benefici serve dimostrare la riduzione del fatturato, questo dato lo deve certificare l’amministrazione finanziaria; se serve anche alle banche qualche straccio di certificazione circa l’affidabilità dell’operatore, di nuovo, possono essere utilizzati alcuni dati a disposizione dell’AdE.

 Al riguardo ricordo che, negli anni scorsi, i vecchi studi di settore che all’interno di gruppi omogenei (cluster) aiutavano gli uffici finanziari a stimare i volumi d’affari prodotti e indirettamente i redditi imponibili, da alcuni anni, sono stati trasformati in indici di affidabilità fiscale, alias, di onesto adempimento dei doveri tributari. Secondo me, si tratta di un dato (una pagella) molto sensibile che andrebbe utilizzata e messa alla prova in una situazione drammatica come quella attuale. Ma nessuno ne parla.

 Secondo me, anche attraverso questi indici e gli altri dati fiscali ben più rilevanti, che INPS e banche non hanno, l’AdE avrebbe potuto svolgere meglio e più velocemente un lavoro di monitoraggio preventivo e/o contestuale sia nella distribuzione dei bonus, della liquidità e, ora, dell’eventuale trasferimento a fondo perduto. Peraltro l’AdE e la sua rete periferica di uffici finanziari collegati attraverso l’Anagrafe tributaria dispongono di un sistema informativo molto più grande ed efficiente che avrebbe potuto evitare i fenomeni di congestione che si sono verificati con l’INPS e con le banche.

Inspiegabilmente l’AdE è stata lasciata fuori da questi procedimenti come è stata lasciata fuori dalla lotta alla corruzione affidata all’ANAC solo in chiave di prevenzione.  In Italia abbiamo unificato nel ministero dell’economia e delle finanze la gestione della spese e delle entrate pubbliche ma i due comparti hanno sistemi informativi diversi. Recentemente in tema di contenzioso tributario è stata avanzata da parte della Corte dei Conti la proposta di avocare a sé il contenzioso tributario. Sono subito intervenuti grandi esperti e legislatori per respingere la proposta definendola non ortodossa come se controllo delle entrate e delle spese pubbliche non fossero i due lati inestricabili e sinergici dello stesso fenomeno finanziario pubblico. A molti digiuni di conoscenze economiche e finanziarie sfugge la sequenza fondamentale che caratterizza l’economia pubblica: bisogni pubblici, spese pubbliche per soddisfarli e strumenti vari per finanziare dette spese.

Non casualmente in questi giorni sono intervenuti anche diversi magistrati che temono anche interferenze mafiose nella gestione di detti fondi destinati ad alleviare i disagi economici conseguenti alla crisi sanitaria – per adesso.  Tra questi anche il Procuratore generale della Corte dei Conti della Regione Valle d’Aosta Massimiliano Abelli il quale afferma: “È possibile, se non probabile, che in questa peculiare situazione parte della liquidità che lo Stato immetterà nel sistema economico italiano finisca anche a chi non si è distinto in positivo, in passato, nel rapporto con i doveri fiscali cui tutti siamo tenuti. È possibile, se non probabile, cioè, che la ragion pratica finisca per (impossibilità materiale di fare in poco tempo diversamente) prevalere sulla ragione etica. Come potrà il Paese riuscire a digerire un boccone così amaro, anzi amarissimo?”. Ecco il mio punto: l’AdE in fatto ha tutti gli strumenti per evitare questa possibilità o non si verifiche o sia contenuta in limiti tollerabili ma non mi risulta che il governo l’abbia preso in seria considerazione.   Come al solito, in Italia si preferisce che la mano destra non sappia quello che fa la mano sinistra.

@enzorus2020

Ottimismo di maniera sull’accordo raggiunto dall’Eurogruppo

 

A me sembra infondato l’ottimismo delle autorità europee ed italiane per il compromesso raggiunto il 9 aprile all’interno dell’Eurogruppo dopo i continui rinvii e le sedute notturne e diurne. Vediamo in sintesi i risultati che eufemisticamente sono stati presentati come quattro pilastri.

In realtà abbiamo:

  1. un utilizzo limitato del MES. Ogni PM dell’eurozona potrà farvi ricorso solo per ricevere finanziamenti per coprire le spese straordinarie (dirette e indirette) provocate dalla crisi sanitaria nei limiti della percentuale con cui partecipa al capitale del fondo: l’Italia potrebbe richiedere prestiti per 36 miliardi.

Non si applicherebbe la condizionalità prevista per l’assistenza finanziaria ai fini del superamento di crisi asimmetriche che abbiano determinato la perdita dell’accesso ai mercati e/o la dubbia sostenibilità del suo debito pubblico.

 Con riguardo a questo primo pilastro bisogna considerare che la BCE ha il programma PEPP (pandemia emergence purchasing program). Naturalmente c’è un collegamento tra i due meccanismi per cui se i bond speciali emessi dal MES non fossero comperati da investitori istituzionali essi verrebbero comperati dalla BCE nell’ambito del programma generale di acquisti di titoli del debito pubblici e privati, coperti o scoperti di garanzia.

Conviene ricordare che in situazioni normali lo scopo di questi acquisti da parte della BCE è quello di calmierare i tassi di interesse ma, come sappiamo, questi in questa fase storica sono già bassi attorno allo zero per via della politica monetaria c.d. quantitative easing e, quindi, gli effetti di questi programmi sono marginali se non del tutto inefficaci.

Non ultimo va ricordato che nella tattica negoziale imposta al governo Conte dal M5S il MEF Gualtieri – secondo una pseudo intervista ricostruita da Federico Fubini su Corriere della Sera dell’11-04-2020 avrebbe motivato il rifiuto di accettare i bond emessi dal MES avrebbe detto: “ma quei crediti più facili del MES valgono meno di un quinto del fabbisogno di quest’anno dei grandi paesi europei”. Secondo me, questa incongrua valutazione è importante perché ci dice che più o meno il fabbisogno italiano di quest’anno salirebbe a 180 miliardi.

  • il secondo pilastro è il programma SURE che sarà dotato di 100 miliardi di € per il sostegno finanziario delle casse nazionali di integrazione guadagni venuti meno per via dell’aumento della disoccupazione. Anche qui si tratta di un prestito non di indennità europea complementare e/o a sostegno dei disoccupati dei PM come alcuni comunicatori tendono ad accreditare. 100 miliardi sembrano tanti ma sono pochi se uno pensa ad alcune previsioni sulla portata della recessione che si svilupperà a livello mondiale e, quindi, con ripercussioni pesanti sulle economie aperte. È probabile che i PM della UE che hanno sistemi sviluppati di assistenza ai disoccupati non chiederanno prestiti al SURE ma questo dipenderà dall’entità della disoccupazione. Alcuni parlano di 3-400 milioni di persone a livello mondiale che si confrontano con i 100 milioni in più di disoccupati provocati dalla crisi del 2008-09-   

 Noto l’ipocrisia della governance europea che non fa niente o poco  per promuovere la massima occupazione in tutti i PM ma ora viene fuori dicendoti: se non hai fondi sufficienti già stanziati nel bilancio di quest’anno, graziosamente, ti concedo un prestito per alleviare il disagio dei disoccupati.

3) il terzo pilastro consiste nell’aumento del fondo di garanzia per le obbligazioni della Banca europea degli investimenti a favore di imprese che chiedono prestiti alla Banca di cui si calcola un effetto leva relativamente alto. Ma se la recessione sarà delle dimensioni stimate dai centri studi e dalle società di rating detto aumento sarà probabilmente insufficiente. Ma il fondo potrà essere aumentato e bisogna ammettere che questo resta il pilastro relativamente più solido per finanziare l’economia.

4)   il quarto pilastro sarebbe la promessa di creare un Fondo in qualche modo agganciato al “bilancio”, rectius, Quadro finanziario poliennale (QFP)  dell’Unione da costituire in tempi indeterminati attesa l’impossibilità di farlo subito. Parlando a favore dell’utilizzo del MES il suo presidente Regling ha previsto un’attesa di tre anni. Da qui la mia proposta di ricorrere all’art. 311 del TFUE e di considerare gli eurobond come il metodo standard con cui qualsiasi governo degno di questo nome si procura le risorse per finanziare la crescita e lo sviluppo. Vedi mio post del 31 marzo. Il nodo non risolto in questo decennio passato è stato e resta il mancato coordinamento delle politiche di bilancio sottoposte alle regole restrittive del Patto di Stabilità ora finalmente sospeso.  È paradossale che si voglia solo agganciare il fondo Recovery plan a un QFP non ancora approvato e quandanche approvato potrebbe erogare i fondi a partire dalla Primavera dell’anno prossimo come ha notato Nadia Calvino MEF della Spagna e componente dell’Eurogruppo.

Qualcuno potrebbe obiettarmi che va bene così perché nel QFP potrebbero essere messe  le necessarie risorse aggiuntive ma queste risorse servono qui ed ora come giustamente sostiene il governo italiano.

Qualcuno inoltre ha scritto che parte delle risorse o tutte le risorse dei fondi per le politiche regionali all’interno della generale politica della coesione economica e sociale potrebbero essere stornate nel Recovery Plan. Sarebbe una decisione gravissima; rischierebbe di alimentare la non convergenza tra le regioni periferiche e quelle centrali dell’UE.

Ma il difetto gravissimo del Recovery Plan è anche un altro e cioè che è concepito come temporaneo e straordinario. Mentre la funzione allocativa e/o di finanziamento della crescita e dello sviluppo è ordinaria non straordinaria.  la tesi della temporaneità dello strumento sconta l’ipotesi che si possa uscire dalla recessione europea in tempi brevi. si tratta di un pio desiderio che non tiene conto di due fattori che si alimentano a vicenda. Se sarà recessione o addirittura depressione mondiale i tempi saranno necessariamente lunghi non solo per la sua diffusione ma anche per le risposte che i vari paesi dovranno dare. E analogamente se l’Eurozona non decide velocemente il nuovo soggetto che dovrà emettere i Recovery Bond, tanto più difficile sarà contrastare e/o uscire dalla recessione europea. Anche su questo punto c’è una valutazione di Gualtieri riportata da Fubini nella pseudo intervista citata. Resta invece in gran parte da cucinare il piatto principale: il Recovery Plan, il piano francese per la ripresa con varie integrazioni italiane. “se non c’è quello – aveva detto Gualtieri l’altra notte, riferendosi al comunicato dei ministri dell’Eurogruppo- per me non c’è niente”.

Più che quattro pilastri si tratta del vecchio tavolo a tre esili gambe uscito da Maastricht nel 1992 a cui si pensa di aggiungerne una quarta ma in tempi non previsti e come strumento temporaneo. Esaminati per sommi capi i quattro pilastri è una cosa è sempre più chiara: che si tratta di quattro modalità di prestare fondi ai PM in maggiore difficoltà; che i Recovery Bond di cui si parla non sono una via tortuosa per mutualizzare il debito pregresso che nessuno ha chiesto; che in Europa non ci sono pasti gratis e/o solidarietà; che alcuni governi dei PM non riescono a riconoscere i benefici comuni o il valore aggiunto europeo che una risposta rapida efficace alla crisi generebbe per tutti. Non siamo davanti ad una svolta e non mi aspetto niente di meglio dal Consiglio europeo del 23 aprile p.v.

                @enzorus2020

https://www.bancaditalia.it/compiti/polmon-garanzie/pspp/index.html

https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2020/04/09/remarks-by-mario-centeno-following-the-eurogroup-videoconference-of-9-april-2020/

Gli eurobond come strumento per evitare la disgregazione dell’Unione europea.

In questa delicata fase si sta discutendo in diversi ambienti su come aumentare le risorse a disposizione dell’UE e, in particolare, la sua capacità fiscale intesa in termini di risorse proprie. Mi sembra opportuno fare alcune considerazioni preliminari prima di entrare nel merito di alcuni di questi problemi. Ormai da circa 25 anni siamo in regime di concorrenza fiscale al ribasso e senza regole a livello mondiale ed europeo. Questo regime ha “costretto” alcuni paesi europei ad abbandonare il processo di armonizzazione fiscale senza la quale è difficile pensare ad un sistema di tributi propri da intestare al governo – non alla governance – europeo. Altri paesi governati da neoliberisti hanno richiesto con forza tale sistema perché consentiva ed ha consentito loro di praticare la concorrenza fiscale attirando investimenti dall’estero e da altri Paesi membri (PM) della stessa Unione.

Al riguardo è necessario chiarire che l’art. 311 del TFUE – secondo me volutamente – usa il termine generico “risorse proprie”. Ricordo che di norma i governi si finanziano con imposte generali, imposte speciali, tasse, tariffe, prezzi pubblici, ricavi di vendita di pezzi di patrimonio pubblico, indebitamento. E forse dimentico qualche voce. Ma torno brevemente alla storia dell’armonizzazione fiscale nella UE negli ultimi tre decenni.

Basta ricordare il Rapporto Ruding del 1992 sull’armonizzazione delle aliquote delle imposte sulle imprese all’indomani del Trattato di Maastricht e, 20 (dicesi venti) anni dopo, la proposta della Commissione di una direttiva su una base imponibile consolidata comune (CCCTB) per l’evidente motivo che non basta armonizzare le aliquote poi bisogna mettersi d’accordo sulla definizione del reddito realizzato a cui applicare le aliquote. Ora sono passati altri 8 anni e il tema non è neanche in discussione. Secondo gli addetti ai lavori prevale lo scetticismo sulla possibilità di realizzare detta armonizzazione perché fa comodo ai governi neoliberisti e alle società di capitali di muoversi liberamente tra i vari PM anche per ridurre il loro carico fiscale.  

Sulle risorse proprie ci sono i lavori di un Gruppo di esperti di alto livello che ha prodotto  Rapporto Monti istituito nel 20014 e composto da membri nominati dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione. Il rapporto finale è stato pubblicato nel dicembre 2016 e presentato al Parlamento europeo nel gennaio successivo. Il Rapporto  è stato anche oggetto di analisi ed audizioni nelle nostre commissioni parlamentari. A otto anni dalla proposta di Direttiva e a più di tre anni dal Rapporto Monti siamo in una situazione in cui non si riesce ad approvare il quadro finanziario 2021-27 all’interno del quale non c’è accordo su come reintegrare i fondi che vengono meno per l’uscita della Gran Bretagna. Voglio ricordare che nel 2013 il Premier Cameron influì pesantemente sull’approvazione del Quadro finanziario che viene a scadenza quest’anno. Eravamo ancora sotto gli effetti negativi della seconda recessione europea, la Cancelliera Merkel e il Premier Cameron si misero d’accordo per ridurre di 60 miliardi la proposta della Commissione.

Adesso devo introdurre delle considerazioni per dimostrare che alla fin fine anche per le dimensioni risibili del bilancio comunitario questo, comunque alimentato, non ha alcuna seria rilevanza né per soddisfare i bisogni pubblici ordinari né – tanto meno – quelli straordinari che profilano all’orizzonte. Quello che desidero sottolineare ai miei lettori e agli amici federalisti è che siamo passati, per effetto della sopravvenuta e perdurante egemonia neoliberista, da una dominance della politica fiscale di stampo keynesiano ad una dominance monetarista che peraltro ha portato alla trasformazione di molte  banche centrali come la nostra BCE in autorità amministrative indipendenti. Ma con la piena libertà dei movimenti di capitali, con il multilateralismo non coordinato dei cambi flessibili (determinati presuntivamente dai mercati)  siamo passati ad una dominance della finanza rapace di New York ed associati. Le vicende della crisi 2008 dimostrano che neanche le banche centrali riescono a controllare la situazione nell’economia e nella finanza globalizzate. 

Queste premesse mi portano a dire che di certo il problema di dotare la Commissione di risorse proprie più consistenti è comunque sul tavolo ed è urgente anche perché entro l’anno bisogna approvare il Quadro finanziario poliennale 2021-2027 ma, a mio giudizio, non è prioritario se non correttamente inteso. In altre parole, il problema non è solo quello di dotare la Commissione di qualche tributo minore proprio (come una web tax, la carbon tax, Tobin Tax, ecc.) bensì quello di dotarla del potere di indebitamento, alias, di emettere titoli del debito pubblico europeo, alias, eurobond con finalità più ampie di quelle attualmente previste per il MES. Sappiamo che è stata respinta la proposta di avere all’interno della Commissione un vero e proprio ministro delle finanze e non se n’è fatto niente dell’altra proposta riduttiva di un Fondo monetario europeo.

Siamo in una situazione di doppia emergenza globale, sanitaria ed economica, si tratta di riuscire a mobilitare diverse migliaia di miliardi di euro. Vedi ad esempio il piano di tre mila miliardi euro lanciato da Confindustria di intesa con le altre associazioni datoriali europee per finanziare un vasto programma di infrastrutture europee. Scartati i soggetti emittenti di cui sopra, bisogna realisticamente prendere atto che l’unico strumento utilizzabile che abbiamo è il Meccanismo europeo di stabilità MES. Ho discusso questa questione con alcuni miei amici e colleghi economisti che propongono di non firmare la riforma del MES. Con tutta la stima che ho nei loro confronti io penso che si sbagliano. In emergenza io uso qualsiasi strumento ho a disposizione forzando anche le regole della condizionalità peraltro già attenuate rispetto a 6-7 anni fa. Il MES ora può intervenire in via preventiva per evitare e/o ridurre il rischio di default di un paese membro. Non sono un giurista professionale ma mi chiedo e chiedo ai colleghi giuristi emettere eurobond – come può fare attualmente il MES – non è comunque agire in via preventiva a sostegno di alcuni PM a rischio? Che differenza fa se si tratta di un gruppo limitato di PM invece che di uno solo? Agire a sostegno di un gruppo di PM invece che di uno solo non legittima maggiormente l’intervento del MES? E che dire se lo strumento nel caso odierno è a disposizione e a beneficio di tutti per via delle economie esterne che si creano uscendo dalla crisi minimizzando i costi?    Le residue regole di condizionalità possono essere sospese come la regola dell’unanimità in materia fiscale se c’è la volontà politica di farlo, se per ipotesi, invece che l’unanimità, fosse adottata in fatto una larga maggioranza qualificata.  E sappiamo che è stato fatto per le regole del Patto di stabilità e crescita altrettanto iugulatorie e contraddittorie. E’ vero che nelle regole del Patto di stabilità c’è una esplicita clausola di salvaguardia e si è agito in base ad essa ma anche nello statuto della BCE non c’erano esplicitamente menzionate alcune operazioni  di politica monetaria come le LTRO , le OMT poi definite operazioni non convenzionali ma che sono state adottate. La BCE e il MES sono istituzioni europee l’una prevista dal Trattato di Lisbona art. 13 l’altro da un Trattato intergovernativo ma sono strumenti che sono chiamati a perseguire obiettivi di stabilità e crescita.   Si tratta di utilizzare quello che c’è nell’interesse generale e, allo stesso tempo, di proporre la riforma dei Trattati.  Ho già scritto che rinviare la soluzione di questi problemi dopo la Conferenza sul futuro dell’UE rischia di tradursi in una immane perdita di tempo. Anche i Trattati vanno modificati perché con 27 Paesi membri (d’ora in poi PM) c’è sempre qualcuno che non è d’accordo e ci costringe a mandare l’Unione nell’irrilevanza.

Come noto, la settimana scorsa i leader di nove PM hanno lanciato un appello per proporre l’emissione degli eurobond. In un articolo sul Financial Times Wolfgang Munchau sostiene che in Germania la maggioranza delle forze politiche – socialdemocratici compresi – non è d’accordo e quindi  non crede in un ripensamento in tempi brevi ma lui personalmente ritiene che se i nove PM volessero sul serio gli eurobond dovrebbero comunque emetterli creando un gruppo d’avanguardia all’interno dell’eurozona. Non ritiene che Macron possa arrivare a tanto compromettendo il suo rapporto speciale con la Germania ma pensa che, con o senza la Francia, se i suddetti PM, in un modo o nell’altro, riuscissero ad emettere detti bond difficilmente la BCE potrebbe rifiutarsi di sostenerli ove necessario. Sarebbe un modo come l’altro per adottare lo schema della geometria variabile di cui si discute da diversi decenni. I volenterosi, quelli che se la sentono di andare avanti lo fanno dando la dimostrazione che si possono adottare strumenti più incisivi proprio per salvare l’euro e lo storico ed irrinunciabile processo di integrazione che altri PM stanno mettendo a rischio. Non ultimo,  Munchau, tenuto conto che negli ultimi dieci anni gli investimenti sono calati più o meno in molti PM, concorda che gli eurobond dovrebbero finanziare un vasto programma di investimenti per cercare salvaguardare al meglio i livelli occupazionali e lo sviluppo sostenibile. Se uno pensa che solo negli Stati Uniti si prevede un aumento di 47 milioni di disoccupati, e che nella stessa Germania si prevede una caduta del PIL di cinque punti come per l’Italia, il silenzio  su questi problemi e il rifiuto di assumere misure straordinarie per prepararsi ad affrontarli da parte di alcuni PM sono veramente da irresponsabili.

Quindi sarebbe un errore chiamare i proposti eurobond coronaBond o healthBond. Prima o poi e con tempi diversi dalla Pandemia singoli Paesi usciranno da soli anche perché ne sono stati colpiti in tempi diversi ma per uscire dalla prevista recessione dell’economia mondiale serve non solo la “cooperazione rafforzata” ma una cooperazione rafforzata del tipo di quella che nell’Ultima Guerra mondiale le potenze alleate riuscirono a mettere insieme contro i Paesi del Patto d’acciaio. Se questo è vero, non porta da nessuna parte l’ipotesi “faremo da soli” né, sul terreno strettamente economico, il problema può essere ridotto ad una questione di maggiore liquidità. Questa in parte c’è ma è solo una condizione necessaria e non sufficiente. Servono a livello mondiale massicci interventi diretti dell’operatore pubblico con programmi megalattici di infrastrutture pubbliche. Spesso viene citato il New Deal che il Presidente F. D. Roosevelt mise in atto negli Stati durante la Grande Depressione. Nessuno però ricorda che per uscire da essa ci vollero all’incirca 5-6 anni.  Certo oggi abbiamo strumenti diversi e possiamo fare tesoro di maggiori esperienze nella gestione dei cicli economici e forse i tempi potrebbero essere più brevi, ma appare sempre più chiaro che  il problema non è solo tecnico e/o di sola liquidità ma  schiettamente di assenza di volontà politica.

A parte i paesi della Lega anseatica, io non posso credere che la Germania che pacificamente ha conquistato un ruolo di primo piano in Europa voglia arroccarsi su una posizione che porterebbe a favorire le idee dei sovranisti e populisti di varia denominazione anche dentro casa sua. Deve capire che la politica economica e finanziaria non può essere regolamentata in maniera casistica e in fatto gestita da norme che alcuni esperti autorevoli non ritengono adeguate neanche per le situazioni normali. Figuriamoci per situazioni drammaticamente critiche come quella attuale. Non posso credere che possa continuare ad affidare il compito dell’implementazione di dette regole ai mercati.

@enzorus2020

La grande balla del Sud che vive alle spalle del Nord.

Finalmente una operazione verità sulla politica meridionalista dei governi degli ultimi 20 anni per non andare oltre. L’operazione non è nuova se uno pensa alle analisi della Svimez che annualmente pubblica un ponderoso Rapporto sull’economia del Mezzogiorno e due riviste (una economica ed una giuridica) su tematiche e ricerche più specialistiche. L’operazione non è nuova se uno pensa ai Conti pubblici territoriali che attirano l’attenzione solo degli addetti ai lavori e che vengono sistematicamente ignorati da ministri e parlamentari in un quadro di deterioramento dei conti pubblici da quando siamo passati dalla Relazione generale sulla situazione economica del paese e dal Dpef al generico e superficiale Documento di economia e finanza e al Programma nazionale di riforme – sempre promesse e per lo più non realizzate. Negli ultimi 25 anni è passata la narrazione secondo cui c’era una questione settentrionale che doveva avere la precedenza e che il Sud viveva alle spalle del Nord con la spesa assistenzialista.

Nel suo libro “La grande balla”, la nave di Teseo, 2020,  Roberto Napoletano, utilizzando i dati della Svimez e dei Conti Pubblici Territoriali, della Ragioneria generale dello Stato, dell’Istat, smentisce questa tesi e con interventi continui sul “Quotidiano del Sud – L’altravocedell’Italia” sta portando avanti una battaglia meridionalista ad oltranza che ha già avuto un suo sbocco parlamentare con le audizioni davanti alla Commissione finanze della Camera dei deputati presieduta da Carla Ruocco e da Antonio Misiani. 

Napoletano scrive di 61 miliardi all’anno non erogati alle regioni meridionali negli ultimi dieci anni che avrebbero dovuto andare a coprire i fabbisogni di asili nido, scuole, mense, centri estivi che però non vengono erogati grazie alla mancata attuazione dei fabbisogni e dei costi standard. Parla del deficit infrastrutturale del Mezzogiorno, dell’assenza di treni ad alta velocità tra Salerno e Reggio Calabria e tra Napoli e Bari per non parlare delle ferrovie siciliane. Scrive della mancata attuazione del fondo perequativo di cui all’art. 119 Cost. e della distribuzione regionale della spesa pubblica che non tiene conto della spesa pensionistica e degli interessi pagati sul debito pubblico che avvantaggia le regioni del centro Nord e che, per giunta, non vengono conteggiati nel calcolo del c.d. residuo fiscale. Tenendo conto del parametro demografico al Mezzogiorno spetterebbe il 34% dei nuovi investimenti mentre in fatto ne arrivano molto meno.

Cita i conti pubblici territoriali del 2017 che contengono una serie storica che documenta la sperequazione nella distribuzione della spesa pubblica regionale che tiene conto dei dati di cassa.  Critica il capitalismo relazionale che prevale in Italia dopo la liquidazione di quello statale dell’IRI e di quello delle grandi famiglie. Parla di un “privato”, secondo i neoliberisti, sempre migliore e più efficiente del “pubblico” mentre, ad esempio, i fatti della gestione della rete autostradale in concessione dimostrano esattamente il contrario.   Detto capitalismo predica le regole del mercato ma nei fatti applica le pratiche estrattive della rendita (rent-seeking). Analisi che converge con quella di Luca Ricolfi nel suo ultimo libro sulla Società signorile di massa.

Denuncia un grave problema di classe dirigente locale sia al Nord che al Sud che spiega non solo con la finanziarizzazione dell’economia ma anche con la scomparsa dei partiti strutturati di una volta. Per cui oggi abbiamo una classe politica al Nord predona dei fondi pubblici ma mancante di strategie industriali che ci hanno ridotti a subfornitori della Germania e della Francia. Simmetricamente al Sud vede un’avvilente evaporazione  della classe dirigente meridionale che assiste inerte e rassegnata al declino ineluttabile di quasi tutte le regioni meridionali incapaci di progettazione, incapaci di utilizzare i fondi comunitari e/o di farsi sentire in maniera coordinata all’interno della Conferenza Stato e autonomia locali. 

Questa constatazione lo porta a proporre l’abrogazione delle regioni o il loro ridimensionamento continua. Personalmente non condivido questa ipotesi: in primo luogo, perché 140 anni di Stato centralizzato non hanno dato ottima prova di sé: c’è stata sempre e c’è ancora una questione meridionale e le classi dirigenti locali dovrebbero essere i protagonisti del suo rilancio;  in secondo luogo, perché la costituzione europea, sia pure allo Stato embrionale, è e sarà sempre più una forma di governo decentralizzato e, quindi, l’ipotesi formulata da Napoletano sarebbe in contrasto con l’auspicale pieno sviluppo in senso federale dell’Unione europea che vuole essere una Europa delle regioni;  in terzo luogo, se la crisi, come sostiene Napoletano, è anche crisi dei partiti il problema sta non solo nella scarsa qualità della classe dirigente locale ma in altri fattori tra i quali anche la legge per la elezione diretta del presidente della regione. Detta legge favorisce gli outsiders e i demagoghi; ha ridimensionato il ruolo delle assemblee legislative; consegna importanti regioni nelle mani di un solo uomo come se si trattasse di un piccolo comune. Si invece ad una più attenta redistribuzione delle competenze e al rilancio del ruolo delle regioni in materia di programmazione dello sviluppo se si vuole coprire il vuoto di progettazione e l’incapacità di spendere specialmente nelle regioni meridionali.

 Sul primo versante, l’odierna crisi sanitaria richiama la natura globale del bene salute pubblica.  La sanità elencata tra le materie a competenza concorrente, a mio parere, non è in contrasto con l’art. 32 della Costituzione e con gli artt. 6 e 168 del Trattato di Lisbona che la elenca come materia di competenza concorrente speciale. Il problema sta nell’ultima frase del comma 3 dell’art. 117 Cost. che recita: “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” che sembra assegnare il grosso della iniziativa legislativa alle regioni. In realtà, tale interpretazione è frutto di un malinteso perché è chiaro che se si condivide la tutela piena si condivide anche l’iniziativa legislativa che l’attua e che, in ogni caso, vale il principio di sussidiarietà dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto, come prevede il protocollo n. 25 allegato al Trattato di Lisbona che chiarisce a modo suo la competenza concorrente speciale del più alto livello dell’Unione europea. In altre parole, persino i Paesi membri e le regioni in via sussidiaria agirebbero nei limiti in cui l’Unione non ha agito o ha cessato di agire in materia di salute pubblica. Poteri che in fatto l’Unione non ha esercitato neanche nei limiti di azioni di sostegno, completamento e coordinamento delle politiche sanitarie dei PM di cui all’art. 6 citato.  E come avrebbe potuto e come potrebbe mai farlo con un bilancio attorno all’1% del PIL dei PM e con assegnazioni risibili di risorse al piano sanità. Rinvio al mio post: http://enzorusso.blog/2020/03/04/la-salute-come-bene-pubblico-globale-ed-europeo/

Napoletano critica le regioni che avrebbero ostacolato l’attuazione della quota riservata di investimenti al SUD.          A me sembra che le Regioni a statuto ordinario non hanno mai impedito la destinazione del 40% dei nuovi investimenti al Sud prima perché negli anni del Centro-sinistra le RSO ancora non esistevano ma c’era un’attività di programmazione e lo Stato aveva a disposizione il sistema delle imprese pubbliche e di quelle a partecipazione statale. Quando lentamente nel 1976 si completa l’armamentario degli strumenti a disposizione delle RSO non c’è più la programmazione del governo centrale per via della crisi del Centro-sinistra, del crollo di Bretton Woods (Agosto 1971), del primo shock petrolifero 1973, della crisi mondiale dell’industria dell’acciaio e della cantieristica che porta da un lato alla cancellazione del V centro siderurgico di Gioia Tauro, e a provvedimenti di riconversione e/o ristrutturazione di molti settori industriali. Nel 1976 a fronte dell’accelerazione del processo inflazionistico dovuta al conflitto distributivo non solo interno ma anche internazionale, la priorità diventa la stabilizzazione dei prezzi con buona pace della programmazione della crescita anche delle regioni meridionali.  Nel 1978 veniva istituito il sistema sanitario nazionale e i trasferimenti e/o il gettito di tributi erariali devoluto alle Regioni viene a costituire il 75-80% delle entrate dei loro bilanci. Come ha scritto Giuliano Amato le regioni diventano stazioni di mediazione politica. Se aggiungiamo l’acutizzarsi della strategia terroristica di quelli anni – con il 1977 definito come l’anno della P38 e con il rapimento e assassinio del Presidente Moro nel 1978, e che il terrorismo metteva in discussione la sopravvivenza del sistema democratico il quadro è più o meno completo. Nel frattempo a livello europeo vinceva il neoliberismo e la fede nelle capacità taumaturgiche del mercato a fronte dei fallimenti dello stato. Gli attentati terroristici continuano e l’inflazione arriva a superare il 20 %, l’Italia esce ripetutamente dal Sistema monetario europeo. Negli anni 70 si susseguono tre recessioni nel 1971, 1975 e 1977 e tuttavia il tasso medio di crescita si aggira attorno al 3,7%; poi arriva la lunga recessione dei primi tre anni 80; nel secondo semestre 1983 l’Italia riesce ad agganciare il ciclo internazionale, la nave va ma la crescita annua del decennio scende al 2,5%.

Dieci anni dopo siamo punto e accapo, nell’Estate 1992 la lira esce dal sistema monetario europeo e il governo Amato è costretto a fare una manovra da 90 mila miliardi per stabilizzare il cambio e l’economia. Nel 1996 il governo Prodi deve fare un’altra manovra per entrare nell’euro.   Si continua a parlare di programmazione negoziale proponendo patti territoriali e contratti d’area ma detti istituti non vengono attuati bene come non viene attuata la seconda parte dei protocolli sulla politica dei redditi del 1992 e 1993.   In quest’ultimo anno, si abroga l’Agensud che aveva sostituito la Cassa del Mezzogiorno – dipinta come il vaso di Pandora di tutti i mali – e declinano gli investimenti pubblici e privati anche nel Mezzogiorno. A fronte della crescita del debito pubblico la soluzione accettata come naturale è quella delle privatizzazioni anche perché nel frattempo tutta la sinistra europea fa propri i paradigmi neoliberisti. Nel 1994 vince il centro-destra e Bossi ottiene l’abrogazione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Il governo Dini si impegna soprattutto nella riforma delle pensioni mentre il successivo governo Prodi riesce a farci superare l’esame di ingresso nell’Unione economica e monetaria. Con riguardo al Mezzogiorno si opera l’inserimento della legislazione sull’intervento straordinario nelle procedure ordinarie del bilancio dello Stato – operazione che occupa ben quattro anni. Ricordare quello che è successo negli anni 90 è essenziale per capire quello che succederà anche nei primi due decenni del XXI secolo. Negli anni 90 si riformano i sistemi elettorali, per merito dell’On. Bossi leader della Lega Nord, inizia un contrastato processo di riforma dello Stato nella direzione di un assetto federale – ancora non compiuto. Le leggi Bassanini propongono l’anticipazione del federalismo passando per il federalismo amministrativo, ossia, decentramento, delegificazione, semplificazione delle procedure, formazione del personale, telelavoro, riforma della Presidenza del Consiglio dei ministri, Autorità amministrative indipendenti, spoils system, ecc.. Inizia un lento e travagliato processo di risanamento dei conti pubblici che a fronte delle ripetute crisi congiunturali anche di origine esterna, all’inizio e alla fine del decennio, contribuisce a dare un’impronta strutturale alla bassa crescita dell’economia italiana – 1,5% tasso medio annuo del decennio – che si ragguaglia ad un misero 0,23 negli anni 2000 per diventare negativo in questo secondo decennio- ormai un evento ineluttabile anche per via delle conseguenze della crisi del coronavirus.

La mancata attuazione del federalismo lascia anche le Regioni in mezzo al guado e abbarbicate alla gestione della funzione sanitaria, senza vera autonomia finanziaria, senza risorse per gestire al meglio la formazione, le politiche attive del lavoro, senza consapevolezza che una più generale recupero della competitività del sistema Italia passa anche attraverso il rilancio dell’economia meridionale, la ricerca e l’innovazione, una nuova politica industriale, la digitalizzazione e la conversione ecologica dell’economia, in sintesi, lo sviluppo sostenibile.   Oggi l’Italia deve affrontare le sfide poste dal cambiamento tecnologico e da quello demografico – ora nel bel mezzo di una pandemia e di una recessione economica. Si richiede un piano organico di interventi dal lato della domanda e dell’offerta, alias, si richiede una pianificazione strategica quella che una volta chiamavamo PPBS (planning, programming, budgeting system) di cui pochi parlano oggi perché prevale la veduta corta dei politici. Non si pensa né alla pianificazione né alla programmazione di medio termine perché come vediamo ogni anno a fatica si riesce a varare con voto di fiducia su un   maxiemendamento presentato all’ultimo momento la legge di bilancio e le proiezioni triennali del DEF e del PNR restano scritte nella sabbia.

La rapina dei fondi che dovrebbero andare al Sud e che con il criterio della spesa storica vengono dati al Nord è resa operativa per i ritardi nell’attuazione del federalismo. Voglio ricordare che il problema era stato affrontato nella legge delega n. 133/1999 che prevedeva un periodo transitorio di soli tre anni per arrivare ai fabbisogni e costi standard.  Prevedeva anche nuovi sistemi perequativi lasciando fuori da essi il finanziamento della sanità che essendo un bene pubblico nazionale doveva avere una logica diversa. Fu emanato il d. lgs. n. 56/2000 ma anche questo decreto non venne attuato perché i Presidenti delle regioni preferirono negoziare patti della salute annuali. Poi arrivò nel 2001 la riforma del Tit. V.  Ma ci sono voluti altri 8 anni per arrivare alla legge n.42/2009, nel bel mezzo della doppia recessione 2009-2012. Il progetto di riforma avviato da questa legge era incentrato sul coordinamento della finanza pubblica e sul passaggio dalla spesa storica ai fabbisogni determinati secondo i costi standard ma dieci anni dopo siamo ancora ad una Commissione che sta studiando il problema. Le regioni hanno le loro colpe ma la colpa principale, a mio giudizio, resta con i governi centrali e le maggioranze che si sono succedute nel tempo. Inoltre vedo un collegamento con le esperienze di spending review sempre affidate a Commissioni di esperti esterni e non ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni. Se si fosse solta la spending review sul serio attraverso un’attività ordinaria e sistematica non solo a livello centrale ma anche sub-centrale e se avessero funzionato sul serio le migliaia di nuclei di valutazione della efficacia delle varie politiche pubbliche avremmo avuto tutti i dati per costruire fabbisogni e costi standard, e livelli essenziali delle prestazioni. Invece no. C’è sì un grosso problema di distribuzione delle risorse – come sottolinea instancabilmente Napoletano – ma c’è anche un problema di capacità di spesa, di valutazione dell’efficienza, economicità e efficacia di detta spesa. Come del resto c’è anche un problema di accertamento delle entrate tributarie in maniera equa ed efficiente. C’è in sintesi un grosso problema di efficienza della pubblica amministrazione a tutti i livelli di governo. Napoletano loda ripetutamente questo governo per avere avviato l’operazione verità sulla questione meridionale e fa bene a farlo. Critica le classi politiche locali del Nord e del Sud ma a fronte della crisi sanitaria e della conseguente e imminente recessione economica di cui Napoletano non si occupa perché aveva chiuso il libro prima, purtroppo, reputo basse le probabilità che questo governo possa trovare l’accordo per la revisione attenta dell’art. 117 Cost. e l’attuazione prioritaria del successivo art. 119 sui meccanismi perequativi necessari e fondamentali nell’attuazione del federalismo.  Un paese non può restare in mezzo al guado per 25 anni.

@enzorus2020

UNA COINCIDENZA INVOLONTARIA DI Livio Zanotti

La pandemia Covid19 ha allineato (senza in null’altro avvicinarli) le politiche sanitarie dei presidenti di Messico e Brasile, i due massimi giganti industriali latinoamericani e maggiori partners commerciali dell’Italia nella regione. Fieri avversari in tutto e per tutto, di fronte alla sfida mortale del coronavirus lo scettico populista di sinistra Andrés Manuel Lopez Obregon e l’ultra religioso evangelico Jair Bolsonaro, estremista di destra, hanno compiuto analoghe valutazioni riduzioniste dei pericoli sanitari che hanno di fronte. Privilegiano le preoccupazioni per i rispettivi sistemi produttivi e conti pubblici, che attraversano gravi difficoltà, rispetto a quelle per la salute dei loro cittadini, in non minor pericolo. Entrambi resistono a dichiarare la quarantena nazionale decisa invece da altri paesi per contenere i contagi, a cominciare dall’Argentina, che immediatamente li segue per abitanti e prodotto interno lordo (PIL).

La spiegazione di questa sorprendente coincidenza cosi come delle decisioni in senso contrario o di quelle intermedie di altri governi si ricava dal contesto generale dell’America Latina, dolorosamente marcato dalle ineguaglianze tra paese e paese, città e campagne, classi sociali e individui. Nella relativa fragilità dei suoi diversificati ma sempre insufficienti livelli di sviluppo, dei sistemi istituzionali, nella scarsa integrazione culturale e sociale dei suoi quasi 700 milioni di abitanti. Come del resto, al netto delle differenze, in altre zone del mondo, non escluse le più tecnologicamente avanzate. Se la maggioranza dei lavoratori dell’Ilva di Taranto preferiscono il rischio del cancro alla certezza della disoccupazione, non può stupire un’analoga tendenza in zone in cui l’economia informale, cioè il lavoro nero, costituisce il 30/40 per cento del totale. Era esattamente così anche nel celebrato Giappone del boom economico di fine secolo scorso.

Diversi, tuttavia, politiche sociali e temperamenti dei due capi di stato. Pur manifestando entrambi tendenze autoritarie, che del resto non mancano certo di precedenti nella storia dei loro paesi, Lopez Obrador giustifica il proprio azzardo nello sperare che il Covid19 non invada il Messico con la medesima virulenza con cui lo ha fatto nella lontana Europa e nei confinanti Stati Uniti, proteggendo in qualche misura i cittadini maggiormente esposti. E lo fa con provvedimenti insufficienti ma coerenti. Bolsonaro esibisce un ottimismo messianico insieme a un’indifferenza per la sorte altrui e il mondo del lavoro subordinato specialmente, che gli provoca critiche di suoi ministri e generali. Ai quali egli ribatte con accuse di tradimento e personalismo. Salvo poi dover rinnegare le affermazioni più incaute (“Si qualcuno morirà… Mi dispiace… Mia madre ha 92 anni, ci potrebbe lasciare…”) e -costretto dal suo stesso partito- fare marcia indietro sull’idea di sospendere dal lavoro senza salario decine di migliaia di operai.

I governatori di due stati-chiave come San Paolo e Rio de Janeiro hanno proclamato la massima emergenza. Devono far fronte a centinaia di infettati conclamati e alle prime decine di morti. Ma sanno che la realtà è infinitamente più grave. Le città capoluogo d’entrambi gli stati sono intersecate da molte decine di favelas che alloggiano precariamente milioni di persone d’ogni età e sono prive di servizi igienici e sanitari affidabili. Non è eccezionale che nelle case manchi anche l’acqua corrente. Potrebbe verificarsi una catastrofe umanitaria senza rimedio. Il socialdemocratico Joao Doria, da Rio, il socialcristiano Wilson Witzel da San Paolo, e altri 27 governatori, alcuni suoi alleati politici, sollecitano Bolsonaro a concordare urgentemente misure adeguate. Lui, preoccupato d’ogni eventuale concorrente, risponde attraverso la CNN che stanno solo “pensando con eccesso di anticipo a prepararsi la loro campagna elettorale”.

Il suo ministro dell’Economia ha intanto ridotto a zero le stime di crescita per l’anno in corso. Ma autorevoli istituzioni private e i mercati finanziari annunciano invece una forte recessione. La Fondazione Getulio Vargas (FGV) afferma che la maggiore economia del subcontinente rischia di retrocedere del 4,4 per cento nel 2020, per scendere ancora nei successivi 3 anni. In anticipo su una vertenza che con ogni probabilità avrà una portata globale, viene avvertito in Brasile e pubblicamente discusso l’insorgere di una esasperata competizione tra salari e profitti. Con una disoccupazione all’11,2 per cento e l’aggravamento della congiuntura determinato dalla pandemia, molte imprese stanno riducendo produzione, orario di lavoro e personale. Compagnie aeree, automobilistiche (Wolkswagen, Mercedes, Ford, GM), petrolchimiche a cominciare dalla stessa Petrobras, sollecitano aiuti dello stato.

Non soltanto, ma certamente in America Latina le legislazioni vigenti non appaiono in grado di soddisfare e neppure contenere le necessità create dalla pandemia. Tanto meno con la necessaria urgenza. I governi legiferano dunque per decreto. Non mancano di giustificazioni. Ma sebbene sotto stress e comunque evitando in generale psicosi cospirative, l’opinione pubblica non tace preoccupazioni e perfino allarmi per l’emarginazione di fatto delle normali procedure democratiche, già insoddisfacenti. Il liberalismo politico, l’economia di mercato e le istituzioni democratiche, che con maggiore o minore sensibilità sociale o anche semplicemente umanitaria hanno alimentato e sostenuto l’egemonia culturale dell’Occidente dal secondo dopo-guerra a oggi, visti dall’estremità latinoamericana appaiono disconnessi e in qualche punto a rischio di vacillare.

Livio Zanotti

Uno specchio deformante riflette l’America latina di Livio Zanotti

Come negli specchi deformanti dei vecchi luna-park, ma senza quella perduta allegria, l’America Latina si riflette nella lattiginosa opacità del Corona Virus e stenta a riconoscersi. Ma alla paura di se stessa, dei suoi conflitti, delle carenze e fragilità, si sforza di sovrapporre l’energica volontà dei paesi emergenti, decisi a non lasciarsi travolgere dallo tsunami del Covid19. Argentina, Colombia e Perù hanno chiuso le rispettive frontiere terrestri, aeree, marittime e fluviali, ristretto severamente i movimenti interni. L’Argentina è stata la prima a reagire, altri paesi si apprestano a seguirla in queste ore. Non senza polemiche interne e gravi richiami se non vere e proprie censure all’imprevidenza di tanti governi e all’incredulità di tanti cittadini, non solo nel subcontinente.

In Messico, stretto tra i provvedimenti degli Stati Uniti, tardivi ma di forte impatto sui paesi limitrofi, e un Centroamerica che è forse la zona a maggiore rischio nell’intero continente, il presidente Lopez Obrador appare più preoccupato di mantenere in piedi la capacità produttiva del paese in questa oscillante congiuntura, che di circoscrivere la pandemia del Corona Virus. Anche in Cile, che finora ne stato soltanto sfiorato, la maggior parte della popolazione tende a credere che l’allarme lanciato adesso dal governo sia essenzialmente un espediente per impedire le proteste di piazza che da 5 mesi scuotono il paese. Pur criticando il tempo perduto dal presidente Sebastian Piñera, la stessa opposizione conviene nondimeno di rinviare il referendum costituzionale del prossimo 26 aprile. E anche i manifestanti cominciano la ritirata, lentamente e a malincuore. Solo in Brasile il presidente Bolsonaro festeggia con decine di invitati il suo compleanno.

La pandemia sembra smuovere, in cambio, il tormentato conflitto politico venezuelano, mantenuto in trincea dagli estremismi contrapposti. Da lungo tempo l’emergenza sanitaria causata dal tracollo economico e dalla conseguente penuria di farmaci, strumentazione e personale medico, assedia il paese caraibico. Il suo improvviso e ulteriore (e non si sa quanto drammatico) aggravamento provocato dal Covid19 ha scosso anche il governo di Caracas, che per farvi fronte sollecita un prestito di mille500 milioni di dollari al Fondo Monetario Internazionale (FMI). Un credito limitato, che comunque implica un rapporto politico con la comunità internazionale. E internamente accredita le voci di una ripresa di dialogo tra governo e opposizione, sebbene non ci sia stato ancora alcun incontro. Si, invece, una pre-intesa per rinviare le elezioni previste per quest’anno e svelenire il clima politico.

La stampa sudamericana, dalla rivista brasiliana Veja al quotidiano argentino Pagina12, al Espectador di Bogotà, pubblica documenti di autorevoli organizzazioni internazionali che sotto forma di ipotesi e/o di previsioni da tempo avvertono praticamente tutti i governi del mondo e con puntuale insistenza interloquiscono con le competenti commissioni delle Nazioni Unite sui crescenti rischi di pandemie. Il Global Preparedness Monitoring Board (GPMB) aveva annunciato un “rischio biologico mondiale catastrofico” che potrebbe infine comportare una perdita generalizzata di fiducia nelle istituzioni. A preannunciarlo, secondo gli esperti, sarebbe stato il notevole moltiplicarsi dell’intensità e della frequenza di episodi epidemici tra il 2011 e il 2018, per un totale di 1483 (Sars/Mers, Ebola, Zika, febbre gialla) in ben 172 paesi.

Sebbene diluiti nel tempo, ma con specifici riferimenti alle influenze e febbri di natura virale, pronostici analoghi sono stati anticipati anche dal Creating Global Health Risk Framework for Future e raccolti dall’Accademia Nazionale di Medicina degli Stati Uniti. Indagando nelle strutture biologiche dei ceppi virali sembra sia infatti possibile determinare la forza evolutiva di ciascuno di essi e dunque la loro capacità di mutazione e di adattamento prima che raggiungano un potenziale pandemico. Un risultato che alcuni dei ceppi studiati potrebbero già aver maturato, divenendo pertanto rischi presenti e attuali. “Un mondo a rischio”, è -per l’appunto- il titolo del volume di 48 pagine diffuso l’anno scorso dal GPMB.

Quello delle previsioni è tuttavia un punto non tanto controverso quanto di valore relativo. Nel senso che si tratta di studi scientifici seri, realizzati da specialisti più che accreditati. Ma pur sempre di carattere probabilistico, basato cioè su calcoli statistici proiettati in una visione ipotetica. Un lavoro assimilabile a quello degli stati maggiori militari di tutto il mondo, i quali ipotizzano continuamente possibilità reali di guerra e ne sviluppano diversi esiti per tentare di risolverli nel modo più vantaggioso. Anch’essi sulla ineludibile base del rapporto costi-ricavi, sia umani sia materiali. E’ poi il potere politico a valutare e decidere cosa fare e cosa non fare. Nelle culture oggi dominanti, anche in quelle meno mercantiliste e più sensibili invece ai valori dell’essere umano in quanto tale, la preoccupazione per la crescita materiale dell’economia prevale spesso su quella diretta alla difesa primaria delle popolazioni, del loro stato di salute.

Livio Zanotti

Il coronavirus in America Latina. Un dramma e un diversivo per l’opinione pubblica. Di Livio Zanotti

Il Coronavirus, fatalmente, è arrivato anche in America Latina. E fatalmente è stato subito metabolizzato dalla politica. Per negarne la nocività, come ha fatto in Brasile il presidente Jair Bolsonaro (che ora ha 2 infettati nel suo stesso staff); per usarlo da paravento come in Colombia o prendendo tempo nella speranza del miracolo. Con il governo argentino che ha già decretato l’emergenza nazionale e misure radicali. E il Messico che s’appresta a farlo. I casi accertati e dichiarati sono finora nell’ordine delle poche centinaia, su una popolazione di quasi 700 milioni di abitanti.

Le autorità sanitarie prevedono la fase acuta della pandemia tra 30/90 giorni. Quelle politiche già hanno varato limitazioni dei voli aerei con Europa, Stati Uniti e Asia, sospeso gli spettacoli di massa dal calcio ai concerti, alle ricorrenze pubbliche, mobilitando tutti i mezzi di comunicazione di massa per avvertire le popolazioni sui rischi di contagio e i modi per evitarlo o almeno ridurlo al minimo.. Ma in quasi tutti i paesi l’emergenza sanitaria viene usata anche come strumento di distrazione di massa dai governi in difficoltà o di denunce politiche da parte delle opposizioni che pretendono smascherarne la strumentalizzazione.

In Cile il governo ha tenuto uno stato di pre-allarme, di fatto senza predisporre un’emergenza sanitaria. Molte decine di migliaia di manifestanti sono dunque tornati in piazza per celebrare il trentesimo anniversario della sconfitta di Pinochet e il ritorno della democrazia, ignorando il coronavirus. In pratica la loro protesta prosegue quasi ininterrotta dal 18 ottobre scorso. E di nuovo si è scontrata con le dure cariche della polizia che continua a sparare salve di lacrimogeni e di pallini di plastica metallizzati, sebbene pubblicamente condannati dalla commissione per la difesa dei diritti umani delle Nazioni Unite.

Nelle settimane scorse l’uso di questa fucileria mirata ad altezza del volto, ha lesionato gravemente gli occhi e in molti casi reso ciechi oltre centocinquanta manifestanti. Senza peraltro riuscire a smorzare la protesta. C’è una parte del paese, difficile da misurare ma di certo molto rilevante, e prevalente tra gli studenti e i giovani in generale, convinta di dover mantenere la pressione di piazza sul presidente Sebastian Piñera e su tutti i partiti senza eccezioni (che -per dare un’idea- negli ultimi 6 mesi hanno perduto complessivamente quasi 20mila iscritti) al fine di evitare che vengano meno agli impegni assunti . E perfino il corona-virus viene visto come un possibile pretesto.

Il prossimo 26 aprile, 14 milioni di cileni voteranno infatti per un referendum costituzionale che Piñera ha accettato per necessità ma anche per convinzione. Al contrario di altri settori della destra nazionale, egli non considera perduta la partita. Doveva contenere la sollevazione accesa cinque mesi addietro dalla sua decisione di aumentare il costo dei trasporti pubblici e rapidamente divenuta una contestazione generale delle istituzioni vigenti, accusate di essere anti-democratiche.

Il voto deciderà non solo sulla abolizione della Costituzione voluta da Pinochet e in vigore dal 1980; bensì -e non è un dettaglio minore, poiché probabilmente cambierà i rapporti di forza parlamentari attualmente favorevoli alla destra-, anche se a redigere l’eventuale nuovo testo dei diritti fondamentali sarà l’attuale Parlamento integrato per metà da nuovi eletti, oppure da un’Assemblea Costituente totalmente rinnovata. Sarà la prima volta nella sua storia che il popolo cileno interverrà direttamente nella formulazione della sua Magna Carta.

Con le manifestazioni di protesta se la deve vedere anche il presidente della Colombia, Ivan Duque, che in questi giorni è stato messo ancor più nei guai dal sospetto di aver comprato voti decisivi per la sua elezione, nel giugno 2018, attraverso il noto narcotrafficante José Hernàndez, indagato per omicidio dalla giustizia ed egli stesso assassinato l’anno scorso in Brasile. Il soprannome del narco era Ñeñe, un soprannome compiacente, trasformato immediatamente dal sarcasmo popolare in Ñeñe-virus, ad indicare la pericolosità che rappresenta adesso per il Presidente e il suo partito, il Centro Democratico. I giornali pubblicano una gran quantità di foto in cui Hernandez è abbracciato sia con Duque, sia con il suo massimo sostenitore, l’ex presidente Alvaro Uribe, e una loro stretta collaboratrice, Maria Claudia Daza, che appena esploso lo scandalo ha lasciato la Colombia. Mentre Uribe va sotto inchiesta della magistratura.

In Venezuela Nicolas Maduro spera che il coronavirus gli eviti le scadenze elettorali di quest’anno e costringa le opposizioni a frenare la protesta contro il governo. Qualche suo ministro dice persino che potrebbe uscirne rafforzato, poiché lo stato ed essenzialmente le forze armate risultano indispensabili nel caso di crisi sanitaria. Non infondato, all’opposto, il timore che nel caso in cui la piaga virale invada anche il paese caraibico, purtroppo probabile malgrado il suo parziale isolamento, potrebbe determinare una situazione di ingovernabilità totale.

Con produzione e prezzi petroliferi in discesa, l’economia si regge oggi acrobaticamente sui trampoli dei sussidi pubblici da una parte e della dollarizzazione del mercato libero dall’altra. E’ penoso immaginare come lo scossone della pandemia, che già assedia gran parte del mondo, potrebbe mandare d’un colpo gambe all’aria non solo il già vacillante sistema sanitario bensì la vita quotidiana del Venezuela. Se dovesse determinarsi questo scenario, gli effetti potrebbero rapidamente contaminerebbero gli equilibri politici del subcontinente.

Livio Zanotti

La salute come bene pubblico globale ed europeo.

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Continuano le baruffe chiozzotte tra maggioranza di governo e opposizione sulla gestione della crisi coronavirus da parte delle Regioni e del governo centrale. È sempre più evidente (e non solo da oggi) che la salute è bene pubblico globale in un mondo fortemente interdipendente, globalizzato. Non è che l’Unione europea non abbia competenze in materia, il problema è che esse si limitano a allo svolgimento di “azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri. E nei settori in cui tali azioni si possono svolgere “la tutela miglioramento della salute umana” è alla lettera a) dell’art. 6 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. È di tutta evidenza che in molti casi sostenere e completare l’azione degli stati membri richiede adeguati finanziamenti – come vedremo più avanti.

Con riguardo alle previsioni della Costituzione italiana, soccorre l’art. 117 comma 3 della Costituzione che prescrive una competenza concorrente tra governo centrali e governi regionali. Bisogna ricordare che, in fase costituente, i nostri illuminati costituenti fecero una scelta “sbagliata” ad attribuire alle regioni competenze in materia sanitaria perché non avevano a disposizione una teoria consolidata dei beni pubblici che arriverà nel 1954 con Samuelson  e con Tiebout nel 1956. Fu un errore confermato anche alla riforma del Titolo V nel 2001.  La mia tesi personale è sempre stata che bisogna togliere questa competenza alle Regioni la cui missione originaria era quella della programmazione economica. Non casualmente l’unico presidente di Regione che ha osato esprimersi negli stessi termini è stato Chiamparino presidente della Regione Piemonte nell’ultimo anno del suo mandato e vedi il caso è stato assistente universitario di scienza delle finanze. Sarebbe auspicabile che la Conferenza sul futuro dell’Europa si occupasse di questa importante e vitale questione.

Ecco, se si accoglie l’idea che la salute è un bene pubblico globale – come in fatto lo è – il discorso ovviamente non può limitarsi all’Unione europea, esso va esteso a livello mondiale. A fronte del diffondersi delle epidemie in diversi paesi, anche se ancora non siamo tecnicamente in una pandemia, può essere utile capire di che cosa stiamo parlando e quale siano le strutture sovranazionali preposte a circoscrivere il problema e, possibilmente, risolverlo in tempi ragionevoli. Anche a questo livello non siamo all’anno zero. Non a caso abbiamo dal 1948 l’organizzazione mondiale della sanità con sede Ginevra. Senonché questa organizzazione si limita a promuovere la cooperazione internazionale specialmente nella lotta alle malattie infettive e nell’affrontare le emergenze sanitarie. Quindi il suo compito specifico è quello di emettere raccomandazioni, favorire la definizione di convenzioni e altri accordi tra i paesi associati (193), assistere i paesi membri anche nella prevenzione.

Non è vero che l’Unione europea non fa niente. infatti a seguito della diffusione del virus della Sars nel 2003 l’UE ha promosso il programma europeo salute 2014-2020 che ha lo scopo di completare, supportare e valorizzare le politiche dei paesi membri ed il PRO.M.I.S alias, il programma mattone internazionale della salute a partire dal 2015. Come in altre missioni che assume, il problema è che non ci mette risorse sufficienti. Per detto programma la spesa settennale prevista ammonta a 449 milioni di euro. Le solite patatine con le quali alcuni bevono l’aperitivo. È vero che in molti paesi membri i sistemi sanitari sono molto sviluppati ma se uno fa il confronto con i 45 miliardi di dollari che ha speso per la sanità nel mondo, in primo luogo in Africa, la Fondazione Bill e Melinda Gates ogni commento è superfluo. Ancora a livello globale si occupano di sanità il G7, il G20  e i BRICS il tutto inserito nel quadro del programma SDGs (Sustainable Development Goals System) 2030 delle Nazioni Unite.

Ora se l’OMS si limita in via principale a fare guidance o assistenza tecnico-scientifica, è chiaro che nell’ambito della governance dell’ONU le agenzie specializzate ed in particolare la Banca Mondiale dovrebbe assumere un ruolo di primo piano proprio perché è lo strumento principale per finanziare programmi di sviluppo equo e sostenibile in una fase storica in cui l’economia mondiale va incontro alla grande trasformazione della conversione ecologica e a quella della digitalizzazione anche se in Africa e in altri paesi in via di sviluppo il problema fondamentale resta quello delle infrastrutture, degli acquedotti, del trattamento dei rifiuti, dei sistemi fognari, della disponibilità di acqua potabile e delle condizioni igieniche nelle bidonville, nei campi profughi, ecc..

Ora è chiaro che molte delle organizzazioni menzionate sopra si limitano a enunciare e raccomandare obiettivi largamente condivisibili che poi non trovano finanziamenti adeguati e, quindi, le enunciazioni rimangono allo stato di pii desideri. Si tratta di problemi estremamente complessi perché la salute pubblica in molti paesi dipende dalla malnutrizione, dall’ambiente degradato, dalle condizioni igieniche dei posti in cui si vive e si lavora, dalle infrastrutture fisiche e, come noto, lo sviluppo equo e sostenibile è un obiettivo ancora lontano anche nei paesi più avanzati.1

Ci sono problemi immani di coordinamento tra le organizzazioni internazionali e i paesi in via di sviluppo, tra questi e quelli sviluppati e molti paesi sono governati da dittature più o meno feroci che non ammettono ingerenze nei loro affari interni. Ma la politica italiana si trastulla in una insulsa polemica sulla divisione delle competenze in materia senza rendersi conto che un assetto di competenze concorrenti é la premessa necessaria anche se non sufficiente per la cooperazione e il coordinamento.

1 Per chi volesse approfondire la tematica dei beni pubblici europei troverà approfondimenti nel volume di Astrid, Il finanziamento dell’Europa. Il bilancio dell’Unione e i beni pubblici europei, a cura di Maria Teresa Salvemini e Franco Bassanini, Passigli Editori, 2010.

Un governo di unità nazionale? No grazie.

Politici e giornalisti schizofrenici e faziosi propalano la proposta di Salvini e – pare anche di Renzi che poi l’ha rinviata – di un governo di unità nazionale a fronte della cattiva gestione dell’emergenza corona-virus. Il Presidente Conte è ritenuto il principale responsabile di tale presunto misfatto e, quindi, va sostituito. Sarebbe interessante vedere governare Lega e Italia Viva insieme al PD, M5S, Fratelli d’Italia e Forza Italia, se si considera che Salvini ha provocato la crisi del governo giallo-verde proprio perché, a suo dire, il governo non decideva niente ma non per colpa di Conte ma perché non andava d’accordo con il capo del M5S Di Maio e non si trovavano punti di mediazione. Non c’è dubbio che un governo di unità nazionale per ipotesi sarebbe sostenuto da una coalizione ancora più eterogenea e cioè con obiettivi programmatici largamente non convergenti. Non c’è dubbio che nell’attuale maggioranza il Presidente Conte si è guadagnato uno spazio maggiore di mediazione tra le due principali forze politiche che sostengono il suo governo. E questo preoccupa non solo Salvini e Renzi ma anche l’altro uomo forte della Lega Giorgetti che sarebbe il vero ideatore della proposta essendosi reso conto che restando fuori dal governo la Lega perderebbe consensi – come conferma un sondaggio di oggi – anche perché il suo leader non riesce ad elaborare proposte ragionevoli e fattibili né in materia di politica economica né in materia di relazioni internazionali e di rapporti interni all’Unione europea.

Accusando Conte di aver gestito male l’emergenza sanitaria si entra in netta contraddizione con il fatto che il primo responsabile di detta gestione è il ministro della sanità Speranza il quale era stato ed è apprezzato da non pochi giornalisti e commentatori italiani e, da ultimo, dalla Organizzazione mondiale della Sanità nonché dalla Commissaria europea Stella Kyriades proprio per il modello di gestione e di comunicazione adottato. Ora se si tiene conto che l’attuale governo pratica più collegialità di quanto ne praticasse il precedente anche grazie al prof.  Conte, è chiaro che il vero motivo dell’attacco dell’opposizione non è motivata solo dall’attivismo o sovraesposizione di Conte degli ultimi giorni ma soprattutto dall’idea che se il governo riesce ad uscire dall’emergenza in tempi ravvicinati la posizione del governo e del suo Presidente ne uscirebbe maggiormente consolidata.     

Due ulteriori argomenti rafforzano questa tesi: a) il dissenso con il governatore della Lombardia che ha accusato Conte di non rispettare le prerogative delle Regioni in materia di sanità; b) il collegamento che Salvini fa tra emergenza sanitaria e ulteriore ridimensionamento della crescita economica italiana quest’anno e probabilmente per trascinamento anche l’anno prossimo – propalato come disastro. Sul primo punto l’argomentazione del governatore Fontana è del tutto speciosa perché lui non può non sapere che la materia sanitaria ai sensi dell’art. 117 comma 3 è competenza concorrente e, quindi, il governo centrale è pienamente legittimato a intervenire e promuovere il coordinamento nel caso in cui le regioni si muovono in ordine sparso e, a maggior ragione, in caso di emergenza nazionale. Anche sul punto di cui alla lettera b) gli argomenti di Salvini sono del tutto infondati e strumentali. Intanto collega un fenomeno contingente (l’emergenza sanitaria) con un fenomeno strutturale di lungo termine. È assodato che per le sue dimensioni l’epidemia da Coronavirus che ha colpito la Cina avrà conseguente di livello mondiale a partire dai paesi dove il diffondersi del virus ha creato dei focolai infettivi.   Ora qualsiasi persona di buon senso – tranne Salvini – capisce che se ci sono dei focolai la prima cosa da fare è quella di circoscriverli e spegnerli. Ed è chiaro che questa operazione ha dei costi economici ma non ci sono alternative gratis. Il governo cinese ha messo in quarantena 60 milioni di persone e l’economia cinese ne risentirà in modo marcato, ma in Italia politici irresponsabili gridano al disastro economico che la scelta del governo produrrà senza ricordare che l’economia italiana non cresce come dovrebbe da circa 25 anni e i responsabili di questa situazione sono anche governi di centro-destra di cui la Lega ha fatto parte integrante. Da circa 25 assistiamo alla caduta degli investimenti pubblici e privati e le misure adottate per rilanciare la produttività sono state del tutto inadeguate e inefficaci. Quindi se l’economia italiana non cresce come dovrebbe non dipende dall’emergenza sanitaria. Una delle prove inoppugnabile sta nella caduta della produzione industriale (-2,7%) nel mese di dicembre 2019 prima che il coronavirus arrivasse in Italia. Ma come fai a spiegarlo a Salvini che non accetta il contraddittorio?

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Il difficile bilanciamento tra crescita economica e sviluppo democratico in Cina

Daniel A. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Prefazione di Sebastiano Maffettone, Traduzione di Gabriella Tonoli, Luiss University Press, (edizione originale della Princeton University The China Model: Political Meritocracy and the Limits of Democracy, 2015).

Oggetto del libro è riflettere in modo sistematico sul binomio democrazia e meritocrazia.

Ci sono voluti decenni per selezionare un sistema amministrativo equo ed efficiente che scelga dirigenti politici e funzionari pubblici con qualità superiori alla media.  È interessante notare subito che in Cina la stabilità del sistema economico viene valutata in senso negativo in Italia e in Europa in senso positivo. Si può avanzare l’ipotesi che in Cina prevalga la cultura della crescita economica mentre in Italia e nella UE prevalga la cultura giuridica che privilegia la stabilità e/o la cristallizzazione del sistema – probabilmente come reazione agli sconvolgimenti politici conseguenti alla fine della Guerra Fredda e alle fibrillazioni dei sistemi politici conseguenti al riemergere di forze politiche di stampo populista e sovranista.

Secondo Bell, la Cina è una cultura che impara mentre – aggiungo io – quella occidentale, negli ultimi secoli, crede di sapere tutto e di essere sempre al centro del mondo. Bell la definisce “compiacenza autocelebrativa”. I cinesi concepiscono la democrazia più in termini sostanziali che procedurali come invece fanno gli europei, in altre parole, apprezzano la democrazia per le conseguenze positive che essa comporta più che per la bontà delle regole procedurali. Una differenza di non poco conto perché spesso procedure sommarie comportano conseguenze negative.

I paesi occidentali sono democrazie elettorali che Bell confronta con il modello cinese meritocratico. Per entrare subito nel merito Bell ricorda  le quattro tirannidi della democrazia elettorale: 1) quella della maggioranza; 2) quella della minoranza come risulta lampante nel caso in cui si prescrive l’unanimità ma anche in molti altri casi in cui potenti gruppi minoritari riescono a condizionare il processo decisionale a loro favore; 3) la tirannide degli aventi diritto al voto che decidono per tutti per le generazioni future, per gli stranieri, ecc.; 4) la tirannide di individualisti competitivi che tendono a polarizzare il dibattito a danno di chi con il dialogo cerca di proporre soluzioni più armoniose delle varie posizioni e/o interessi.

Sono tre i principali capisaldi del modello cinese: democrazia elettorale in basso; sperimentazione nel mezzo; meritocrazia in alto.  Nelle democrazie elettorali innestate su società poco coese si crea una situazione nella quale discutiamo di tutto ma non siamo mai d’accordo su nulla. In ogni caso il principio “a una persona, un voto” è diventato un dogma. E tuttavia è necessario che ci sia un’alternativa. Secondo me, se non possiamo revocare il suffragio universale, forse possiamo agire sul versante di una rigorosa selezione dei candidati, degli elegibili: possono votare tutti ma si possono porre delle ragionevoli restrizioni alle candidature, magari lasciando fuori gli outsider quelli che non si sono mai occupati di politica e/o gli aspiranti dittatori dichiarati. Tema quest’ultimo ovviamente molto delicato che va a cozzare contro la libertà di pensiero. Ma il diritto al voto non può identificarsi meccanicamente con l’elettorato passivo che richiede competenza, esperienza operativa, credibilità, qualità morali, ecc. La domanda è: perché in politica chiunque (rectius i più ricchi ed i più ambiziosi) possono liberamente candidarsi quando nel settore privato ciò non è possibile? Io non posso liberamente candidarmi a dirigere una società di assicurazione, una banca, o un’impresa privata qualsiasi. E questo problema si pone sia in un sistema politico monopartitico come quello cinese ma anche e – a maggior ragione – in contesti pluripartitici competitivi. C’è evidentemente un problema di competenze da valutare e di fiducia da assegnare da parte degli azionisti. Ma il rapporto di agenzia è più difficile da attuare in un contesto allargato come quello delle elezioni nazionali e ad esempio delle elezioni dirette del Presidente degli Stati Uniti d’America. E non basta auspicare che anche gli elettori dovrebbero fare la loro parte per scegliere governanti saggi perché gioca contro l’ignoranza degli affari politici che Bell pensa di risolvere con una istruzione obbligatoria di 12-13 anni. Sappiamo che Somin non ritiene sufficiente una misura del genere perché non c’è dubbio che nell’ultimo secolo in molti paesi c’è stato un forte aumento dell’istruzione di base ma non ha prodotto gli specifici risultati auspicati perché ci sono elettori che benché meglio istruiti non hanno tempo o voglia di occuparsi di politica e ci sono gli ignoranti razionali quelli che non sapendo come valorizzare anche nelle relazioni sociali una faticosa o costosa formazione rinunciano a studiare gli affari politici. Questi ultimi sono i c.d. ignoranti razionali.  Sappiamo che in Occidente storicamente e in particolare dopo la rivoluzione americana e francese le risposte sono state quelle delle due Camere una alta ed una bassa. La prima composta di persone maggiormente adulte e qualificate in parte eletti e in parte nominate sulla base di meriti acquisiti; la seconda scelta sulla base di elezioni più o meno libere o distorte da sistemi elettorali più o meno coerenti con il principio democratico. 

In Cina ormai da alcuni millenni è prevalsa l’idea confuciana di armonia: “intrattenere relazioni sociali armoniose in famiglia, nella società, nel mondo e con la natura” e anche gli Imperatori praticavano regole meritocratiche per la selezione dei funzionari pubblici e/o le persone a cui assegnare importanti ruoli politici. Ciò posto, Bell ribadisce che lo scopo minimo della sua analisi è innanzitutto quella di desacralizzare l’ideale del binomio “una persona un voto” che la maggior parte dei costituzionalisti e politologi moderni identificano come l’essenza della democrazia elettorale.

Nel secondo capitolo Bell si occupa del problema della selezione dei buoni leader, ricorda che solo in inglese si pubblicano centinaia di libri ogni anno ma il problema non è facile da risolvere.  Il leader dovrebbe essere umile e condurre uno stile di vita modesto. In genere si tende ad assimilare il leader politico ai leader di impresa. E’ vero che alcuni politologi parlano di imprenditore politico ma sono due campi molto diversi. Nel caso dell’impresa che opera in un mercato competitivo gli obiettivi d’impresa semplificati consistono nel creare valore per gli azionisti, per il politico che opera nel c.d.  mercato politico il compito è molto più complicato perché lui non deve tener conto soltanto delle preferenze dei suoi elettori ma che di quelle degli altri elettori, di quelli che non votano degli stranieri residenti e delle generazioni future. Non bastano al politico le tre qualità individuate da Max Weber citato da Bell: 1) passione con cui dedicarsi alla causa; 2) responsabilità – co come si dice oggi l’accountability – del suo agire; 3) la fredda capacità di valutazione corretta di cose e persone. Serve l’arte del compromesso; servono competenze in materia di economia, scienza, psicologia sociale e relazioni internazionali.

Non che il modello cinese abbia risolto del tutto questi problemi. In maniera erudita Bell cita Mencio (filosofo confuciano vissuto tra il 372-289 A.C. circa) secondo cui “il vero monarca arriva ogni 500 anni” e aggiungeva che, alla sua epoca, non se n’era visto uno da 700 anni. In ogni caso, ribadisce che secondo la tradizione confuciana il politico dovrebbe avere 5 qualità: 1) autocoscienza, 2) capacità di autocontrollo; 3) motivazione, 4) empatia, e 5) abilità sociali.  Ma non bastano le sole qualità personali dei leader, servono intelligenza emotiva e il ricorso a squadre, a gruppi dirigenti non solo di uomini ma anche di donne che tendono ad essere più empatiche e meno propense ad assumere decisioni altamente rischiose.  Ma di nuovo le decisioni politiche vanno valutate in relazione ai risultati ottenuti. E riferendosi all’indice di riduzione della povertà in Cina i risultati sono veramente eccezionali. In circa trent’anni sono stati portati fuori dalla povertà circa 600 milioni di persone. Bell definisce questo il miglior risultato nella storia dell’umanità.

È ovvio che nelle democrazie contemporanee contano non solo le qualità dei leader ma anche quelle dei cittadini. Ma se gli elettori sono i migliori giudici di sé stessi, razionali e/o attenti solo ai propri interessi – come i neoliberisti cercano di far credere loro – gli esiti delle elezioni e i risultati delle politiche pubbliche non saranno tra quelli più desiderabili. Ne discende che il compito della leadership è anche quello di convincere i cittadini ad operare per il bene comune. A questo riguardo Bell ricorda che nella tradizione confuciana l’abilità oratoria non è tenuta in grande considerazione: “l’enfasi è posta sull’azione più che sulle parole, l’astuzia verbale viene vista come impedimento al coltivare la propria morale perché: 1) una lingua sciolta divorzia la mente dal cuore, 2) un discorso adulatorio mina la sincerità, 3) un discorso tronfio manca di umiltà”. Non è tutto oro quello che luccica.

Nel capitolo 3 Bell ci racconta che cosa non funziona in Cina. Pur richiamando che sotto la dinastia Han (206 A.C.- 220 D.C.) in Cina c’era il censorato – un istituto analogo a quello del tribuno del popolo a Roma – oggi scrive Bell non ci sono censori, mancano i corpi intermedi e se così si chiede chi combatte la corruzione, gli stessi corrotti? In Cina c’è una struttura parallela: lo Stato e il Partito comunista su cinque livelli territoriali: centro, provincia, la prefettura, la contea e la città. Non c’è separazione dei poteri. Mancano corpi indipendenti. Nel lontano passato in teoria si applicava la rule of avoidance per evitare il conflitto tra interessi locali e quelli nazionali e/o del bene comune. Quindi l’assenza di contrappesi e/o di controlli da parte di corpi indipendenti è la prima causa del dilagare della corruzione. La second causa dipende dalla transizione al sistema di mercato che naturalmente favorisce la ricerca di rendite di posizione e di approfittare delle opportunità che essa offre anche nel breve termine. Una terza causa viene individuata nei salari eccessivamente bassi dei funzionari pubblici. Bell cita il caso del Presidente Xi Jinping che ufficialmente guadagna solo 19 mila dollari l’anno – un salario del tutto inadeguato. Bell riferisce delle esperienze al riguardo di paesi come Singapore e Corea del Sud anche per gli standard cinesi. Il primo che viene considerato quasi un modello per la Cina ha i funzionari pubblici meglio pagati al mondo: il premier guadagna 3,1 milioni di dollari ed un funzionario a 32 anni guadagna 361 mila dollari all’anno. Cosa che ovviamente la Cina non vuole permettersi. Cita anche il caso della Korea del Sud che tra le altre misure ha adottato quelle di vietare a uomini politici e d’affari di giocare insieme al golf. Bell sembra ottimista sugli esiti della lotta alla corruzione ma è consapevole che anche quando la legge è chiara non sempre è facile farla applicare anche in ragione della dimensione del Paese e delle diversità che esso comprende.

Anche in Cina – come in Europa – i politici hanno problemi con la c.d. ricetta unica che non si addice alle diverse situazioni storiche e culturali. La misura unica come la chiamano i cinesi è motivata “con il sottodimensionamento delle istituzioni governative rispetto alle enormi dimensioni del Paese e la varietà di contesti sociali e dei loro problemi sicché quando si adotta una politica non appropriata per alcune regioni, le conseguenze sono gravi e difficili da correggere”.

La struttura parallela secondo Bell corre il rischio della cristallizzazione come in altri paesi. Per neutralizzare detto rischio formula tre raccomandazioni: a) alle elites inclini all’arroganza di essere più umili e solidali, b) di migliorare i criteri selettivi per ampliare la rappresentanza sociale, c) di differenziare i criteri di merito. Alla fine la legittimità del governo migliora “quando esso è moralmente giustificato agli occhi del popolo”. In fatto, anche attraverso sondaggi svolti con metodologie diverse i cinesi ritengono il loro governo è appropriato. Ovviamente non manca il malcontento ma questo si rivolge soprattutto ai livelli locali. Bell scrive di un apparente paradosso per cui “i cinesi professano fede nel governo democratico pur abbracciando un governo non democratico”. La legittimità del governo aumenta perché risolve i problemi della gente con la crescita economica e la riduzione della povertà ma anche perché migliora la sua capacità di gestire le crisi. Bell aggiunge che per legittimare la meritocrazia può rendersi necessaria la democrazia”.

Nel cap. IV Bell mette a confronto i tre modelli di meritocrazia democratica distinguendo per livelli di governo: 1) democrazia e meritocrazia a livello dell’elettore; 2) democrazia e meritocrazia con sperimentazioni nelle istituzioni politiche intermedie; 3) meritocrazia nel governo centrale con qualche apertura alla democrazia.

Confronta detti modelli con altre proposte storiche come quella di John S. Mill sul voto plurimo recentemente ripresa dal leader di Singapore Lee Kuan Yew; la seconda Camera di Hajeck e le proposte inglesi di riforma della Camera dei Lords; le proposte di Jiang Qing delle tre Camere. Laicamente sostiene che bisogna superare l’assunto secondo cui la “sovranità (assoluta) del popolo (sia) equivalente laico della sovranità di Dio”.  Jiang teorizza tre diverse legittimità: a) quella del cielo, alias, della volontà governante trascendentale e/o del sacro senso di moralità naturale; b) legittimità della terra fra storia e cultura; c) legittimità degli uomini che fa riferimento alla volontà popolare articolata su tre canali: 1) delle persone esemplari (“sacre”); 2) dei rappresentanti della nazione (legittimità culturale); 3) della Camera “bassa” popolare. In questo modello la I camera ha la priorità sulla II e la III. Ma la prima Camera – osserva Bell – fa riferimento a valori trascendentali controversi difficilmente accettabili anche da parte di confuciani che accolgono il confucianesimo come un’etica sociale più che religiosa (200).

Dopo aver analizzato vizi e virtù dei diversi sistemi e considerato che c’è sempre un divario più o meno ampio tra il modello ideale, quello adottato legislativamente e quello applicato e funzionante in pratica, Bell torna sul modello cinese che definisce come un capitalismo di mercato sotto l’ombrello di uno stato autoritario a partito unico che privilegia la stabilità politica.

Nelle considerazioni finali Bell sottolinea alcune disfunzioni sui tre livelli di governo. Afferma che le sperimentazioni a livello locale ed intermedio sono essenziali per formulare le migliori politiche da portare avanti a livello nazionale. Questo delicato e complesso meccanismo incontra grosse difficoltà di applicazione in contesti federali rigidi dove c’è una distribuzione rigida delle competenze come in Cina non sempre superate e superabili grazie all’esistenza del partito unico e nei sistemi federali avanzati dove ci sono preferenze disomogenee che in regimi democratici avanzati producono un sistema politico pluralistico (con più partiti). Almeno in teoria, secondo me, il problema è risolvibile con un sistema fortemente decentrato, competenze concorrenti ed una bene articolata attività di programmazione dello sviluppo a medio-lungo termine alla Ragnar Frisch che, come noto, prevedeva una continua interazione dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso. In fondo stiamo parlando delle buone pratiche raccomandate dall’OCSE e dall’Unione europea che alcuni Paesi membri non prendono in seria considerazione come invece dovrebbero inserendole in un adeguato contesto di programmazione di medio e lungo termine. Abbiamo citato sopra il miracolo economico che la Cina ha saputo promuovere negli ultimi 30-35 anni. Se ha potuto farlo una parte del merito va al Partito comunista cinese che di certo ha sacrificato libertà individuali e la democrazia. Interessante l’analisi di Bell secondo cui il PCC non è comunista né un partito: la stragrande maggioranza dei cinesi non sa che cos’è il marxismo-leninismo. Negli 80 milioni di aderenti c’è di tutto e di più: funzionari pubblici, imprenditori, intellettuali, componenti scelti per meriti conseguiti nei diversi settori della società cinese. Il partito – continua Bell – punta a rappresentare l’intero paese, potrebbe meglio chiamarsi Unione meritocratica cinese o, meglio ancora, Unione dei meritocratici democratici.

Sopra Bell ha ricordato che il PCC privilegia la stabilità politica. Tutto bene? No a quanto sembra a me. Nel 2018 l’Assemblea nazionale del popolo quasi all’unanimità (2963 voti su 2969) ha modificato la Costituzione eliminando la barriera dei due mandati quinquennali che era stata introdotta da Deng nel 1982. In teoria il Xi Jinping può rimanere Presidente a vita come Mao e va notato che attualmente ricopre anche le cariche di Segretario generale del PCC e di presidente della Commissione militare centrale.

Sul piano locale Pechino (con 21 milioni di abitanti) ha istituito un sistema a punti per promuovere “comportamenti etici” e scoraggiare gli “atti antisociali” come ad esempio attraversare la strada con il semaforo rosso. La municipalità di Pechino ha annunciato che entro il 2021 sarà in grado di fare la prima valutazione dell’affidabilità personale dei suoi residenti.  Poi si parla di una tessera di identità elettronica da utilizzare per consentire o vietare l’accesso a certe zone e/o edifici pubblici.  Tutte le amministrazioni locali stanno lavorando ad un c.d. “progetto di credito sociale” per cui chi si comporta bene avrà luce verde in percorsi di promozione sociale, gli altri saranno registrati in liste nere – così riferisce Guido Santevecchi corrispondente del Corriere della Sera, sulla Lettura del 9-02-2020.  Si tratta di misure adottate a fin di bene oppure al contrario per attuare un controllo sociale pervasivo che non lascia alcun margine per la privacy – parola inesistente nel mandarino secondo sociologi sinologi. E’ Orwell 1984? Si ma molto peggio grazie alle nuove tecnologie informatiche che consentono la profilazione completa anche dei desideri delle persone. Potrebbe essere il trionfo del “Capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff ovviamente non solo in Cina e, probabilmente più avanti proprio nei paesi occidentali. C’è di che preoccuparsi.

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